Tempi e memorie del disastro

Storia e antropologia nel lavoro di Gabriele Ivo Moscaritolo sul sisma irpino

S. Angelo dei Lombardi

In occasione del quarantennale del terremoto del 23 novembre 1980 in Campania e Basilicata, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha definito quel disastro «il più catastrofico evento della storia repubblicana» che causò la morte di quasi tremila persone e un dolore inestinguibile per tutto il Paese, sofferenze, disperazione e sacrifici che si sono prolungati per gli anni successivi. Mattarella, poi, ha aggiunto che «il senso di comunità che consentì allora di reagire, di affrontare la drammatica emergenza, e quindi di riedificare borghi, paesi, centri abitati, e con essi le reti di comunicazione, le attività produttive, i servizi, le scuole, appartiene alla nostra memoria civile» (Mattarella 2020).

I confini della memoria sono mutevoli e, se ad ogni anniversario di quell’evento si rinnova l’impulso a commemorare, vuol dire che – per usare le parole di Antonio Cavicchia Scalamonti (1997) – «qualcosa sta sfuggendo e si tenta di correre ai ripari». Questo è particolarmente evidente nei decennali, come nel caso del sisma irpino, pochi mesi fa: li si considera tempi di bilanci, dunque tempi in cui selezionare fatti, accumulare testimonianze, raccogliere memorie sia per “pesare”, sia per trasmettere eredità. A questo proposito, è interessante che nel corso del 2020 ci siano state varie pubblicazioni dedicate al sisma dell’80 – alcune, tra le più significative, pubblicate da Stefano Ventura (“Storia di una ricostruzione. L’Irpinia dopo il terremoto”); Irene Falconieri, Fabio Fichera e Simone Valitutto (“Irpinia 1980. Evocare il terremoto, ripensare i disastri”); Gabriele Ivo Moscaritolo (“Memorie dal cratere: storia sociale del terremoto in Irpinia”). Sono il risultato di sforzi intellettuali che provano a fissare le coordinate del ricordo, ossia i criteri per scegliere ciò che va ricordato, un processo che nel volume di Moscaritolo assume anche un importante valore empirico, perché la ricerca stessa è stata un’occasione per ricostruire e verbalizzare dei ricordi, talvolta emersi per la prima volta da quel triste evento, come nel caso di Erberto, un giovane dissepolto di quel 23 novembre: «Lentamente, immagini e sensazioni prendono forma e ciò che prima dimora nel regno della rêverie assume concretezza. Esitazioni, brevi digressioni e improvvise interruzioni accompagnano la nascita del racconto» (p. 133).

Sappiamo quanto articolata sia l’elaborazione di una memoria collettiva, perché vi interviene una gran varietà di processi messi in atto con la rievocazione (Connerton 1999), e infatti Moscaritolo, utilizzando una singola parola al plurale, “memorie”, esplicita fin dal titolo due elementi fondamentali del libro: il campo del suo lavoro e la problematicità dello stesso. Con tale scelta, Moscaritolo esprime consapevolezza della complessità, della fluidità, della pluralità del concetto, infatti pagina dopo pagina, capitolo dopo capitolo, l’Autore restituisce una serie di sfumature del ricordo che procedono per eventi di durata diversa, ma di intensità costante.

La struttura del libro è data proprio dalla scansione di questi tempi: sette capitoli, più una corposa introduzione, che trattano secoli, secondi, mesi, anni, decenni. Sono periodi estremamente differenti, eppure ciascuno contribuisce – in maniera più o meno esplicita – a definire la «geoantropologia», per usare un’espressione di Vito Teti (2015), di una “terra inquieta” che Moscaritolo riassume in modo efficace con un’immagine fortemente evocativa: «[è] come se le vibrazioni provenienti dal sottosuolo si fossero ripercosse ben al di là del terreno e delle abitazioni per estendersi nella vita di persone e intere collettività; onde lunghe per via delle quali la parola terremoto per decenni è stata, ed è ancora, quella che può spiegare gran parte della vita di individui e famiglie, fatti e vicende del passato e del presente» (p. 16).

