Vite dannate

Recensione di Elia Verzegnassi al libro di Andrea Staid, I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità, prefazione di Franco La Cecla (Le Milieu Edizioni, 2014)

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Cosa si annida tra le pieghe della metropoli? Cosa rimane, sia gettato che intrappolato, in questo complesso meccanismo?

Il libro I dannati della metropoli di Andrea Staid si avvicina alle nostre città compiendo un’etnografia dei migranti che le abitano. Ne segue il viaggio, soprattutto dei nord e dei centro-africani, dalla partenza dalle loro case e terre d’origine alla lunga traversata nel deserto insidioso fino al Mediterraneo, ai confini della fortezza Europa. Poi il mare, le coste del sud Italia o di altri Paesi dell’Europa meridionale, i Cie, le fughe e le rivolte che ne scuotono le sbarre, e infine la lenta risalita verso nord, verso Milano. Qui nella metropoli lombarda – città dove vive l’autore – termina il libro, con un capitolo sul palazzo di viale Bligny 42, conosciuto anche come “il fortino della droga”, realtà complessa, «insieme città e casa, normalità ed eccezione» (p. 128).

La ricerca di Staid è costruita con particolare attenzione alla metodologia: l’autore cerca di strutturare un’antropologia non egemonica basata su un’osservazione partecipante dall’«innato potenziale trasgressivo e anti-istituzionale» (p. 25), oltre che su un’intensa relazione con gli intervistati. Non si tratta di raccogliere dati e di compilare tabelle, ma di intessere legami di fiducia, lasciare che si rivelino lentamente le vite e le storie di tanti migranti, condividere racconti ed esperienze, anche propri – l’antropologo non potrà essere invisibile, e si tratta allora di saper giocare con la propria presenza.

La vera spina dorsale di questo testo sono le voci dei migranti, una materia prima che non rimane nascosta, né si incontra solo raffinata nelle riflessioni teoriche e nelle ricapitolazioni, ma appare nella sua naturalezza, inserita secondo un montaggio che fa ampio utilizzo di storie, interviste e voci, accuratamente intrecciate con la scrittura dell’autore. Cosa vuol dire tentare di restituire voce a chi non l’ha, a chi spesso non ha la forza e la possibilità di far sentire la propria ed è costretto invece a subire una narrazione nel ruolo di oggetto piuttosto che soggetto, una narrazione che cancella la singola soggettività e inchioda a modelli, o ad essere mezzi per diversi fini? Operazione rischiosa, perché sempre di mediazione e interpretazione si tratta. Ancora una volta è in questione il fare antropologia, il mestiere dell’antropologo, le sue scelte etiche e la sua sensibilità: Staid cerca di non parlare di migranti, ma di lasciare che questi parlino, prestandogli voce, ma anche facendo sì che la loro propria voce trovi spazio, provando ad appianare la sproporzione tra la posizione del ricercatore e quella dell’intervistato, ricercando un coinvolgimento reciproco.

Lungo il testo, a tratti esplicitamente e altrove come sottotraccia, nelle voci degli intervistati e nelle foto del palazzo di Bligny 42, la metropoli si mostra come secondo soggetto di questo studio. Non come spazio neutro, semplice luogo di transito o zona ricevente i migranti, bensì come rete che vincola e cattura, che riposiziona elementi nella propria trama, rendendoli parte della trama stessa. «Ragno al centro di una tela»[1]; , come un «magnete», secondo le parole di Lewis Mumford, la metropoli attira, distribuisce e ri-significa i flussi che l’attraversano, non ultimo il flusso delle vite migranti. Migrante e metropoli sono strettamente legati l’uno all’altro, e non solo perché è qui che si spera di arrivare, cercando rifugio, lavoro, conoscenti.

È lo status giuridico del migrante, «ospite in prova perpetua», che lo posiziona al «labile confine tra legalità e illegalità» (p. 93). Obbligato ad andarsene ma senza la concreta possibilità di farlo, desideroso di restare ma quasi impossibilitato a mettersi in regola, «la fortezza Europa diventa una vera trappola. Un vero labirinto nel quale è molto più “facile” entrare che non uscire» (p. 94). Nelle interviste raccolte nel volume, l’avvicinarsi alla criminalità si mostra spesso come una scelta, forzata ma cosciente, costosa e per alcuni difficile da abbracciare tanto da essere evitata fino all’ultimo, un’opzione razionale più che irrazionale. E allora questa scelta entra a far parte di un «arcipelago spontaneo di pratiche di ribellione» rispetto alla propria condizione: «in risposta all’esclusione in tutte le metropoli si crea, non solo per i migranti, una rete complessa e conflittuale» (p. 32) fatta di resistenze e rivolte, sottrazioni e opacità, tattiche di re-inserimento e strutturazione alternativa dell’immediato spazio locale. Senza operare transfert dalle tonalità rivoluzionarie, l’immigrato, come scrive Franco La Cecla nella prefazione, «dichiarato fuorilegge a un certo punto trova una propria ridefinizione di esserlo» (p. 8).

