Marwan, quattro anni, solo nel deserto

Il 16 febbraio 2014, Andrew Harper, responsabile in Giordania dell’agenzia ONU per i rifugiati UNHCR, scatta una foto nel deserto che divide il paese dalla Siria. Quel deserto in cui centinaia di cittadini siriani in fuga dalla guerra civile iniziata nel 2011 raggiungono a piedi la Giordania, dove vengono soccorsi dagli operatori umanitari di UNHCR e riuniti agli altri rifugiati del loro paese, prevalentemente nei campi profughi creati dalle Nazioni Unite.

La foto sembrerebbe una delle tante immagini che hanno saturato la nostra precaria comprensione del conflitto siriano e dei suoi effetti. Ma c’è qualcosa di più.

Marwan
Foto: UNHCR

Lo stesso giorno dello scatto, Harper decide di postare la foto sul suo account Twitter con il seguente testo: «Ecco Marwan, 4 anni, momentaneamente separato dalla sua famiglia e assistito dallo staff di UNHCR mentre entra in #Giordania pic.twitter.com/w4s2mrNnMY».

Normalmente i tweet di Harper vengono condivisi da una manciata di utenti. Ma in controtendenza con questo dato, la foto di Marwan viene condivisa più di un migliaio di volte e diventa “virale”. Per quale ragione?

Tweet 1In una delle immagini successivamente condivise da Harper, una foto scattata dal suo collega UNHCR Jared Kolher, Marwan (lo pseudonimo che Harper ha scelto per proteggere il bambino della prima foto) appare sullo sfondo, in cammino con un folto gruppo di rifugiati siriani.

Due giorni dopo il primo scatto, Harper posta questa seconda foto, con un pronunciato zoom digitale che inquadra Marwan in cammino nel deserto tra Giordania e Siria, in compagnia della sua famiglia e di molte altre persone. Il testo del tweet (a sua volta ritwittato da più di mille utenti) precisa: «Grazie a Jared per questo scatto che mostra Marwan in fondo al suo gruppo di @refugees. È separato – non è solo. pic.twitter.com/vq2JpxjT8j».

Tweet 2Cosa ha spinto l’operatore umanitario UNHCR a tutte queste precisazioni? Subito dopo la condivisione della prima foto da parte di Harper, numerose agenzie di stampa avevano dato risalto alla notizia, enfatizzando la condizione di solitudine di Marwan: una sorta di tragedia nella tragedia.

Ad esempio, una nota anchor di CNN International, Hala Gorani, aveva rilanciato la foto aggiungendo che Marwan, che nell’immagine appare in mezzo a vari operatori UNHCR, è stato trovato «mentre attraversava da solo il deserto, dopo essere stato separato dalla sua famiglia in fuga dalla Siria».

Tweet GoraniMa dopo che l’immagine ha generato un tam-tam di compassione per “il bambino siriano solo nel deserto in fuga dalla guerra civile” e attenzione da parte dei media, la stessa agenzia ONU si è affrettata a smentire il contenuto che questa intendeva veicolare. Queste sono le parole di un portavoce dell’agenzia: «Lasciatemi innanzitutto dirvi che il bambino era stato separato temporaneamente. Era poco dietro la sua famiglia. La sua famiglia era davanti e Marwan si era solo staccato. Questa è la storia. Non è entrato [in Girodania] come minorenne non accompagnato… era solo rimasto indietro di una manciata di metri»[1].

Marwan-Family
Foto: UNHCR

Questa storia potrebbe sembrare un semplice caso di mismanagement di un’immagine da parte di una prominente agenzia umanitaria. Ma si tratterebbe di una lettura superficiale, incapace di cogliere le questioni di carattere epistemico e politico in essa implicate.

La storia dell’immagine di Marwan costituisce piuttosto l’esemplificazione di una serie di problematiche riguardanti la funzione testimoniale delle immagini all’interno del discorso e della pratica umanitaria. In un’epoca in cui è ormai impossibile dare per scontato – come la vicenda dell’immagine di Marwan e le precisazioni che sono seguite mettono in luce – il rapporto tra la “fotografia” e la “realtà” della tragedia, occorre interrogarsi sui principi di funzionamento dei meccanismi epistemici attraverso i quali si producono le immagini umanitarie, nonché sulle dinamiche e le finalità della loro divulgazione.

