Self made girls

La buonanotte per bambine poco ribelli.

Palestinian girls exiting the restricted street area (ForestForTrees)

L’elezione di Kamala Harris alla vicepresidenza degli Stati Uniti potrebbe essere la fiaba della buonanotte che manca all’ultimo volume del progetto letterario della media company Rebel girls. Il libro, Storie della buonanotte per bambine ribelli. 100 donne migranti che hanno cambiato il mondo, uscito per Mondadori a fine ottobre scorso, riprende la formula dei primi due volumi della serie di successo: una raccolta di brevissime biografie femminili esemplari, scritta in modo semplice e destinata ad un pubblico di bambine; a differenza delle due raccolte precedenti quest’ultima racconta storie di donne che hanno realizzato il proprio sogno in un Paese diverso da quello d’origine. Parole d’ordine: coraggio, talento, determinazione nel farsi strada e magari, come la storia della Harris ci suggerisce, leadership.

Dietro questo ultimo libro c’è una start up, Timbuctu labs, creata da due italiane, trasferitesi negli USA, Elena Favilli e Francesca Cavallo, che produce, oltre ai suddetti volumi, anche giochi, magazine digitali e gadget con contenuti che intendono essere ispiranti per le nuove generazioni di bambine. Le Storie della buonanotte è stato, dal lancio sulla piattaforma Kickstarter, il progetto letterario che ha raccolto più fondi nella storia del crowdfunding, secondo le dichiarazioni entusiaste delle due imprenditrici. Si stima che queste storie, tradotte in oltre cinquanta lingue, abbiano raggiunto un pubblico di oltre tre milioni di bambine. L’empowerment femminile, come ci dimostra anche questa avventura imprenditoriale, oltre ad essere un fenomeno culturale, è un contenuto che vende.

L’enorme successo della serie non ha mancato di attirare la censura in alcuni stati come Turchia e Russia; ma questa ostilità di Paesi noti alle cronache per praticare discriminazioni di genere non ha fatto che accrescere l’aura progressista del progetto nato, secondo la dichiarazione d’intenti delle startupper/autrici, proprio per combattere le discriminazioni. Ogni critica, che non celebri il progetto per le sue lodevoli intenzioni, può suonare dunque conservatrice o addirittura illiberale, polarizzando il giudizio tra chi sta con le bambine ribelli e chi le vorrebbe sottomesse. Eppure credo che un’altra lettura sia possibile per questa operazione che è diventata un caso letterario dell’ultimo lustro. Cosa allora può esserci di discutibile in un progetto narrativo che propone alle bambine piccole biografie edificanti di donne di successo per augurare loro sogni d’oro? Il primo aspetto disturbante è che in questo volume la proposta culturale per l’infanzia è già marketing prima ancora di raggiungere il suo pubblico. Se come afferma Roland Barthes un libro è un pensiero che si fa merce, potremmo commentare che questo volume è già merce che tuttavia sceglie la scrittura come dispositivo per confezionare, per un pubblico giovanissimo, un pensiero all’insegna del conformismo. Cento microstorie decisamente scialbe, davvero poco significative per essere un libro «di favole “moderne”, basato sulle vite di donne straordinarie, storie più educative del vecchio modello Cenerentola»Questo giudizio iconoclasta nei confronti delle fiabe tradizionali, pronunciato in nome di un certo femminismo pop è un luogo comune alquanto diffuso. È senz’altro noto che l’immaginario collettivo si formi anche attraverso le rappresentazioni proposte, tuttavia bruciare la povera Cenerentola onestamente non sembra sia questo gran gesto per liberare le coscienze future. È altrettanto noto, per fortuna, che le fiabe della tradizione non siano solo storielle educative impartite a bambine troppo piccole per capire storie complesse, ma che rappresentino invece un repertorio straordinario per tradurre in immagini visive i propri stati interiori, magari da condividere e problematizzare con gli adulti. Se vogliamo liberare l’immaginario infantile dagli stereotipi di genere, potremo iniziare – perché no? – a rifiutare narrazioni fin troppo semplificate del reale, a meno che queste non servano a creare nuovi modelli di subordinazione. E già qui chi volesse essere ribelle potrebbe anche non volersi riconoscere in una collezione di figurine confezionate con un intento così marcatamente didascalico da sembrare una piccola dottrina. Esistono numerose riscritture di fiabe che tengono conto della distanza in termini di sensibilità culturale dal contesto in cui sono nate molte delle fiabe della tradizione. Un esempio recente è il lavoro di Angela Carter, Le mille e una donna (Donzelli, 2020).

