L’inclusione è terapeutica?

Dopo Cambiare i servizi di Salute mentale? Nuove soggettività a confronto, pubblichiamo oggi la seconda puntata del convegno “utenti e familiari: nuovi soggetti per nuove politiche sanitarie” tenutosi a Modena il 24 ottobre.

PROBLEMI E AMBIGUITA’ DELLA PARTECIPAZIONE

La sperimentazione degli UFE è solo una delle possibili forme di “presenza” dei cittadini nei servizi e non esaurisce le domande di partecipazione in salute mentale. Come è emerso dal dibattito svoltosi a Modena il 24 Ottobre, la ricerca di nuove “ricette” per far funzionare la complessa alchimia tra cittadini e servizi pubblici va collocata in un problema molto più generale, che investe oggi tutti i servizi sociali e sanitari. Si tratta della crisi dello stato sociale tradizionale, una crisi che oggi prende la forma di due imperativi: controllare la spesa e rendere più efficaci gli interventi. Maria Augusta Nicoli ha presentato le idee-guida della riflessione in corso negli organi di programmazione sanitaria; i componenti del Coordinamento Nazionale Utenti dei Servizi di Salute Mentale hanno fatto il punto sulle difficoltà e la debolezza di nuove forme di presenza “negoziale” e “interlocutoria” dei cittadini nei servizi pubblici, che pure sono avvertite come necessarie in questa difficile fase di passaggio.

Alla fine del dibattito, resta urgente la domanda su quale visione della “comunità” e della “partecipazione” siano in gioco nella trasformazione dei servizi sanitari, un’urgenza che richiama alla nostra memoria alcune riflessioni di Franco Rotelli e Giovanna Gallio sulla “via emiliana” alla gestione dei servizi pubblici.

1. Familiari e utenti come collaboratori degli operatori possono davvero cambiare le cose?

La sperimentazione del modello organizzativo degli UFE ha lasciato in molti osservatori incertezze e domande. Rendere i familiari e gli utenti dei “professionisti”, pagati dai servizi di salute mentale, non produce l’effetto di appiattire le visioni dei non-tecnici su quelle dei tecnici? Non si rischia di creare dei “piccoli operatori”, cioè un “sottogruppo” di utenti del servizio che possono accedere a programmi innovativi di presa in carico solo perchè hanno modellato il proprio punto di vista su quello degli operatori del servizio? La presenza di questi familiari e utenti cambia davvero il funzionamento dei servizi? Cioè rende l’azione dei servizi più attenta alle dimensioni sociali, diffonde idee meno escludenti della malattia? La presenza degli UFE nel servizio rende le persone più capaci di agire nella società per rimuovere i motivi di malessere, per agire sui “determinanti sociali” della salute?

Si tratta di domande provocatorie e il tema è molto delicato. Però spesso la delicatezza rischia di confondere e solo con le domande provocatorie è possibile capirci qualcosa. Abbiamo provato a cercare qualche risposta negli interventi del convegno, nelle storie dei Facilitatori Sociali di Reggio Emilia, degli Utenti e Familiari Esperti di Trento, delle varie altre voci che hanno preso la parola nel dibattito. Come ha detto Fabrizio Starace, Direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Modena e “padrone di casa” della Settimana della Salute Mentale, si è trattato di un “dibattito franco, tra posizioni divergenti”. Dalle storie sono emerse realtà ambivalenti: grandi passi in avanti, grandi rischi e perplessità spesso vanno legati. Abbiamo ripreso alcuni racconti nei particolari, perchè seguono il filo delle nostre provocazioni e ci permettono di costruire qualche ipotesi sulle nostre domande.

Adriana, la madre del paziente che racconta la sua storia di “familiare esperto”, descrive l’esperienza di suo figlio utilizzando termini come “malattia del cervello” (causata dall’uso di droghe) e dice che suo figlio è “schizofrenico”, che rispetto alle incertezze della vita, è meglio che sia “tenuto in custodia” dal Centro di Salute Mentale.

Se è importante valorizzare il “sapere esperto” di un familiare, quindi creare contesti accoglienti in cui il familiare possa esprimere il dolore, la fatica e il senso di fallimento, è anche importante riconoscere che con le parole si esprimono idee molto precise su cosa è la malattia mentale e cosa è la cura. In questo caso particolare, si tratta di idee che non sono compatibili con un’esperienza attiva di guarigione, con una costruzione condivisa di condizioni di vita sane e salutari. L’idea di malattia mentale che emerge dal discorso di Adriana è un’idea che spesso si ritrova tra coloro che chiedono interventi di espulsione dal contesto sociale, che chiedono “molecole miracolose” e controllo sociale da parte dei tecnici. Si tratta la malattia come un danno organico del cervello, si mette in relazione di causa-effetto l’utilizzo di droghe con tale danno organico e la cura è una “custodia” che devono operare i tecnici, magari supportati dalle figure non professionali (a cui i pazienti sono più disposti a “confidare” segreti la cui conoscenza potrebbe essere molto utile ai medici).

Pietro Spada, facilitatore sociale di Reggio Emilia, parla chiaramente del sovraccarico di lavoro degli operatori, che non permetteva di sviluppare l’assistenza domiciliare, prima che una parte del lavoro fosse svolta da utenti e familiari. Giorgio Ferrari, anche lui facilitatore, mette in evidenza come questa esperienza, da lui liberamente scelta, costituiva però l’unica possibilità di riacquisire un ruolo “produttivo”, “attivo”, non da invalido, vista la chiusura del mercato del lavoro per cinquantenni con storie psichiatriche alle spalle.

I documenti letti da Giorgio parlano chiaramente degli obiettivi della sperimentazione dei Facilitatori Sociali nel Dipartimento di Salute Mentale di Reggio Emilia: migliorare l’immagine del servizio, migliorare la qualità e modificare il ruolo degli utenti: essi non devono più solo “chiedere” ma “offrire”.