Da questo punto di vista, il frame meramente spettacolarizzante della foto di Marwan solleva due problemi.

In primo luogo, il fatto che Harper abbia tentato di rappresentare la tragedia siriana ricorrendo a un frame facilmente spendibile in un’economia etica come quella umanitaria in cui l’immagine del bambino-individuo solo si è trasformata in una sorta di cliché, manifesta un livellamento della funzione testimoniale dell’immagine sulla spettacolarità, in quanto promessa di visibilità e disseminazione di valori umanitari su larga scala. L’inquadratura di Harper, così come i processi cognitivi che hanno determinato la scelta del suo soggetto, fanno indubbiamente parte di un più ampio processo di circolazione di discorsi sociali che costituiscono le logiche dominanti con cui molti operatori umanitari, così come i giornalisti, i fotografi e i videomakers che lavorano in contesti di crisi umanitaria ottemperano alle loro mansioni e rispondono all’esigenza etica di farsi testimoni di una tragedia.

In secondo luogo, la figura stessa dell’operatore UNHCR-fotografo ci racconta di una trasformazione del rapporto tra interventi umanitari e produzione di immagini testimoniali: negli scenari umanitari contemporanei, la divisione del lavoro di testimonianza ha assottigliato le distinzioni specialistiche dentro cui normalmente pensiamo ciò che accade dopo le catastrofi e le modalità con cui le testimonianze post-catastrofe vengono elaborate. La sovrapposizione tra chi produce immagini dei contesti umanitari e chi in quei contesti presta soccorso è sempre più pronunciata.

Ciò che determina questo processo è anche la costante trasformazione del significato di farsi testimoni nei contesti umanitari: il fotografo e l’operatore umanitario si muovono in un regime etico all’interno del quale entrambi si sentono testimoni, ed entrambi si servono degli stessi media per comunicare al mondo la loro testimonianza. Questa sovrapposizione o interscambiabilità di ruoli si fa ancora più pronunciata se si pensa alla sempre più stretta interrelazione tra produzione di immagini, produzione di notizie e attribuzione di significato agli interventi umanitari.

Laddove non vi sono immagini spettacolari prodotte dalle varie tipologie di testimoni che raccontano gli eventi di un determinato contesto, è raro trovare e legittimare interventi umanitari. È questo uno dei tratti distintivi delle politiche delle emozioni che gli interventi umanitari mobilitano. Le crisi, e tanto l’investimento di compassione quanto l’investimento di fondi che a esse seguono, si costruiscono sempre più in relazione alle modalità con cui i testimoni compongono le immagini delle stesse.

L’assottigliamento della distanza tra la funzione testimoniale e la funzione umanitaria impone un terzo livello di riflessione connesso ai primi due.

In prima battuta, nella loro pretesa di immediatezza, spesso le narrazioni umanitarie elidono i processi attraverso cui chi lavora in contesti umanitari dà forma alla propria specifica forma di testimonianza. Così, per Harper l’immagine della tragedia di cui l’operatore UNHCR si fa testimone coincide con la tragedia, e questo di per sé giustifica, quasi ontologicamente, l’intervento umanitario stesso: “Here is Marwan […] assisted by UNHCR”.  In secondo luogo, queste modalità di narrazione tendono all’efficacia emozionale piuttosto che all’approfondimento politico, finendo così per elidere altre possibili letture degli eventi.

Schiacciato dalla spettacolarità del frame, il quadro di violenza da cui proviene Marwan insieme alla sua famiglia e altre persone scompare: Marwan, 4 anni, solo nel deserto.

 


[1] Harriet Sherwood and Shiv Malik, “Image of Syrian boy in desert triggers sympathy – and then a backlash”, The Guardian, Tuesday 18 February 2014.

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