Renzi, il Valle occupato e il bene comune made in Eataly.
L’ambiguo status giuridico ed economico del Teatro Valle Occupato è stato di recente al centro di rinnovata attenzione mediatica. La doppia spinta del mancato riconoscimento istituzionale, da parte della Prefettura romana, della Fondazione “Teatro Valle Occupato Bene Comune”, e delle dichiarazioni rilasciate da Matteo Renzi durante il discorso di commiato dalla carica di primo cittadino di Firenze, rilancia l’ennesima riduzione parodistica del discorso sul bene comune aperto al Valle tre anni fa al criterio “tecnico” della legalità.
Emerite firme del giornalismo culturale e nomi di spicco del settore si erano già espressi in questo senso, sottolineando diversamente la “situazione di comodo” perpetuata dal Valle rispetto alle istituzioni e la conseguente lesione degli altrui diritti. Una linea ben chiarita da Gino Paoli, che, in qualità di presidente della Siae, ha tuonato l’anno scorso contro uno stabile che «che gode di vantaggi arroganti perché non rispetta le regole della concorrenza, evade completamente le tasse, non versa i contributi previdenziali Enpals e non rispetta alcuna misura di sicurezza per autori, tecnici e spettatori».
Non voglio entrare nel merito di queste critiche, che sollevano ognuna problemi in diversa misura effettivi, ma avanzare qualche riflessione sulle distorsioni di un pensiero medico tutto italiano che riduce sistematicamente l’antagonismo politico a difetto – etico, psicologico, procedurale – del singolo individuo.
Un meccanismo stereotipante, come il filtro cartoon delle macchinette digitali, che inquadra la differenza politica espressa da categorie di soggetti sempre più numerose e sempre più diverse nei termini generazionali del modello monofamiliare borghese, con una mamma-Stato alle prese con adolescenti “difficili”, parodici e fondamentalmente innocui, ennesime varianti del ribelle delle quattro del mattino cantato da Freak Antoni: un vitellone mosso da bisogni scatologici rivestiti col cappello dell’ideologia.
Il ribelle risuona nel fuoco di fila di dichiarazioni istituzionali “tecniche” sul problema del precariato (gli choosy Di Elsa Fornero, gli sfigati di Michele Martone, i mammoni di John Elkann), e qualche volta assume la forma esplicita della patologia, come quando Aldo Grasso, dalle pagine del Corriere della Sera, si cimenta niente meno che nell’analisi psicoanalitica dell’inconscio di Erri De Luca e dei suoi traumi irrisolti con Lotta Continua per spiegarci l’esternazione No Tav dello scrittore (senza peraltro ritenere necessario, nella stessa occasione, riportare anche le ragioni avanzate dal “paziente”, alla luce del giorno e in piena facoltà di coscienza, per opporsi a un progetto da più fronti riconosciuto obsoleto, di cui come minimo si può dire che richiede un immane impiego di risorse senza che sia chiaro quanto e se risponda a un effettivo bisogno).
A proposito del Valle, il neo Presidente del Consiglio è stato molto più sbrigativo e politically correct del fervente Paoli:
Quando mi dicono che per salvare la cultura bisogna fare come stanno facendo al Teatro Valle di Roma, io dico che ci sono altre soluzioni, come ad esempio abbiamo fatto noi con il Teatro della Pergola, il più antico d’Europa”. […] “Anche se La Pergola non è occupata, è un bene comune. Non capisco proprio chi sostiene che bene comune sia soltanto il modello che prevede l’occupazione, come nel caso del Valle di Roma.
Il quadro è chiaro: il bene comune è un valore dato, neutro (il bello), sancito dalla tradizione (il più antico d’Europa), a-temporale, che l’azione politica ha il compito di ottimizzare (vedi gli eccellenti lavori di restauro eseguiti dal Comune di Firenze) e rendere accessibile (a condizioni di mercato) alla collettività. Come è altrettanto chiaro che, in questi termini, il “modello che prevede l’occupazione” non può che suonare adolescenziale e scorretto, visto che i due teatri perseguono gli stessi fini e uno dei due si sottrae alle regole della concorrenza ledendo gli interessi dell’altro e della collettività intera.
