Un manipolo di redattori si concentra con gratitudine sugli scritti di Luciano Bianciardi.
I minatori della Maremma (1956)
di Marco Ambra
Con il suo sarcasmo gastrico Luciano Bianciardi metteva a nudo tic linguistici e idiosincrasie dell’italico culturame. Lapidariamente, nell’incipit de Il lavoro culturale: «Il problema delle origini ha sempre sedotto e affaticato la mente di saggi, sapienti e intellettuali: origini dell’uomo, delle specie, della società; origini del male e della disuguaglianza. Dalle origini di una città o di una religione si son calcolati gli anni, e dire “originale” significa riconoscere un merito. Insomma pare – e chissà poi per quale ragione – che alla gente importi più del passato, del remoto passato, incapace ormai di fare male ad alcuno, che dell’avvenire, del prossimo avvenire, sempre, come ben sappiamo, minaccioso e incombente». Rumino questa manciata di parole da quando ho letto per la prima volta il romanzo. Da allora ho cominciato a guardare con una punta di impotente sospetto chi con l’affettazione del filosofichese ha fatto in questi anni un gran parlare di genealogie, autenticherie, desideri desideranti e potenze poetanti senza accorgersi del minaccioso, incombente prossimo avvenire.
Poi ho capito. Dovevo fare come Bianciardi, scrollarmi via dalle spalle la forfora delle origini e guardare alla storia. Già, ma quale storia? È così che ho iniziato a leggere I minatori della Maremma e m’è sembrato di sentirci un’eco inascoltata. Quella sì cosciente dell’incombente, minaccioso, prossimo avvenire. Fra le scarne, elementari biografie che Bianciardi dedica ai minatori di Ribolla ce n’è una che aveva qualcosa da dirmi. È quella del minatore Guzzo Tommaso, nato a Torretta, vicino Palermo nel 1926. Fuggito dalla fame siciliana man mano che la linea del fronte alleato avanzava lungo la penisola, il Guzzo giunse nel 1945 a lavorare nella miniera di Ribolla, dove trovò moglie, pane e politica.
Eccezionalmente robusto e infaticabile lavoratore, questo mio dimenticato conterraneo riuscì infine a guadagnare abbastanza per liberare il proprio tempo dal lavoro e potersi dedicare all’attività sindacale. Ma diventato sindacalista la sua situazione economica peggiorò e pur facendo politica lamentava di non essere riuscito a farsi una cultura. «Per il momento» di sé diceva «sono un marxista che va a lignite». E lo diceva a me, che il carbone non l’ho mai spalato per sfamarmi.
Il volontario Sbrana (1961)
di Antonio Iannello
Non risultava nei ruolini, ma il volontario Sbrana appare e si distingue all’improvviso in mezzo alla colonna dei napoletani e dei loro muli con cui i soldati condividevano il colore dei calzoni, grigi, e coi quali si confondevano anche per un combinato di garrese alto degli uni e statura bassa degli altri. Il volontario appare d’improvviso perché Sbrana i calzoni li ha verdi (la fusciacca è rossa e la camicia bianca, come lei vede sono i colori della bandiera che mi porto addosso). Ha una borraccia piena di rum, prestito dei napoletani, a cui lui, pisano, sta facendo da guida per queste campagne. La battaglia fra le più sacre della retorica risorgimentale, nel racconto dello scrittore maremmano, ha come punto chiave un irregolare.
Di Bianciardi ho letto, durante una ricerca sugli antifascisti maremmani, le cose che ha scritto sui minatori. L’ho sempre associato a Carlo Ginzburg e a quella disposizione ad andare a cercare le culture e i processi della periferia, di scendere nel micro senza volerne fare metafora universale, anzi per riconoscere complessità e differenze a volte irriducibili.
Eppure di fili rossi ne tende Bianciardi e a me rimane la curiosità di capire se ci sono punti di connessione e di conflitto; e dove: il Risorgimento, la Resistenza, il Miracolo. Perché anche il Risorgimento è una rivoluzione sociale mancata, e il Miracolo, che si chiude in una cupezza precaria, prevalendo il consumo sulla politica. Bianciardi riporta, per me, questa riflessione nei termini giusti. Se penso alla sconfitta di Garibaldi, al suo arresto, alla latitanza di Mazzini che muore da ricercato con l’accusa di terrorismo, penso a Bianciardi. E molto di più se penso a quelli che si sentivano garibaldini provenienti dalle campagne pugliesi o lombarde e sono rimasti con un “Noi credevamo”.