E allora cosa si annida tra le pieghe della metropoli? Lì vi si trova qualcosa che può essere considerato un elemento esterno catturato e, allo stesso tempo, paradossalmente, un prodotto di questo medesimo meccanismo. Come se la metropoli intrappolasse ciò che essa stessa produce, e producesse ciò che, in fondo, poi cattura. Si mostrerebbe così come un sistema di fabbricazione di forme di vita strettamente legate a ciò che le ha fatte nascere. Rigettate come esterne e riprese da questa azione che, mentre ne sancisce l’esclusione e la spinta all’esterno, le include all’interno. Sulla forma di vita migrante si dispiega questo meccanismo.

Vite precarie quelle migranti, forme di vita sfruttate e richieste dalla metropoli, eppure definite in eccesso. Per l’autore, che su questo punto segue le riflessioni di Alessandro Dal Lago ed Emilio Quadrelli, due città si accavallano in un rapporto asimmetrico: una prima legale e una seconda illegale, nascosta tra le pieghe della prima. La città trasparente «evoca» l’altra con «parole di paura o di sospetto», e al tempo stesso se ne serve, stabilendo relazioni occulte che «rimuove o nega»[2]; legami che «disconosce continuamente» (p. 122). Le due si intrecciano e si contaminano reciprocamente: «la separazione non è mai netta» (ibid.) e la dicotomia non regge. Le voci che costituiscono il libro dimostrano come proprio la vita migrante sia collocata in quella zona di indistinzione tra le due sfere che la rende esterna e interna, esclusa e inclusa.

Se c’è un’assonanza immediata tra il titolo di questo libro e un altro, questo secondo testo è I dannati della terra, di Frantz Fanon, famoso al pubblico francese anche per la prefazione che scrisse Sartre. Ma è ancora in un altro libro di Fanon che ritorna quest’assonanza tra titoli, e più precisamente sulla parola chiave: «Non ancora bianco, non del tutto nero, ero un dannato»[3]. Se la condizione di dannato è data da quella che sembra essere una sospensione, non sarà decidendone l’identità che la vita dannata sarà redenta dalla sua cifra precaria. E se anche questo fosse stato il disegno di Fanon, per i dannati delle metropoli la stabilità non giungerà insieme all’identità guiridico-politica che li vorrebbe definire una volta per tutte, sperando di risolvere con la medesima mossa anche la problematicità che portano con loro.

Se il migrante, come forma di vita precaria, rappresenta il punto in cui si dispiega l’apparato di cattura che è la metropoli, egli è allo stesso tempo il punto di crisi di nozioni come diritti universali, cittadinanza e democrazia. Già Hannah Arendt scrisse sulla condizione degli apolidi, e ancora una volta il migrante mostra come ogni cittadinanza e ogni democrazia siano strettamente connesse con un principio di esclusione e rigetto, con la produzione di vite respinte e vite precarie. E se ogni vita può assumere questo status di vita esclusa e precaria, rimossa dalla metropoli, «quello che dobbiamo cercare di costruire con i migranti è una tolleranza esperita, vissuta ogni giorno, nelle città, costruita strada per strada, sui luoghi di lavoro e di lotta con la consapevolezza che non esistono libertà regalate ma solo libertà costruite e conquistate» (p. 153). Oltre la tolleranza, per avvicinarci a quel che ci accomuna, la metropoli e le sue trame, e ciò che di migrante e precario c’è in ogni vita.

Note

[1] L. Mumford, La città nella storia, Edizioni di Comunità, Milano 1963, p. 671.

[2] A. Dal Lago, E. Quadrelli, La città e le ombre. Crimini, criminali, cittadini, Feltrinelli, Milano 2003, p. 13.

[3] F. Fanon, Pelle nera maschere bianche: il Nero e l’Altro, Marco Tropea, Milano 1996, p. 120, citato da Liliana Ellena nell’Introduzione alla nuova edizione italiana di F. Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007, p. VII.

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