Se non avessimo in mente la relazione tra “retoriche dell’attivazione” e smantellamento neoliberale dei servizi pubblici, forse di queste espressioni riusciremmo a vedere il buono: la valorizzazione delle risorse personali, le nuove opportunità offerte a persone abituate a vivere passivamente come “pazienti”, il superamento di quella distanza che i camici, le scrivanie, le cinghie di contenzione e le porte chiuse hanno sempre scavato tra persone sofferenti e salute, tra esclusi e diritti sociali. Purtroppo però ricordiamo la graduale penetrazione della retorica dell’attivazione nei servizi sociali. L’idea, cioè, che un aiuto erogato dallo stato a una persona in difficoltà non sia da ricondurre ad uno specifico “diritto”, che mette quella persona in condizione di “esigere” un beneficio, ma sia piuttosto vincolato all’estinzione di qualche “obbligo” da parte dell’utente, che ne dimostri la buona volontà e l’aspirazione ad uscire dalla condizione di assistito. La letteratura scientifica ha già da anni dimostrato l’infondatezza di questa retorica, la sua dimensione ideologica, mostrando per esempio il carattere inutile e dannoso delle politiche di inserimento lavorativo che vincolano la percezione dei sussidi di disoccupazione alla disponibilità, da parte dell’utente, ad accettare qualsiasi offerta di lavoro a qualsiasi condizione, anche le più becere, pur di non apparire un “parassita”[1] .

In definitiva, il rischio di queste pratiche è che costruiscano piccole nicchie di “cittadinanza diminuita”. Cioè, che questi programmi restituiscano una versione “deficitaria” di cittadinanza (“cittadino attivo” si, ma solo come utente o familiare dei servizi di salute mentale) e solo in cambio della contropartita della collaborazione, dell’adeguamento alla cultura e della dipendenza dall’organizzazione del servizio. C’è il rischio che i Servizi di Salute Mentale facciano un nuovo discorso di “inclusione escludente” chiamando queste persone a collaborare: per essere “utenti esperti” l”identità di utente deve essere accettata, anzi, deve diventare un’identità totalizzante: solo attraverso di essa si può accedere ad una forma positiva di cittadinanza, ad un posto dignitoso nel mondo. La responsabilità di cambiare è dei singoli, le persone possono migliorare il servizio “lavorandoci dentro”, e soccorrendo alla carenza di risorse pubbliche.

Un aspetto interessante emerge dal discorso di Delia, la presidente dell’associazione di utenti di Reggio Emilia “L’orlando furioso”: esiste sempre un altro punto di vista rispetto a quello del tecnico, dell’operatore incastrato nella routine della pratica quotidiana. La facilitatrice sociale si rende conto che dove l’operatore vedeva solo un’utente abituata a vivere nel disordine e nella sporcizia c’era una persona capace di essere gentile e accogliente, “in equilibrio” nel suo particolare modo di vivere. Soprattutto, Delia si rende conto che gran parte del suo disagio è determinato da una situazione di povertà economica e degrado sociale, che quel disagio non è interamente compreso nella descrizione che l’operatore fa dell’utente, ma ha altre dimensioni, altre spiegazioni, rispetto alle quali la pratica quotidiana dell’operatore è “cieca”.

In questo caso la domanda è: in che misura il facilitatore sociale può esprimere le sue critiche all’operato dell’operatore, alla cultura dell’operatore, alla prassi del servizio? In che misura può far valere la sua opinione, in sede di programmazione socio sanitaria, che il problema dell’utente è la sua condizione socio-economica, e non il fatto che non mette in ordine la casa? E, nel caso in cui potrà esprimere queste osservazioni, che modo avrà per incidere? In che misura non accetterà piuttosto di stare in quel ruolo ambivalente, di “abitare la contraddizione”, cercando quotidianamente di “limitare i danni” rispetto a prestazioni istituzionali che vede stigmatizzanti e inadeguate, sopportando entro di sé il peso della contraddizione tra il ruolo “istituzionale” che occupa come “facilitatrice” e la voce della sua coscienza?

Il rischio è che l’utente o il familiare esperto che vorranno “cambiare le cose” finiranno ad allearsi a qualche operatore più o meno “illuminato”, rischiando di divenire massa di manovra delle contraddizioni tra personalismi che ogni organizzazione produce al suo interno. Le relazioni stesse verranno personalizzate: si vedranno gruppi di amici e nemici dentro il servizio pubblico, tra cooperative appaltanti e tra utenti e familiari. Si creeranno cordate interne tra operatori e “loro” utenti; l’operatore, i “suoi” utenti e il “suo” programma porteranno il segno di qualcosa di personale e arbitrario, e sarà impossibile riconoscere in queste dinamiche una dialettica di idee e di opinioni.

Aprire i servizi ai familiari e agli utenti, permettere loro di sperimentare ruoli attivi rispetto a quelli “soliti”, di oggetto passivo delle cure, è sicuramente un’operazione “riabilitante”. Creare dei contesti in cui si “dà la parola” agli utenti e ai familiari, si dà dignità al loro vissuto e alla visione “soggettiva” che essi hanno della malattia costituisce un importante passo avanti rispetto al funzionamento di molte pratiche aberranti, in cui c’è ben poco di cura e molto di reclusione, solitudine e vergogna. Tuttavia, credere che questo basti a risolvere la latente contraddizione tra “servizi” e “comunità” costituisce nella migliore delle ipotesi una ingenua speranza. Accettare acriticamente questa speranza, significa distorcere in maniera piuttosto grave cosa vogliamo intendere per “salute” e cosa per “comunità”. La “salute”, anche nell’ottica del familiare e dell’utente esperto, se non è accompagnata da una diversa coscienza, resta il prodotto dell’istituzione, la strada per arrivarvi è decisa dal medico e accettata dal cittadino “problematico”, è erogata dal servizio per incontrare la richiesta di “controllo” che viene dalla famiglia e dalla società. La “comunità” è interrogata non nella sua totalità ma sempre attraverso il filtro delle etichette: sono gli utenti, i familiari, nella misura in cui hanno accettato questo ruolo, ad essere “coinvolti” nell’erogazione del servizio. La partecipazione è quindi vincolata ad un preventivo movimento da parte del cittadino “problematico”: accettare di essere “positivamente” preso in carico dal servizio, accettare il suo ruolo di utente e di familiare e la “bontà” della prestazione del servizio. Accettare che il problema sia quello individuato dal tecnico, sia quello definito dalla diagnosi e dall’intervento. In pratica, accettare che il problema sia “dell’utente” e, di riflesso, “della famiglia”. E non, per esempio, del quartiere, del territorio, delle persone immerse nelle relazioni di lavoro, del vicinato o della comunità. Prendere parte a questo tipo di “presa in carico”, di problemi così formulati, seppure da “protagonisti”, rischia di non essere tanto “riabilitante” ma di restare una forma di “intrattenimento”[2] .