Di come la “civiltà irpina” conviva da millenni con il pericolo sismico, Moscaritolo scrive nel primo capitolo, in cui introduce il concetto di «continuum disastroso», che non solo non si è mai interrotto, ma, attraverso i secoli, si è addirittura rafforzato grazie alla vulnerabilità e all’inadeguatezza degli edifici o, dopo l’Unità d’Italia, per una concezione minimalista e centralista, frutto di una radicata cultura del laissez faire. Questo ha avuto un momento di ripensamento solo con la tremenda catastrofe di Messina e Reggio Calabria del 1908, quando si avviò una prima legislazione che prevedesse l’intervento dello Stato, sia durante la fase di emergenza immediata, sia durante quella di ricostruzione. Il continuo ripetersi di distruzioni e conseguenti salti indietro di generazioni ha segnato gli abitanti irpini, determinandone il paesaggio quotidiano e gli strumenti socio-culturali adottati per la sopravvivenza, dovendo riformulare senza sosta il loro rapporto con l’ecosistema. È una memoria che Moscaritolo ricostruisce dalla letteratura, ma che risulta indispensabile «per comprendere la continuità del mondo sociale e i modi della sua riproduzione, così come le modalità attraverso le quali i suoi cambiamenti sono percepiti ed elaborati dalle persone» (p. 21). Il terremoto del 1980, infatti, assume un significato peculiare proprio inserendolo nel contesto sociopolitico in cui è avvenuto, cioè al culmine di alcuni decenni in cui gli effetti del “boom economico” che aveva investito la nazione dal secondo dopoguerra, in Irpinia si erano mostrati come una modernizzazione iniqua e ingiusta, se nel 1975 la provincia di Avellino risultava all’ultimo posto della graduatoria nazionale per il reddito pro-capite, con una cifra per abitante pari alla metà della media nazionale. Si tratta del tema al centro del secondo capitolo, “Il tempo interrotto: l’Irpinia prima del terremoto”, che recupera una memoria spesso rimossa di quanto il progresso arrivava lentamente e, soprattutto, senza produrre un vero sviluppo, tra propaganda politica e promesse di opere pubbliche slegate dal contesto territoriale.

Conza della Campania, la ricostruzione (credits: Pro Loco Compsa)

È a questo punto che il terzo capitolo, quello dedicato all’intervallo temporalmente più breve, i 90 secondi della scossa devastante, alle 19:34 di domenica 23 novembre 1980, recupera memorie personali e collettive che vengono riproposte in una cadenza che rievoca la fine del mondo, di quel mondo, il mondo degli irpini della seconda metà del Novecento. Tra i testimoni ascoltati da Moscaritolo, molti – a distanza di quattro decenni – si sono risolutamente rifiutati di parlare di quell’evento e altri, durante le interviste, arrivati a quel punto del racconto si sono interrotti, sopraffatti dalla commozione. Quel momento non è mai passato, è ancora presente, perfettamente “fotografato” come capita per i ricordi di eventi perturbanti, capaci di suscitare forti emozioni e, tecnicamente, definiti con la categoria “flashbulb memories” (p. 108). Altrettanto importante per il ricercatore, tuttavia, è il silenzio di alcuni informatori, un dato che, contrariamente agli approcci dilettanteschi, fornisce anch’esso risposte preziose per ricostruire l’esperienza diretta di allora, la percezione che ne è seguita e l’elaborazione del trauma. Sebbene ognuno viva una situazione diversa, la sorpresa, l’angoscia e il disorientamento sono comuni a tutte le testimonianze, così come la percezione che il tempo si dilati e lo spazio si rimpicciolisca: a pagina 109, ad esempio, Moscaritolo osserva che «chi racconta non sembra più essere l’artefice della trama della propria esistenza ma è investito da azioni a lui estranee, l’evento mantiene inalterato il suo carattere di concretezza e la sua caratteristica maggiormente enfatizzata è l’autenticità, cioè un attributo che deriva dal fatto che esso sia vero, accaduto inequivocabilmente».