Riguardo alla scelta dei soggetti narrati, apprendiamo poi che sarebbe stata lasciata agli stessi lettori/finanziatori/consumatori. Raccontano infatti le autrici che la loro start up ha creato un prototipo di poche storie, che poi il progetto, ritenuto meritevole, ha trovato il finanziamento e che infine il volume è cresciuto con il contributo dal basso in risposta alle esigenze e alla curiosità di chi legge. Questa genesi dell’opera giustificherebbe anche l’eterogeneità dei modelli femminili proposti e un certo spirito ecumenico nell’accogliere imprenditrici, sportive, scienziate o cantanti, attiviste e politiche di destra e di sinistra. La quantità e la varietà dei profili proposti è effettivamente disorientante e si fatica a trovare un denominatore comune a queste biografie, che pure c’è. Le bambine dovrebbero aver voglia di ribellarsi sulla base di questa verità nota, cioè che ci siano donne capaci o addirittura straordinarie?

Il progetto narrativo sembra ascrivibile a quel genere di letteratura di consumo, self made book o testi ispiranti che ogni donna che desideri avere cura di sé dovrebbe leggere. Si tratta di biografie, articoli, addirittura blog che hanno come obiettivo l’autopromozione e una vita di successo e gratificante. Bambine ribelli qui può intendersi anche come piccole donne che non si accontentano dei modelli proposti, ma che intendono investire nel proprio futuro. Catherine Rottenberg, nel volume L’ascesa del femminismo neoliberista (Ombrecorte 2020), approfondisce le ragioni della nuova visibilità di contenuti relativi al genere nei prodotti culturali main stream e riconosce a tali prodotti la funzione di contribuire alla creazione di nuovi soggetti femministi. L’indagine della studiosa muove dal prendere atto di un’ampia proliferazione di dichiarazioni di femminismo, che ha dato una ribalta straordinaria ad una questione prima relegata quasi esclusivamente ad un dibattito accademico e/o militante. Rottenberg individua nei contesti indagati l’affermazione di un nuovo lessico femminista (felicità, responsabilità, conciliazione, successo), che è espressione di nuove istanze, capaci di rendere il femminismo non solo accettabile, ma addirittura fonte di consenso. Le ragioni del successo (anche) commerciale di questo nuovo femminismo risiederebbero proprio nella sua mutazione rispetto alle vecchie istanze militanti: la rivendicazione della diversità di genere rinuncia ad essere richiesta di affermazione di un’alterità e dunque di un altro mondo possibile; anziché pari diritti per tutte, questo nuovo femminismo aspira a pari opportunità con i colleghi maschi per quelle donne che riusciranno a farcela. Si tratta di una rivendicazione di genere niente affatto inclusiva o che tenga conto della condizione della maggior parte delle donne nel mondo; tende piuttosto ad escludere quelle categorie più fragili, di cui pure molte donne fanno parte.

Non è difficile riconoscere in questo discorso (ben più articolato di questo riferimento) alcune delle parole d’ordine di cui si compongono le nostre storie della buonanotte, quasi una sorta di versione junior delle proposte per donne adulte: privilegiare l’esperienza individuale rispetto ai contesti, essere positivi nel trasformare la propria vita evitando conflittualità. Nelle dichiarazioni delle autrici il volume dedicato alle bambine ribelli dovrebbe stimolare le giovanissime lettrici «a diventare esse stesse agenti del loro cambiamento, con gioia e determinazione».  I profili delle donne raccontate celebrano infatti l’identità femminile e migrante prima di tutto come esempio individuale di affermazione di sé in termini di talento, duro lavoro o di capacità imprenditoriale (molte donne del volume diventano imprenditrici di successo da Arianna Huffington a più o meno note chef o informatiche o stiliste e alla stessa autrice). È questa razionalità imprenditoriale il filo conduttore che sembra orientare tutte le biografie raccontate. In che misura Rihanna e Madeleine Albright sono rappresentative di una storia che non sia la loro? O la meno nota Chinwe Esimai che dalla Nigeria è diventata dirigente finanziario negli USA? O quanto la giovane giocatrice di bowling colombiana, Clara Guerrero Lodoño, potrebbe dire delle donne latinoamericane in cammino verso il sogno americano?