Riteniamo che “partecipazione” ed “empowerment”, se prese sul serio, aprano invece un altro orizzonte: quello della possibilità per i cittadini di intervenire sulla definizione del servizio, sui suoi obiettivi, sulla sua organizzazione, sulle sue priorità. Pensiamo a cittadini che, attraverso il servizio, definiscano la capacità di intervenire sui contesti, sui quartieri, sulla comunità. Riteniamo in pratica che i “servizi pubblici”, se accettiamo una definizione “estremistica” di empowerment e partecipazione, debbano essere intesi come strumenti dei cittadini per definire i propri problemi collettivamente, per accedere a visioni corrette della realtà, per costruire insieme strategie di cambiamento delle condizioni di malessere (esclusione sociale, disagio urbano, povertà materiale e relazionale dei territori, scarsa capacità di incidere sulla propria vita, di contrattare le condizioni lavorative, l’organizzazione della città e molte altre cose…).

Si tratta di temi non certo nuovi. La letteratura scientifica degli ultimi anni è piena di osservazioni critiche sulla partecipazione. Una recente sintesi di questi studi[3] ha mostrato come progressivamente i cittadini perdono influenza e capacità di condizionare le scelte dei servizi pubblici. Le arene locali di discussione sui servizi sempre più diventano strumenti di composizione di interessi economici portati avanti da attori privati. I tecnici dei servizi pubblici sono dunque chiamati a rispondere a questa essenziale domanda: che ruolo dare ai meccanismi di partecipazione? Si tratta di costruire reali arene pubbliche per elaborare visioni condivise del bene comune, oppure di delocalizzare costi di funzionamento, attribuendo a “cittadini esperti” pezzi di operatività dei servizi, per garantire la governabilità e scongiurare possibili conflitti pur con meno dispendio di spesa pubblica?

2. Le ambiguità della partecipazione: un “tecnicismo” o una pratica solidale?

Queste domande introducono una riflessione più generale, che secondo noi travalica lo specifico della sperimentazione UFE. La necessità di riformare i servizi pubblici favorisce sempre maggiori “incroci” di sguardi tra il sanitario e il sociale e apre la strada a due possibili “piste”. Da una parte, ci può essere la tendenza a mettere in atto semplici “soluzioni tecniche”, a costruire dei “ruoli ad hoc” che sussumono i cittadini dentro i servizi, con compiti “istituzionali”, per intervenire su aree di azione che i servizi pubblici non riescono a tematizzare. Se, per esempio, in un servizio pubblico non si riesce a tenere conto della dimensione “umana”, relazionale, del rapporto con l’utenza, perchè l’organizzazione burocratica del servizio impone metodi sbrigativi e puramente quantitativi nell’operato quotidiano di medici e infermieri, utenti e familiari “esperti” possono intervenire per sopperire a questa carenza, andando a “coprire una falla” del sistema, intervenendo su una dimensione che le istituzioni non vedono, senza mettere in discussione la totalità dell’organizzazione del servizio. Un’altra strada è invece quella della crescita del potere contrattuale: immaginare nuove forme di partecipazione pubblica, di autogestione, di creazione di capacità politica in seno ai gruppi organizzati di cittadini, che possano esercitare un controllo sulle situazioni in cui crescono disagio e sofferenza.

Si tratta quindi di scegliere. Per noi la scelta parte dall’analisi critica dei casi in cui “partecipazione” è solo un espediente tecnico di governo locale, di composizione degli interessi del territorio e di costruzione di alleanze che prevengano i conflitti. Esistono molti esempi di questa “debole” partecipazione. Le osservazioni sui “tavoli partecipati” dei Piani di zona hanno messo in evidenza esiti contraddittori[4],  dai quali si evince che la partecipazione è reale solo se apre a una riformulazione dei problemi pubblici e a una crescita di potere contrattuale collettivo dei cittadini.

Ad oggi non esiste la certezza di una relazione reale tra presenza degli UFE e crescita del potere contrattuale dei cittadini. Inoltre esiste pochissima letteratura che adotti consapevolmente questo punto di vista nell’analisi del modello organizzativo trentino. Uno dei pochi studi disponibili sull’implementazione del progetto UFE fuori dal contesto trentino è la ricerca corrente 2010 dall’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (AGENAS). La metodologia “UFE” è stata presa in considerazione come oggetto di ricerca dopo che l’AGENAS ha avviato nel 2008 una ricognizione su scala nazionale delle migliori pratiche organizzative rivolte “all’aumento della partecipazione e del coinvolgimento dei cittadini nella pianificazione, gestione e valutazione dei servizi sanitari”. L’esperienza degli UFE di Trento è stata individuata come buona pratica di “empowerment organizzativo” dei servizi e, dal 2010, è iniziato un progetto di ricerca-azione orientato alla “diffusione” di questo modello in vari Dipartimenti di Salute Mentale della Penisola.

La USL di Bologna, la USL di Roma B, la ASL n° 8 di Cagliari, la ASUR n.7 delle Marche, i Dipartimenti di Salute Mentale dell’Umbria e il DSM di Palermo hanno accettato di partecipare a questo percorso di “trasferimento”. Il percorso è stato recentemente raccontato da Giovanni Caracci, Renzo De Stefani e Sara Carzanigain in un articolo di Monitor[5], l’organo di informazione dell’AGENAS. L’articolo restituisce l’impressione che la creazione di “spazi pubblici di discussione” sia più importante nei singoli contesti, rispetto allo specifico della “soluzione tecnica” degli UFE.

Dal racconto emerge infatti che l’empowerment, se correttamente inteso[6], non può essere raggiunto “calando dall’alto” un modello organizzativo pensato altrove. Ciascun contesto deve svolgere “un’attenta analisi del contesto, dei vincoli e delle risorse disponibili per costruire nella specifica organizzazione, in collaborazione con la comunità locale, il proprio modello di empowerment
organizzativo”. Gli autori non possono che constatare che “nell’ambito della salute mentale sono in
atto esperienze importanti che sperimentano nuove modalità di collaborazione con pazienti e familiari per rendere i servizi sempre più rispondenti alle necessità degli utenti. Sebbene il modello realizzato a Trento si caratterizzi per aver dato sistematicità alla presenza dei familiari e degli utenti “dentro” ai servizi, anche in altre realtà regionali si sono sviluppate interessanti
iniziative volte a favorire l’empowerment delle organizzazioni, attraverso il riconoscimento delle competenze dei cittadini”.