Sbrana è un fuori posto due volte: pisano sta coi napoletani; non è uno studente né un professore, non viene dall’università come tutti gli altri volontari toscani (vendeva castagnacci, torta di ceci, buccellati, biricuccoli, e così ci capitavano spesso gli studenti […] Questo Sbrana faceva anche credito e così s’era guadagnato l’amicizia di parecchi di noi). Gli diedero il ruolo di staffetta.
Nel racconto Bianciardi non omette il tema di guerra (centrale nella ricostruzione delle barricate mobili), ma gli affondi stanno tutti a ricordare chi erano quelli che si ritrovano a farla la guerra e per chi, per cosa. Attraverso lo straniamento (Sbrana porta due capponi per fare il brodo in un momento in cui si sta per attaccare) più o meno integrato di realismo Occhi che fino a ieri si erano posati sui libri, diciamo pure sulle gonnelle, adesso per la prima volta s’appuntavano a scrutare il ceffo arcigno della morte. […] Ma sarò io pari alla loro fiducia? Come nasce il coraggio? Quando finirà la guerra? Sarò io in grado di dare l’esame di filologia romanza?
E su Sbrana – che finita l’azione torna sul campo di battaglia per prendere da mangiare (due prosciutti) nonostante un altro battaglione venga a sostituire i piccoli maestri – si chiude il racconto.
Ma invano vi cercherete il nome dell’ improvvisata staffetta coi calzoni verdi, la fusciacca rossa e il camiciotto bianco che ai bei tempi vendeva il castagnaccio dietro il Monte di Pietà. Non risultava nei ruolini.
Il complotto (1961)
di Cecilia Cruccolini
Dire del mio rapporto con l’opera di Bianciardi è dire innanzitutto del mio rapporto col lavoro culturale che mi ha accolta in redazione qualche anno fa. Fino a quel momento infatti non conoscevo l’opera dello scrittore e, rispetto a chi il blog lo aveva fondato proprio a partire da uno dei suoi libri più importanti, la mia affiliazione è avvenuta a ritroso, dal dopo-Bianciardi, un’eredità spontanea raccolta attorno al blog. Gli articoli, gli interventi, perfino le riunioni, formulati con spirito affezionato, mai grigiamente devoto, erano (e sono) sotto l’auspicio dell’autore originario della Kansas City «aperta al vento e ai forestieri» che avrei avuto davanti agli occhi più tardi leggendo, finalmente, Il lavoro culturale: un’agnizione. Grazie alla raccolta del Saggiatore posso proseguire questo apprendistato sui generis con la scoperta, tra gli altri, del Bianciardi scrittore di racconti.
Ha attratto la mia attenzione Il complotto (1961) in cui l’esasperazione per la scena politica italiana inquieta per la familiarità con i nostri giorni e la fantasia meditata tra i protagonisti di uccidere gruppi di persone di spicco dei vari ambiti della vita pubblica, sembra un triste presagio dei successivi anni del terrore in Italia, quasi un’ossessione in Bianciardi che torna ne La vita agra (1962). «Partiti, sindacati, gruppi d’opinione, giornali eccetera, formano ormai un sistema in perfetto equilibrio. Può durare così per altri cento anni». La soluzione proposta dai personaggi riuniti nel complotto del titolo, è di ispirarsi agli anarchici ottocenteschi e alle loro bombe, ma stavolta correggendo il tiro e soprattutto pianificando bene chi colpire e come: «[…] gli anarchici erano gente estemporanea e picchiavano a caso. Noi invece abbiamo alle spalle lo storicismo, lo hegelismo, il marxismo, tutto quel che volete. Abbiamo infine capito cosa è organizzazione». Nonostante il gruppo stia decidendo chi uccidere con l’obiettivo di «tenere calda l’opinione pubblica», non mancano dei passaggi che per la biografia dell’autore acquisiscono una temperatura quasi comica ma che, conoscendone le disillusioni, sarebbe più corretto definire grottesca: «“magari scegliete il più famoso del momento. Mina lasciatela perdere” – “Un editore non ce lo mettereste?” fece Mario, ma io dissi subito che in fondo no, in fondo non contano poi tanto».
La vita agra (1962)
di Francesco Zucconi
Al Liceo scientifico “Carlo Cattaneo” di Follonica, l’unico che parlava di Bianciardi era Nedo Bianchi: pittore, insegnante di disegno ed educazione artistica. Era il 1998 o giù di lì. Ci dette da leggere La vita agra. Lo lessi con piacere, ma senza grande entusiasmo. (Passavamo i pomeriggi a fare le disequazioni fratte perché noi della sezione B dello scientifico dovevamo diventare tutti ingegneri, che era l’unica cosa seria da fare nella vita). Ricordo che, oltre a me, in quegli stessi giorni, lo lessero anche i miei genitori. I miei nonni di Massa Marittima mi portarono un ritaglio di giornale che parlava di Bianciardi; credo che quel ritaglio stia ancora dentro il volume Bompiani, con il serpente inarcato nella terra riarsa. Il fatto è che quel libro parlava dei nostri posti; soprattutto, parlava della Montecatini, senza mai citarla esplicitamente: l’azienda chimica italiana nella quale aveva lavorato anche mia nonna negli anni del boom minerario; l’azienda proprietaria della Miniera di Ribolla, dove il 4 maggio del 1954 si verificò la più grave tragedia mineraria italiana del secondo dopoguerra; la Montecatini che, ancora negli anni Novanta, a nominarla, si provava una specie di timore reverenziale vivendo in paesi che si erano sviluppati sotto la sua ombra.