Ma ogni disastro è un processo, come è ormai consolidato tra gli scienziati sociali: una catena di eventi ed effetti generata da una relazione di lunga durata tra l’uomo e l’ecosistema, lungo le linee di frattura del corpo politico e sociale, e che, dunque, non termina con la conclusione del fenomeno fisico, ma può estendersi indeterminatamente e infiltrarsi nella vita quotidiana. Così, il lavoro di Moscaritolo nei due capitoli successivi si sofferma su altrettante fasi post-sismiche: il primo anno dopo la scossa (“Dall’emergenza ai prefabbricati”) e gli anni, anzi i decenni successivi, quelli della “ricostruzione”. Qui i ricordi dei testimoni ascoltati dall’Autore si fanno più imprecisi e plurali, talvolta sfumati, sia perché dopo il trauma giunge un “periodo di latenza” in cui si riassorbe lo shock e si riorganizzano le funzioni ordinarie, per cui la memoria ne è spesso compromessa (Djament-Tran, Reghezza-Zitt 2012), sia perché politicamente più compromettenti, non a caso emergono letture diverse del da farsi, si strutturano alleanze nuove, si procede secondo differenti idee urbanistiche e sociali. Emblematica è la testimonianza di Franco, abitante di Sant’Angelo dei Lombardi: «Quando c’è stato il terremoto e come ogni tragedia c’è chi realmente subisce danni e si immiserisce, va in depressione e quant’altro e c’è chi invece… apre gli occhi diciamo così come opportunità di inserimento nel… in un mondo nuovo perché il terremoto nel chiudere una partita, nel far saltare gli equilibri di una comunità, si riparte da zero diciamo così…» (p. 162).

Restituendo gli elementi di rottura, come l’abbandono della cultura rurale, e quelli di continuità, come il consenso intorno ai politici locali che occupavano posizioni di caratura nazionale, Moscaritolo poi compie un approfondimento su due casi-studio, riguardanti le ricostruzioni di Sant’Angelo dei Lombardi e di Conza della Campania, che riflettono due modelli diversi, tra il recuperare e il rifondare. Si tratta del capitolo più corposo, basato su un dilemma antico, in cui il motto «com’era, dov’era» può farsi risalire almeno al 1903, quando l’allora sindaco di Venezia, Filippo Grimani, lo pronunciò più volte in occasione della posa della prima pietra per la ricostruzione del Campanile di San Marco, crollato l’anno precedente (Ciccozzi 2015). Il secondo modo di ricostruzione, invece, si basa sulla delocalizzazione e sul trasferimento: una vera rifondazione che, tuttavia, oltre ai problemi ingegneristici e urbanistici di riedificare le strutture fisiche, architettoniche, del centro abitato, comporta anche un problema strettamente sociale e antropologico, per l’esigenza di interpretare il senso di spaesamento dei sopravvissuti, e di contribuire alla ricostruzione del loro paesaggio culturale.

Come sottolinea Moscaritolo, i percorsi intrapresi dai due paesi «iniziarono a delinearsi già dai primi giorni dopo la catastrofe poiché la popolazione conzana trovò riparo a valle già dalla seconda notte, mentre a Sant’Angelo molti non vollero abbandonare i luoghi che erano stati teatro della tragedia. Tali dinamiche influirono anche su tempi, modi e spazi dell’emergenza e della ricostruzione» (pp. 204-205).