In particolare, l’esperienza di condivisione promossa dall’Agenas ha messo in luce una necessità avvertita da vari operatori nei Dipartimenti di Salute Mentale: quella di “entrare in contatto” con altre agenzie sociali dei territori: scuole, università, associazioni culturali, aziende, genericamente indicati come “portatori di interesse”. Ciò che appare chiaramente è una tensione all’uscita dalla “autoreferenzialità”. I servizi di salute mentale devono creare una riflessione sulle proprie pratiche, devono mettersi a confronto con altri soggetti della società civile. C’è bisogno di “vedere con altri occhi” quello che si fa, di ricostruirne un senso che oggi sembra assente.

La “dimensione locale” dell’esperienza degli UFE, il fatto cioè che ogni contesto sviluppi forme particolari di attivazione e di messa in discussione dei modelli dominanti, è una realtà che sta piano piano emergendo dalle riflessioni pubbliche svolte su questo tema. L’ipotesi che proponiamo è che il reale elemento positivo di queste mobilitazioni sia, quando è presente, l’apertura di arene pubbliche di discussione e di elaborazione autonoma, anche conflittuale, dei problemi. Gli UFE nei servizi sono una soluzione tecnica che può incidere come non incidere su questo. Il reale potere contrattuale dei cittadini dipende da altri fattori. Al convegno di Modena, i racconti di Tilde Arcaleni, presidente dell’associazione “Insieme a Noi – Familiari e amici di pazienti psichiatrici” hanno messo in evidenza come nel particolare contesto Modenese l’associazionismo abbia creato un rapporto di forze nuovo, non sovrapponibile alla “riforma tecnica” della semplice “accoglienza” di familiari e utenti come nuove figure professionali  nel servizio di salute mentale.

La nostra esperienza come associazione, come gruppo di familiari a Modena, è precedente di 20 anni alla sperimentazione degli Utenti e Familiari Esperti. La nostra storia è nata proprio dal basso, da un gruppo di familiari che si trovavano molto soli. Abbiamo deciso di rivolgerci a un gruppo di operatori, con cui pensavamo di poter condividere qualcosa. Allora si parlava di “solitudine degli operatori”. I problemi non erano molto diversi da quelli che ci sono oggi, ma possiamo dire di aver fatto un po’ di strada. Alcuni giovani operatori, come Manuela e Sonia, partecipavano alle attività della associazione, e si sono in qualche modo “formati” con noi, più che nelle università. Lavorando in associazione, con le persone portatrici di disagio e con i familiari, abbiamo affrontato un percorso di formazione,  per noi, per persone giovani, provenienti dalla scuola, non direttamente toccati dal disagio, che non ne sapevano nulla. Da questo punto di vista è stata molto importante la spinta di Maria Augusta Nicoli. Lei già 20 anni fa rifletteva sulle forme di coinvolgimento di cittadini nei problemi della salute, e ci diceva: “se si formano un po’ di volontari, di cittadini sensibili attorno al problema della salute mentale, probabilmente si riescono a fare cose insieme che producono cambiamenti positivi. Il problema della salute mentale infatti non deve riguardare solo chi ha un disagio, ma tutti i cittadini.” Da questa impostazione sono nate molte trasformazioni, che hanno permesso di creare dibattito pubblico su questi temi.

Da questi interventi emerge una consapevolezza che per noi è sempre più netta: la riproposizione di modelli “tecnicistici” di partecipazione, senza che si tematizzino le possibilità di conflitto e di elaborazione collettiva delle comunità, lascia invariate tre questioni critiche che gli studi sociali hanno evidenziato sulla partecipazione:

1) Le evidenze mostrano che i percorsi partecipativi non sono garanzia di una redistribuzione di poteri. Anzi, in alcuni casi la partecipazione approfondisce la distanza di risorse tra chi partecipa e favorisce redistribuzioni di tipo “personalistico” e arbitrario. Inoltre, nei percorsi partecipativi che “vanno di moda” oggi nelle pubbliche amministrazioni viene oscurato il tema delle forme di rappresentanza: quando si parla di “terzo settore”, per esempio, vi rientrano indistintamente una miriade di soggetti, dalle piccole associazioni di utenti che difendono i propri diritti ai grandi consorzi di cooperative che erogano servizi abbattendo i prezzi relativi al costo del lavoro. Non possiamo immaginare che soggetti tanto diversi abbiano interessi comuni e la stessa “quantità di potere”, quindi fatichiamo a pensare che possano essere riuniti sotto un’unica identità.

2) Una associazione di familiari e di utenti può avere un ruolo positivo se generalizza la propria azione alla società, se si occupa seriamente di prevenzione, se mette in discussione i motivi che creano disagio e malessere nella popolazione. Solo questo dà potere perchè crea una contraddizione tra il sapere della società e il sapere tecnico. Come all’epoca in cui i volontari entravano nei manicomi a supportare le equipe di Basaglia, i “nuovi sguardi” cambiano l’esperienza soggettiva, anche dei “malati”, e restituiscono alla dimensione sociale la loro esistenza. Ritornare ad agire come soggetti politici nella comunità ha dunque reali effetti positivi di “attivazione”.

3) Le attività delle associazioni nel campo della salute mentale sono positive nella misura in cui sviluppano pratiche di solidarietà sociale, sviluppano identità collettive e capacità di elaborazione collettiva di un punto di vista “autonomo” sui problemi. Questo punto di vista autonomo si sviluppa spesso attraverso il conflitto con il punto di vista dei tecnici e dei decisori politici. La capacità di elaborazione politica va di pari passo con la crescita di un’identità collettiva che restituisce alle persone capacità di azioni solidali. Porre una questione di giustizia sociale alla cittadinanza porta a superare l’incapacità di azione collegata alla malattia e il senso di impotenza che ne proviene[7].

Rispetto a queste criticità si pone la difficile scelta politica di chi lavora nei servizi. Ci sono due possibilità per i tecnici dei servizi: “spingere” i cittadini alla mobilitazione, incapsulandone la partecipazione in termini efficentisti per coprire delle falle organizzative, oppure, come tanti anni fa Basaglia ha fatto nei manicomi, “aprire” alla cittadinanza con le sue contraddizioni e i suoi conflitti, ponendosi come parte di un processo elaborazione politica e sociale.