Nei primi anni universitari, provai a parlare di Bianciardi a qualche amica e a qualche amico. I miei racconti non suscitarono l’effetto sperato: gli parve una roba tutta maremmana. Probabilmente mi ero concentrato sui dettagli sbagliati. O forse qualcosa è successo, molto è cambiato dall’inizio del nuovo millennio. Oggi, nei nuovi anni Dieci, La vita agra e Il lavoro culturale mi sembrano due libri all’apice della loro leggibilità. L’acredine del Bianciardi non è che l’altra faccia – quella consapevole e sofferta, ma anche quella in cui è possibile ritrovare il senso di una resistenza – dell’istrionismo professionale e sociale dei lavoratori cognitivi che siamo: tutto un mondo di contratti a progetto, social media cosi, colletti coreani, coworking space… È in questi due libri che si ritrova un’idea della pratica culturale come dopolavoro, come paralavoro: una forza che attraversa il quotidiano e lo porta a essere in “in ritardo”, “fuori luogo”, contrastando il vecchio concetto di prestazione così come le forme paradossali della sua persistenza nell’epoca della sua destrutturazione. Un libro sulla vita e la sua acredine: sul rapporto tra “operosità” e “inoperosità” che costituisce uno dei nodi teorici e pratici, uno dei nervi scoperti del contemporaneo.
Moshe Bianciardi (1967)
di Nicola Perugini
Nella sua biografia, scrive Pino Corrias che di Bianciardi, nella Rapallo dove si era autoesiliato prima di morire, non restò che la sua libreria (mica poco!). In realtà restano anche le tracce del suo viaggio in Palestina nel 1967, proprio quando Israele colonizzò nuovi territori a vent’anni dalla pulizia etnica del 1948. Tracce irriverenti, come scrive l’amico che aveva viaggiato con lui in terra santa: «Una volta siamo andati in Israele, nel ‘67, dopo la guerra dei sei giorni, dove lui litigò con tutti quelli che facevano le lodi sperticate di questa nazione. Aveva visto, il primo giorno, un rastrellamento, aveva visto come venivano trattati gli arabi e gli era bastato. Quando tornò a Rapallo, per qualche settimana uscì di casa con la benda sull’occhio, come Moshe Dayan, così, per prendere per il culo i filoisraeliani». Di Moshe Bianciardi bendato resta una celebre foto che mi fa venire voglia di capire meglio i contorni del suo viaggio Palestina in uno degli anni più caldi della storia del Medio Oriente.
Non leggete i libri, fateveli raccontare (1967)
di Massimiliano Coviello
Dalla provincia maremmana fino al cuore pulsante della metropoli milanese, la vita agra dell’intellettuale, le traduzioni a cottimo e la manodopera cognitiva: la biografia e le opere di Bianciardi mi hanno insegnato il lavoro culturale.
Non leggete i libri, fateveli raccontare esce a puntate sul rotocalco ABC alla fine degli anni Sessanta, a dieci anni di distanza da Il lavoro culturale, il primo e “acuminato” pamphlet che Biancardi scrive per smontare e rimontare la figura dell’intellettuale. Ho scoperto Non leggete i libri, fateveli raccontare, non incluso nella raccolta del Saggiatore, grazie all’omonimo monologo teatrale di Angelo Romagnoli, con la regia di Francesco Pennacchia. Di agile lettura, questo un bignami al rovescio (insegna ciò che non si dovrebbe fare) si rivolge con sagace ironia a tutti i figli della media borghesia che, incapaci e nullafacenti, aspirano a trovare una sistemazione tra gli intellettuali. Bianciardi, spiega le astuzie per parare e sferrare colpi bassi, suggerisce gesti e comportamenti, indica il percorso formativo e i principi per non essere mai colti in flagrante reato di ignoranza.
Da questo tragicomico decalogo emerge, in controluce, una pratica intellettuale che non rifiuta di occuparsi della quotidianità e ne smaschera le idiosincrasie, che parla anche e attraverso il senso comune, ironizza sulla morale corrente, gioca tra le parole e le cose per restare vicina a entrambe.