In questa individualizzazione dell’esperienza, che fatica per questo ad essere rappresentativa di un numero significativo di donne e migranti, la sciatta biografia dal retrogusto agiografico si rivela un genere funzionale e pratico; e lo è sicuramente molto più della fiaba, genere invece che, se praticato con coraggio, potrebbe rivelarsi una narrazione ben più sovversiva, perché capace, con i suoi travestimenti, di evocare contesti di provenienza e/o approdo ben più problematici. In nessuna di queste storie ad esempio si avverte il senso di sradicamento che pure caratterizza la maggior parte delle vite migranti o il senso di un’alterità culturale che potrebbe dirci qualcosa anche di noi. Neppure nei casi di donne migranti che si sono spese per le loro comunità si apre una prospettiva comune di rivendicazione di diritti negati. Anzi la narrazione che qui prevale sulle istanze delle protagoniste è la celebrazione del grande paese che le ha accolte e che ha dato loro la possibilità di esprimersi. Non esiste nessun cenno ad un contesto in cui le politiche economiche o militari o coloniali di quel Paese magnanimo possano essere tra le causa della distruzione dei paesi di origine (Guatemala, Somalia, Iraq per fare alcuni esempi di paesi di provenienza delle nostre eroine). Anche in questo le nostre biografie poco ribelli si mostrano conformi alla vulgata dominante, forse oltre la consapevolezza e le intenzioni delle stesse autrici. Vengono in mente le narrazioni giustificatorie delle guerre scatenate in nome della liberazione delle donne all’indomani dell’11 settembre e il senso di superiorità morale che nutre le autorappresentazioni di un Occidente tutore dei diritti delle donne.

foto di Oxfam International

Gli altri sono oscurantisti, intolleranti e arretrati e, nel caso dei musulmani, una minaccia per la cultura democratica. Caso emblematico è rappresentato da Israele, sedicente avamposto di civiltà in quel Medio Oriente dilaniato, dove le donne sono spesso ostaggio di fondamentalismi. Proprio Israele, sebbene piccolo stato numericamente, è insieme agli Stati Uniti tra i Paesi di approdo più rappresentati nel volume, acclamato per accogliere donne in cerca di affermazione e offrire loro opportunità. Tra loro c’è addirittura Golda Meir, migrante in quelle terre prima ancora che lo Stato di Israele esistesse. Meir, la pioniera sionista, è meritoriamente nota più per il suo pugno di ferro, che per il suo contributo alla causa delle donne e non per certo delle donne palestinesi, che nonostante quanto lei affermasse, eppure esistevano nella regione. Figurando come uno degli indicatori della civiltà occidentale, il riconoscimento dei diritti delle donne rende l’idea stessa della violazione di diritti umani, pure largamente praticata a Gaza e nei Territori Occupati, qualcosa di assolutamente estraneo alla natura democratica di quello stato che protegge le sue donne nella regione.

Queste sono solo alcune delle riflessioni suggerite dalla lettura di un volume di scarsa qualità e dubbio merito, che pure non è da ignorare perché letto da molte bambine, da parecchi genitori e suggerito anche come percorso di lettura nelle scuole. Né possiamo sperare che rimanga un caso letterario isolato poiché, spinte dal successo, le autrici/imprenditrici hanno annunciano trionfanti che la loro “missione” di crescere ragazze che hanno il loro destino in mano non è finita. Dovremmo piuttosto chiederci noi se sia davvero questa l’educazione di genere a cui aspiriamo. Perché se desideriamo per le bambine sogni più grandi del presente vorremmo poter raccontare loro una favola della buonanotte in cui l’affermazione delle donne avvenga in un mondo di pace e diritti per tutti, dove non ci siano vincenti ed escluse, né vittime e oppressori; né vorremmo che si insegnasse alle bambine che la vita di certe donne vale più di altre vite. Per farlo occorre ribellarsi davvero a questo stato di cose, forse rifiutando anche questo tipo di narrazioni e ai suoi fantasmi.

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