3. La proposta di Maria Augusta Nicoli: rifondare i servizi

I paradossi delle forme di partecipazione nei servizi pubblici tirano in ballo un’onda lunga di trasformazioni sociali e demografiche. I sistemi sanitari devono ridurre i costi umani ed economici delle malattie croniche, malattie che non possono più essere trattate in ambito ospedaliero, ma devono diventare oggetto di un management quotidiano e di lungo periodo: le persone e le famiglie (soprattutto le donne) devono gestire malattie di lungo periodo nel loro contesto domestico, incastrando prestazioni tecniche e stili di vita, i servizi devono immaginare delle nuove forme di supporto territoriale per facilitare questo management. In egual misura, i servizi sociali hanno a che fare con una “società dei due terzi” . Due terzi[8] che possiedono le risorse e partecipano alla vita politica, un terzo che ne è strutturalmente estromesso. Nessuna previsione di crescita economica comporta il miglioramento della condizione di questo pezzo di popolazione, destinato ad appoggiarsi stabilmente a qualche intervento sociale. Bisogna dunque trovare nuove strategie, attivare nuovi coinvolgimenti, stimolare gli attori economici a considerare questo possibile campo di investimenti. In qualche modo, coinvolgere la comunità per immaginare delle vie alla territorializzazione dei servizi.

Definire il ruolo degli attori sociali in gioco e le caratteristiche delle loro relazioni è dunque una sfida fondamentale. Sempre più le nuove forme di governance dei servizi richiedono che all’azione pubblica si affianchino il privato e il terzo settore. Restano da definire però gli spazi di elaborazione politica delle domande e dei bisogni sociali, e in che modo coinvolgere i soggetti in questi spazi. Proprio in questa direzione, gli esperti di programmazione dei servizi socio-sanitari si stanno interrogando in questo momento su cosa significano termini come “partecipazione”, “negoziazione degli interessi”, “sviluppo di comunità”. In un territorio, come quello dell’Emilia Romagna, in cui sono presenti esperienze di grande partecipazione, tradizioni di universalismo e punte di eccellenza tecnico-scientifica, c’è il rischio che si vengano a creare “servizi a due velocità”: alte specializzazioni tecniche per chi può e permettersele e un sistema frammentario di degenze istituzionali per gli altri.

La tensione di questi temi emerge chiaramente dalle parole di Maria Augusta Nicoli, responsabile dell’Area Comunità, Equità e Partecipazione della Agenzia Sanitaria e Sociale Regionale dell’Emilia – Romagna. La partecipazione dei cittadini alle politiche di salute costituisce oggi un campo di sperimentazioni che richiede scelte chiare. Le ricerche promosse dall’Agenzia Sanitaria e Sociale dell’Emilia – Romagna vanno dunque nella direzione di “riscrivere” le modalità di intervento medico, aumentando il peso della “comunità”.

Ho vissuto la nascita del coordinamento regionale delle associazioni che si occupano di salute mentale. Abbiamo in questi anni lavorato molto nel campo del rapporto tra cittadini e servizi pubblici, promuovendo sperimentazioni e realizzando alcune innovazioni. Sto cercando di chiarire sempre più a me stessa un ragionamento che possa diventare una pista di lavoro innovativa. Parto dicendo che in questo tipo di confronti c’è sempre la percezione di qualcosa che è finito e di qualcosa che deve iniziare. Faccio l’esempio della riforma psichiatrica, che è un argomento che stiamo affrontando con gruppi di operatori brasiliani. I colleghi brasiliani, che cercano di trasferire in Brasile quello che è avvenuto in Italia, ci chiedono di raccontare l’esperienza della riforma. Le loro elaborazioni sulla riforma psichiatrica di fatto arrivavano a un punto morto. Nel senso che per fare quella riforma è stato necessario dire una cosa fondamentale: cioè che qualcosa andava chiuso. Oggi bisogna domandarsi di nuovo cosa va chiuso e cosa va iniziato. Sicuramente deve essere iniziato un nuovo modo di guardare ai servizi: servizi che non possono essere fatti e popolati solo da attori tradizionali della cura. In altri contesti si stanno evidenziando questi elementi. La premessa sarebbe che il prendersi cura oggi va collocato sempre più in una ottica territoriale, di luogo[9]. Il prendersi cura oggi vuol dire: “prendersi cura di quelle strade, di quelle persone che abitano in quelle case”, e non prendersi cura di “categorie” (anziani, bambini, adolescenti, portatori di disagio).Questa può essere la premessa che ci permette di dire in maniera precisa cosa va chiuso e cosa va iniziato. Questa è la premessa sollecitata dalle esperienze di partecipazione. Le storie di partecipazione che abbiamo sentito oggi ci dicono che già esistono altri “luoghi della cura”. Gli utenti e le associazioni parlano già di altri servizi, che ancora non esistono. Si tratta di servizi nuovi che non vanno messi in parallelo con quegli esistenti ma che vanno sostituiti a quelli esistenti.

Dobbiamo accettare un cambiamento della società, dunque anche i servizi devono cambiare. Ci sono infatti fenomeni che interrogano le istituzioni, le organizzazioni e il modo con il quale noi forniamo i servizi, rispetto ai quali non possiamo più chiudere gli occhi. Oggi le persone hanno identità trasversali che bisogna riconoscere, sono sempre meno etichettabili. L’identità del sofferente psichico non rinchiude più la persona: io entro in un area di bisogno con tutto quello che sono, socialmente, non solo con l’etichetta del mio disagio.

Per servizio io non intendo necessariamente una cosa immutabile. Per loro natura i servizi nascono nel momento in cui c’è un incontro e una condivisione su quale dovrebbe essere l’oggetto di lavoro. Per esempio, prima non esistevano i consultori: c’è stata una condivisione sul bisogno, una condivisione tale che venisse “inventato” un servizio. I servizi dunque possono morire e nascere.

Pensiamo all’esempio della radio o alle attività teatrali, descritte da voi come un momento propulsivo di nuove iniziative, nuovi sguardi, nuovi modi di stare. Non potrebbero essere questi nuovi servizi? Vediamo subito che appena indichiamo nuove frontiere verso cui tendere, vediamo nuovi servizi in cui non c’è solo lo psicologo, non c’è solo lo psichiatra, anzi spesso non ci sono affatto, ma ci sono altri “tecnici”, che producono altri servizi, come la radio o l’attività teatrale.