[Per il lettore: Non leggete i libri, fateveli raccontare non fa parte della raccolta Il cattivo profeta]
Il traduttore (1969)
di Lorenzo Alunni
Quando ho cominciato a collaborare con il lavoro culturale, alcuni anni dopo la sua nascita, l’omonimo libro di Bianciardi non l’avevo neanche letto. Poi ho recuperato, e gli elementi che rendevano così interessanti agli occhi di Bianciardi la sua provincia – da provincialotto quale sono – mi suonavano familiari. Poi, qualcosa come un paio di anni fa, ho letto la biografia scritta da Pino Corrias, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano: è stata una lettura tristissima, e le pagine sugli ultimi anni della vita di Bianciardi me le sono sentite addosso come se, fatte le tante e debitissime proporzioni, si stesse in qualche modo parlando di me, che quel libro mi sono messo a leggerlo nel momento sbagliato.
Con il volume appena uscito per il Saggiatore ho scoperto il breve testo Il traduttore, del 1969. Ha attirato la mia attenzione perché, da qualche anno a questa parte anch’io sto lavorando (anche) da traduttore. In questo testo, lieve e divertito, Bianciardi riflette sulla sua esperienza allora quindicinale. Ricorda di quando scambiò una finestra per una vedova (window, widow) e di quando un suo amico «fece correre le ostriche, giù in Africa» (ostrich vuol dire struzzo…). Quando divenne uno scrittore affermato e tradotto anche all’estero, Bianciardi si divertiva un po’ malignamente, ci confessa, a pensare quanto i suoi traduttori avrebbero penato a rendere il dialetto pisano di alcuni suoi scritti, e «come se la sarebbero cavata dinanzi a una espressione quale “buonanotte al secchio”».
Ma quello che mi colpisce di questo piccolo testo, Il traduttore, è che il lavoro di traduzione può essere un lavoro decisamente solitario, e nella solitudine i demoni si trovano spesso a loro agio, avendo a disposizione il silenzio e la tranquillità per insediarsi meglio nel testo del traduttore o traduttrice, e per crescere pascendosi dei suoi pensieri più agri, delle sue preoccupazioni e delle sue condizioni di vita e lavorative talvolta molto precarie, come furono quelle di Bianciardi. Ed ecco che il tono divertito di quello scritto assume un retrogusto decisamente amaro. Ma via, adesso non ci pensiamo, su, concentriamoci sul goderci questa raccolta del Lucianone e sul tradurre come si deve, e buonanotte al secchio.
La mamma maestra (1972)
di Antonio Vesco
Con lui succede continuamente. Ogni volta che mi parla di Maremma a me tocca tornare a fare i conti con la mia provincia. E di conto in conto ho maturato una riflessione che credo sia la riflessione che più mi tiene occupato, quando si tratta di Bianciardi. E riguarda il rapporto tra provincia e provincia. In un posto come l’Italia, l’elaborazione di un immaginario nazionale ha dato vita ad almeno due tipi di province: la provincia del Sud e la provincia del Nord. Un Nord che accetterà questa sua rappresentazione monolitica, quantomeno per correttezza nel confronto con il suo monolitico rivale, il Mezzogiorno. Qua e là nei suoi scritti anche Bianciardi ha rivolto, da Nord, lo sguardo sulla provincia del Sud, rivelando talvolta una adesione (nemmeno poi stupefacente) alla costruzione del Sud da parte di chi lo guarda da Nord. Succede ne La mamma maestra, che è un racconto che, a volerlo affrontare in più di dieci righe, mi imporrebbe quanto meno un modesto confronto tra il figlio di una maestra di una provincia del Nord cresciuto tra le due guerre e il figlio di una maestra di una provincia del Sud cresciuto tra gli ottanta e i novanta (che poi sarei io).
Ad appena diciott’anni, la minuscola mamma maestra di Luciano Bianciardi andò a insegnare in Calabria. Una mamma e una maestra che esigeva che il figlio avesse “l’otto in tutto”, che pesava appena quaranta chili e che sarebbe stata maestra per tutta la vita, anche dopo la pensione (la mia ne pesa di più e non vede l’ora di mollare). Ne La mamma maestra il Meridione di Bianciardi occupa poche righe, ed è quello un po’ mafioso che l’immaginario collettivo ha costruito nei decenni con funamboliche parabole orientaliste assai in voga ancora oggi. Dovessi scrivere ora, qualche generazione dopo quella di Luciano, un racconto sulla mia mamma maestra, racconterei tutta un’altra storia. Niente voti ai figli. Niente scuola, nell’immaginario maestrile del Sud Italia.