Per quanto ovvio, non è inutile ricordare che uno degli esiti più importanti della grande riflessione sul concetto di bene comune che ha visto nel Valle uno dei suoi principali promotori è quella di aver messo in discussione tale quadro.
In modi certo controversi per molte ragioni, il Valle e le altre realtà occupate italiane oggi coinvolte in progetti partecipativi inclusivi sempre più concreti e articolati hanno quantomeno il merito di aver formulato con estrema chiarezza una domanda politica – è possibile immaginare un’alternativa al neocapitalismo? – oggi completamente epurata dal dibattito politico e mediatico se non nei termini del folklore nostalgico.
In questo senso l’occupazione di uno spazio pubblico (e l’ambiguità legale che ne deriva) non è la soluzione del problema né la risposta alla domanda, ma il tentativo di creare le condizioni perché si possano formulare domande migliori, individuare i problemi giusti, mettere a fuoco di conseguenza strategie alternative.
Il “modello” Valle ha innescato un processo che coinvolge artisti, operatori, teorici, critici, lavoratori dello spettacolo e a pioggia numerose altre istanze trasversalmente portatrici di valori alternativi a quelli inscritti nell’attuale assetto istituzionale del sistema cultura, che hanno deciso di provare a inventare risposte forse ancora vaghe a domande che invece sono già molto precise, e che ci riguardano tutti: come si definisce il valore culturale? Quali autorità – politiche, accademiche, culturali – sono coinvolte in questa definizione? Di che natura è il “bene” che ne deriva e quali sono le condizioni per accedervi? Quali obbiettivi e quali finalità riconosce l’istituzione al lavoro culturale? Come ricade la definizione del valore culturale nella distribuzione delle cariche pubbliche e private coinvolte nella sua produzione e gestione, nella ridefinizione delle professionalità vecchie e nuove legate al mondo della cultura, nella distribuzione dei fondi, nell’accesso ai finanziamenti? Come si articola il valore culturale con la sostenibilità economica? Quanto una concezione estetizzante (e quindi accessoria) del valore culturale – la tradizione delle Belle Arti – inibisce lo sviluppo di modelli di sostenibilità alternativi alle logiche di mercato?
L’appello alla legalità, al merito e alla responsabilità lanciato al Valle è legittimo e rientra nelle funzioni istituzionali di un Sindaco e di un Presidente del Consiglio, ma sono tutte queste domande, che sono politiche e interrogano direttamente l’attuale assetto di poteri e interessi legati al sistema cultura, a sparire fra le pieghe del costume e della morale. E ne deriva che l’idea stessa di “trasformazione politica” non è più legata all’esito negoziale di diverse visioni del mondo, ma all’ottimizzazione di principi in sé ineluttabili, come sancisce, in caso ce ne fosse bisogno, l’onorevole Biancofiore salutando il neo-presidente come “gagliardo” in continuità, nella sua forza esplosiva, con Erasmo da Rotterdam, Silvio Berlusconi e Steve Jobs. Tutto può cambiare con la giusta dose di hunger & foolishness tranne lo status quo, cioè niente.
È rispetto al nuovo cinismo “post-ideologico”, all’idea che niente di strutturale e significativo nell’attuale stato di cose può essere modificato, che il “modello dell’occupazione” chiama a prendere parola. Brecht diceva che il mondo di oggi può essere raccontato agli uomini di oggi solo come un mondo che può essere cambiato: riconosciamo almeno alla Fondazione Teatro Valle Occupato Bene Comune il merito di insistere su questa possibilità. Il suo destino è incerto, e questa in Eataly è la vera notizia.