Un altro elemento è molto importante: in questi contesti-servizio, in questi luoghi di cui ci si prende cura, che tipo di relazioni devono instaurarsi? In questa dinamica di partecipazioni, con questi attori nuovi che popolano la scena della cura, si possono innescare dinamiche relazionali non favorenti un rinnovamento. Si possono instaurare relazioni che invece di sviluppare bloccano, come ha messo bene in evidenza Beppe Pratesi dalla Toscana.

La domanda è: qual è la visione che abbiamo di queste organizzazioni nuove di cui sentiamo la necessità? verso quale tensione portiamo questa organizzazione? Uno sguardo alle esperienze al di fuori dell’Italia ci dice che deve esserci una tensione. Organizzazioni centrate sull’attività del territorio; un servizio sanitario che si fa permeare da varie forme di partecipazione, però con una condivisione e chiarezza sull’oggetto di lavoro. L’oggetto di lavoro oggi più che mai necessita di essere ripensato, per poter fondare i servizi nuovi di cui c’è bisogno.

4. Il coordinamento nazionale utenti della salute mentale si confronta con le pratiche di “partecipazione”

Il Coordinamento Nazionale Utenti Salute Mentale ha espresso vari punti di vista sulle questioni emerse dal dibattito. Da tutti è emersa la necessità di sviluppare il CNSUM come luogo di confronto collettivo, in cui possano trovare spazio di “sintesi” la varie azioni pratiche che localmente si svolgono nei servizi. Il CNSUM deve essere il luogo in cui ragionare sulle esperienze e proporre soluzioni nuove.

Per Maddalena dell’Associazione Cavallo Blu di Latiano (BR) è chiaro che le persone con esperienza di disagio possono essere un supporto alla cura. Bisogna riflettere ulteriormente sui percorsi per ufficializzare questa partecipazione e renderla incisiva. È inoltre importante diffondere maggiormente il CNUSM, some soggetto nazionale che interloquisca con tutte queste esperienze. È inoltre necessario elaborare uno statuto del CNUSM, darsi una forma per cui sia possibile svolgere una funzione di rappresentanza con i Ministeri e l’Europa.

Per Luca Atzori del Torino Mad Pride creare nuovi servizi è il punto centrale.

Il coordinamento ha una grande potenzialità che è quella di lavorare sul disagio come una risorsa e non tanto come una malattia. Dal momento in cui le persone vivono o esternano una condizione di disagio, vengono messi in critica non soltanto molti aspetti personali ma anche molti aspetti sociali. Se una persona a un certo punto “va fuori di sè” c’è molto spesso alla base la volontà di fuggire da sé, spesso perchè i contesti sociali in cui quella persona è calata sono insopportabili. Non credo che le cose si possano ridurre su un piano biologistico. Dal momento in cui l’utente ha la possibilità di esprimere e di lavorare sul proprio disagio come una risorsa e cioè come un modo per comunicare alle altre persone: “guardate che questo è il modo in cui io vivo la realtà”, se abbiamo la possibilità di  costruire uno spazio in cui agire e lo facciamo partendo dalla nostra esperienza (che è di per sé sempre una ricerca di senso), allora secondo me possono essere problematizzate una serie di questioni che attingono alla salute mentale e non solo passivamente ma in un’ottica di collaborazione. Io credo che in questo il coordinamento fornisca una possibilità e possa essere per molte persone l’opportunità di costruire in maniera più consapevole il modo in cui si può uscire dal proprio disagio e portare agli altri una risorsa che vada al di là della psichiatria e possa essere una risorsa anche per il cittadino che non ne sa niente di disagio mentale. Perchè quando si parla di disagio si parla di una condizione possibile in un contesto sociale che riguarda tutti. Io credo che qua stiamo parlando della figura di un mediatore fra due tipi di realtà che sono  quella psichiatrica e quella della quotidianità . E quella importante è la seconda, che riguarda la progettualità, il fatto che ogni persona debba avere la possibilità di agire sulla propria vita, avere possibilità professionali, crescere.

Siamo all’inizio di qualcosa e quindi siamo davanti a un embrione. Noi stiamo iniziando a creare una rappresentanza di utenti, che devono prima prendere coscienza di essere parte di una cittadinanza. Solo da pieni cittadini si possono proporre dei servizi. Certo quello progettato insieme non può restare un servizio ausiliario accanto ai soliti servizi. Si tratta di riscrivere completamente l’offerta.

Quello che succede oggi affonda le sue radici negli anni del mutuo aiuto. L’automuotuoaiuto non è solo uno sfogo contestualizzato in una routine o in un sistema di terapia, ma un’arma in mano agli utenti. Il gruppo di ascolto ha una forte funzione politica: è questa la direzione: rendere il percorso terapeutico un percorso produttivo dal punto di vista politico nel senso più nobile del termine.

Pino Apollonio, dell’associazione Apertamente di Trieste, pone un obiettivo esplicito: eliminare il paternalismo dalla cura della salute mentale, dare spazio alla responsabilità e all’etica personale di ciascuno.

Paola Relandini, dell’Associazione “Idee in circolo” di Modena, pone una questione fondamentale: prima di creare dei nuovi servizi dobbiamo cambiare quelli che abbiamo, migliorarli e lavorare con loro. Anche come soggetti che partecipano, inevitabilmente si resta legati ai servizi che ci sono, nel tentativo di cambiarli e adeguarli ai bisogni.

Angelo Bagni, vicepresidente di Idee in Circolo di Modena, racconta la cooprogettazione del nuovo day hospital in uno dei Centri di Salute Mentale di Modena.

Siamo presenti una volta alla settimana nel Centro di Salute Mentale con i familiari. In questo percorso non siamo oggetti da custodire ma persone partecipanti attivamente al progetto di cura. È giusto che tutti gli utenti su tutto il territorio nazionale possano dire la loro, e poi dobbiamo sederci insieme, valutare quello che siamo riusciti ad ottenere e richiedere l’applicazione in tutti i territori delle soluzioni migliori.