È nella consapevolezza di quest’intreccio tra lacune preesistenti e aumento dei rischi futuri che, infine, l’Autore affronta il capitolo conclusivo, ossia l’ultima scansione temporale del viaggio nelle memorie del sisma irpino, quella dell’avvenire. Il titolo – “Chi passa a cavallo non vere niente” – è un proverbio popolare locale con cui si indica come allo sguardo di chi si pone dall’alto restino invisibili molti particolari. L’analisi di Gabriele Ivo Moscaritolo è, invece, un’occasione per immergersi in un archivio e ad andare per strada, dove ascoltare le persone del passato e gli abitanti del presente, recuperando le fila di un discorso collettivo plurale, talvolta contraddittorio e conflittuale, su cui troppo spesso è stato steso un velo di retorica, stereotipi e pregiudizi. Il lavoro di scavo dello studioso ha permesso di guardare in faccia il trauma e di decodificare le narrazioni, nella speranza che questo possa contribuire a pacificare le generazioni e di elaborare una “postmemoria” collettiva (p. 263). Tra la “rinascita impervia” di Conza e la “rinascita incompiuta” di Sant’Angelo, Moscaritolo invita a coltivare un seme di speranza che impari dalla memoria, sebbene sia una dinamica non scontata: «Vivificare le storie, le trasformazioni e le narrazioni locali può mostrarci la complessità dei cambiamenti che investono territori e persone dopo una grande catastrofe. Soprattutto, questa prospettiva ci consente di adottare uno sguardo di lungo periodo e di conseguenza cogliere i segni della tragedia che persistono sia nello spazio materiale sia nei vissuti individuali e collettivi» (p. 271).

Conza della Campania, il vecchio e il nuovo paese in ricostruzione (credits: Pro Loco Compsa)

Questa citazione è tratta dalle pagine conclusive di un volume molto denso, inevitabilmente le più “politiche”, nel senso che sono le più cariche di visione, di domande e di possibilità. In Irpinia e in tutto l’Osso del Mezzogiorno, ci saranno ancora terremoti, perché è la natura geologica di quella terra, ma aver ascoltato i ricordi e il vissuto di chi nella propria esistenza ha dovuto confrontarsi con un disastro dell’entità del sisma del 1980 è un lavoro prezioso per comprendere le dinamiche degli smottamenti fisici e sociali, delle mobilità geografiche e identitarie. Con questo libro, Moscaritolo partecipa ad un processo di costruzione della “memoria pubblica”, ossia di un particolare spazio di confronto e scontro delle diverse memorie dei gruppi. La metafora della memoria come luogo all’interno del quale si colloca l’esperienza (p. 21), permette di cogliere quanto questo spazio comune costringa le varie parti a uscire dal carattere autoreferenziale di una memoria interna e refrattaria al confronto con le altre, dunque permettendone una sorta di contrattazione e negoziazione che, quando non comporta una predominanza di una sull’altra, favorisce un reciproco riconoscimento. In questa mutua elaborazione delle interpretazioni pubbliche del passato, evidentemente va delineandosi anche un necessario sguardo sul domani.

Bibliografia

Cavicchia Scalamonti Antonio, 1997: “La Lotofagia. O del desiderio di dimenticare”, Ipermedium libri, Napoli.

Ciccozzi Antonello, 2015: “«Com’era-dov’era». Tutela del patrimonio culturale e sicurezza sismica degli edifici all’Aquila”, in “Etnografia e ricerca qualitativa”, vol. 2.

Connerton Paul, 1999: “Come le società ricordano”, Armando, Roma.

Djament-Tran Géraldine, Reghezza-Zitt Magali (a cura di), 2012, “Résiliences urbaines. Les villes face aux catastrophes”, Le Manuscrit, Parigi.

Falconieri Irene, Fichera Fabio, Valitutto Simone (a cura di), 2020: “Irpinia 1980. Evocare il terremoto, ripensare i disastri”, Quaderni ICDE, Effigi, Arcidosso (Grosseto).

Moscaritolo Gabriele Ivo, 2020: “Memorie dal cratere: storia sociale del terremoto in Irpinia”, Editpress, Firenze.

Teti Vito, 2015: “Terra inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale”, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro).

Ventura Stefano, 2020: “Storia di una ricostruzione. L’Irpinia dopo il terremoto”, Rubbettino, Soveria Mannelli (Catanzaro).

Memorie dal cratere, copertina
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