5.  Qualche considerazione finale, riprendendo Basaglia a Colorno[10]

Rispetto alle storie, alle narrazioni e alle considerazioni portate dentro e fuori il dibattito e durante l’incontro del Coordinamento Nazionale degli Utenti, crediamo sia importante tentare di problematizzare qualcosa che si mostra ancora come un processo parziale e contraddittorio di costruzione d’identità sociali e di soggettività. Se è vero, infatti, che alcune esperienze si mostrano come delle realtà già abbastanza consolidate e territorialmente definite, capaci di articolarsi nei servizi anche attraverso un’intermediazione che le colloca stabilmente come “braccio operativo” a libro paga dello stesso dipartimento, è altrettanto vero che questa nuova collocazione è ben lungi da rappresentare una risposta, che chiuda definitivamente la questione dell’inclusione della sofferenza mentale nel comparto sociale e, semmai, rilancia una serie di domande che non vorremmo lasciare cadere.

Dato che ci siamo occupati di Emilia – Romagna, troviamo opportuno riprendere in mano le considerazioni di Franco Rotelli sulla “via emiliana” alla riforma psichiatria. L’occasione per parlarne fu la pubblicazione dei verbali delle assemblee tenute da Basaglia e Tommasini al manicomio di Colorno. Le assemblee riportano “lo scontro tra chi propone soluzioni e un Basaglia che rinvia a più generali integrazioni e questioni. Inferirne che già vedeva la futura via emiliana alla psichiatria, fatta di pronte soluzioni, utili a negare, nascondere, rendere invisibili i problemi piuttosto che farne terreno di cambiamento, questione aperta, interrogazione su un più ampio sistema, le sue inerzie, i suoi giochi di potere? (…) Per qualcuno ogni problema deve avere la sua rapida soluzione, per Basaglia ogni soluzione era sempre la parte più preoccupante del problema”. Proprio queste riflessioni sono secondo noi da riprendere oggi, per scongiurare il rischio che a problemi sempre attuali, problemi realtivi al rapporto tra cittadini e istituzioni, vengano “silanziati” attraverso l’utilizzo di nuove “modellistiche” e nuove “soluzioni tecniche”.

C’è innanzitutto l’esigenza di comprendere se i servizi oggi, disintegrato lo stato sociale dalle politiche neoliberiste, abbiano bisogno di razionalizzare la spesa sanitaria anche attraverso forme di cooptazione dell’utenza in grado di riconvertire il costo sociale e sanitario di esistenze spesso considerate “improduttive” o “marginalizzate” e/o di soggettività conflittuali, deleganti e richiedenti risposte, in risorsa interna, senza che essa costituisca un reale interlocutore “scomodo” nella composizione dei rapporti di forza tra istituzioni, tecnici e società civile. E’ evidente, infatti, che il ruolo di affiancamento operativo che finisce per avere un’ “utenza esperta” stipendiata dal servizio, pone una serie di interrogativi sulla reale possibilità negoziale di chi trova in questo lavoro una ragione di sopravvivenza e/o di ritrovata identità sociale. O di chi chiede (il familiare esperto) una serie di risposte al servizio e si ritrova in taluni casi paradossalmente a gestire una funzione di “sorveglianza” e di “controllo”, magari non intenzionale, del “malato”. C’è da chiedersi se questo non possa coincidere anche con un certo fallimento nella gestione del comparto “curativo” e “riabilitativo” sia in senso strettamente tecnico che in quello propriamente assistenziale e sociale. Perché può essere facile proporre soluzioni preformate e apparentemente aperte ad “includere” e a far partecipare, quando in gioco ci sono equilibri di ordine amministrativo, gestionale, burocratico e tecnico e quando una certa funzione di riabilitazione sociale rischia spesso di arenarsi nell’intrattenimento tecnicistico/contenitivo, come avviene in alcune strutture territoriali, o nella attività quasi “ergoterapica” di diverse forme di cooperazione sociale.

Basaglia già vedeva a Colorno la seduzione delle “tecnocrazie del territorio”: l’idea che la “comunità” fosse qualcosa di realizzato stabilmente, nella quale i “malati del manicomio” potessero essere inseriti attraverso un semplice “modello operativo”. E non piuttosto la rappresentazione di una contraddizione, rispetto alla quale la società è chiamata in causa. Le modellistiche nella psichiatria nascondono le contraddizioni, le soluzioni sono spesso il problema. Soluzioni che si fanno subito istituzioni. E l’istituzione, presentandosi come “risposta preformata” che indirizza la lettura dei bisogni, è il problema da tematizzare. Essa “è lontana dal bisogno, si autoregola, si ricostruisce come famelica creatura, si ciba dei propria bisogni di riproduzione e non della risposta a quelli di coloro per i quali avrebbe dovuto essere creata”.

Quel che resta da capire è in che misura le nuove forme di partecipazione costituiscano una reale occasione di rimessa in discussione dei servizi e del sapere/potere che portano al loro interno e nel territorio. Se è possibile pensare ad un ricentramento della questione del disagio mentale ed esistenziale come qualcosa che riguarda tutti e della quale la società intera (utenti, familiari, tecnici, amministratori) deve continuare a farsi carico responsabilmente. D’altra parte questa nuova movimentazione di soggetti sociali, in forme più o meno organizzate, seppur ancora molto eterogenee e frammentarie, apre ulteriori interrogativi sui modi in cui si va componendo la nuova scena pubblica, spogliata ormai dalle vecchie forme di rappresentanza politica, organizzativa e sindacale. Sulle contraddizioni e le criticità che porta con sé, sui nuovi problemi che apre come “spazio” di interlocuzione sociale ed istituzionale, di possibile ri-costruzione della soggettività e di una nuova negoziazione collettiva.

Giovanna Gallio aveva individuato bene una contraddizione latente nel processo di deistituzionalizzazione avviato dall’amministrazione Provinciale di Parma[11] . Tra Tommasini e Basaglia si gioca la dialettica di due termini che convivono e si oppongono: “territorio” e “comunità”. Il territorio appare come una forma di governo, sede dei “nodi in cui si dirama e si avvolge la rete delle istituzioni che presiedono il controllo dei comportamenti, la distribuzione e la regolazione della norma sociale a diversi gradi di intensità”. La comunità che insiste su questo territorio per Tommasini è “già realizzata”, è presente: il buon governo socialdemocratico della piccola comunità può risolverne in sé le contraddizioni e l’amministrazione garantire il suo mantenimento. Lo sforzo anti-istituzionale dovrà essere quello di “inserire”, in questa comunità già realizzata, con le sue polisportive e i suoi circoli operai, i dimessi dal manicomio. Per Basaglia, invece, la comunità è uno spazio utopico, uno spazio da realizzare, che non coincide con il governo del territorio. Anzi, se si appiattisce il “reinserimento” al territorio per come esso è, si rischia di dimenticare che la comunità reale è sempre qualcosa di contraddittorio, escludente, conflittuale. La comunità è piuttosto il territorio che si trascende e immagina qualcosa di altro, qualcosa verso cui tendere eticamente, collettivamente e politicamente.

Ci auguriamo che questo primo frammento di discussione pubblica, possa avviare una riflessione comune che veda sempre più attori sociali coinvolti nella costruzione di una società capace di ricomprendere al suo interno la questione della sofferenza mentale e la fondazione di una scienza al servizio dell’uomo e dei suoi bisogni e non della sua ideologia.

Note

[1] Su questo tema esiste un’ampia letteratura nelle scienze sociali. Per una ricognizione sintetica, equilibrata e abbastanza recente si consiglia di guardare il capitolo “Politiche attive come politiche di attivazione” di Marco Sordini, all’interno di Carlo Donolo, a cura di, Il futuro delle politiche pubbliche, Milano, Bruno Mondadori, 2006.

[2] Riprendiamo la distinzione tra “riabilitazione” e “intrattenimento” di Benedetto Saraceno. Benedetto Saraceno ha lavorato a Trieste con Basaglia, è stato Direttore della Divisione Salute Mentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e collabora con il SOUQ di Milano. Il suo testo fondamentale è La fine dell’intrattenimento. Manuale di riabilitazione psichiatrica, ETAS libri, 1995.

[3] Facciamo riferimento allo studio di Giulio Moini sulle “retoriche della partecipazione”, che rischiano di svuotare i contenuti di una concezione “sostanzialistica” della partecipazione. Secondo Giulio Moini, “Nel momento in cui si diffonde il ricorso alle pratiche partecipative come strumento di rafforzamento della democrazia partecipativa, questa tende ad essere superata da tendenze post-democratiche”. Giulio Moini critica una impostazione che utilizza forme “tecnicizzate” di partecipazione per depontenziare le sue poste in gioco politiche. Il testo è Moini, G., Teoria critica della partecipazione. Un approccio sociologico, Franco Angeli, Milano, 2012. Altre importanti riflessioni su questo tema si trovano in De Leonardis, O., Sogni e incubi. In un diverso Welfare, Feltrinelli, Milano, 1998.

[4] É copiosa la letteratura sul rischio di derive ritualistiche della partecipazione. Citiamo un testo di Alessandro Martelli, che ha il pregio di inquadrare questo tema in una riflessione dal respiro europeo: “Il moltiplicarsi di tavoli, protocolli, patti rischia, infatti, di richiamare da vicino la lezione neoistituzionalista delle “organizzazioni come mito e cerimonia”, suggerendo l’esistenza, più che di comunità di pratica, di ‘pratiche ritualistiche di comunità’, promotrici di cataloghi di buone intenzioni inefficaci e/o formali e incapaci, alla fine, di rigenerare circuiti della rappresentanza che appaiono oggi un po’ atrofizzati. Tale rischio, che è a carico dell’intero sistema di welfare locale, si annida segnatamente anche all’interno del piano di zona, che per certi versi è l’emblema del tentativo di aumentare la razionalità e la legittimità del welfare sul territorio. Occorre pertanto rilevare (e contrastare) possibili derive formalistiche che potrebbero portare uno strumento centrale delle nuove politiche sociali ad esprimere nulla più che un’autorità ‘astratta’ sul piano dei processi organizzativo-operativi, priva dei necessari dispositivi di coordinamento, traduzione e – per toccare un tema centrale rispetto al rescaling del welfare – di valutazione”. Da “L’Europa sociale e i suoi territori fra dimensione politico-istituzionale e dinamiche socio-economiche”.

[5] Monitor è il periodico dell’Agenas. Il numero citato si trova qui.

[6] Gli autori fanno riferimento al testo di Francescato D.,Tomai M., Psicologia di comunità e mondi del lavoro. Sanità, pubblica amministrazione, azienda e privato sociale, Carocci Editore, Roma, 2005.

[7] Oltre alle riflessioni generali sulla partecipazione di Giulio Moini, già citato, siamo debitori delle segnalazioni e degli scambi d’opinione con Massimiliano Minelli, “osservatore partecipante” dell’esperienza Umbra di Parole Ritrovate, per la nostra elaborazione su questi temi. Della quale, ovviamente, siamo gli unici responsabili.

[8] Articolo di Nadia Urbinati su la Repubblica: “la ricchezza è concentrata nel 64 percento della popolazione; ovvero, per semplificare al rialzo, poco più di due terzi dentro, gli altri fuori”.

[9] Maria Augusta Nicoli fa qui riferimento a una distinzione molto importante per le politiche sociali: la distinzione people\place. Questa distinzione è stata spiegata così da Alessandro Coppola: “l’alternativa fra una cosiddetta opzione people – caratteristica del caso americano – ed un’opzione place – viceversa tipica di quello francese. L’opzione people punterebbe al contrasto dei fenomeni di marginalità urbana attraverso una sorta di scommessa sulle popolazioni e prima ancora sugli individui in situazione di difficoltà; l’opzione place viceversa insisterebbe di più sulle condizioni di svantaggio proprie di ciascun territorio attraverso politiche di normalizzazione soprattutto sul versante dell’offerta pubblica di servizi”. Disponibile qui.

[10] Facciamo riferimento al numero monografico di Aut Aut dal titolo “Basaglia a Colorno”, a cura di Giovanna Gallio, con interventi di Franco Rotelli e Peppe Dell’Acqua, 342/2009, Il Saggiatore.

[11] Non certamente da tutta l’amministrazione con la stessa spinta valoriale e la stessa intensità. Mario Tommasini è stato sicuramente il rappresentante più sensibile, “utopico”, di questo progetto. Il suo costante impegno per l’uguaglianza e i diritti rimane un esempio fondamentale per ogni tipo di pratica politica. Su Mario Tommasini ha scritto Franca Ongaro Basaglia: Vita e carriera di Mario Tommasini burocrate proprio scomodo narrate da lui medesimo, Editori Riuniti, 1991.

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