Il passaporto non passa i porti

Documenti d’identità e frontiere: pubblichiamo un articolo uscito recentemente su Africa is a Country. La traduzione è di Nicola Perugini.

Non molto tempo fa ho ascoltato il filosofo Souleymane Bachire Diagne mentre rispondeva a una presentazione della critica letteraria Emily Apter, intitolata Traduzione, checkpoints, frontiere sovrane. Apter critica la finzione borghese secondo cui la globalizzazione ci ha trasformati tutti in cosmopoliti estremamente mobili, un mito che si rivela particolarmente seducente per chi è impegnato nel progetto di scrittura e istituzionalizzazione della cosiddetta “letteratura mondiale” e della sua schiera di affascinanti protagonisti che saltano da un aeroporto all’altro.

Apter preferisce concentrarsi sul fenomeno della sempre più intensa “checkpointizzazione” del mondo (la parola “checkpoint” è stata creolizzata nella maggior parte delle lingue) e sul modo in cui i cosiddetti “residenti illegali” sono tormentati e deportati anche in contesti in cui si applaude al “multi-culturalismo”. Apter, una studiosa di traduzioni, chiede al pensiero critico di rifocalizzarsi su “l’intraducibile” – tutto ciò che non può attraversare i confini, sia dal punto di vista metaforico sia dal punto di vista concreto.

Diagne ha risposto ad Apter raccontando la sua esperienza pluridecennale di viaggiatore con passaporto senegalese. Il suo passaporto, ha affermato, è “un passaporto che non passa I porti” – è un documento privo di valore il cui possessore viene normalmente considerato persona sospetta. Diagne ha proseguito esprimendo i suoi pensieri sulla tragedia di Lampedusa del Novembre 2013.

La storia dei migranti africani che entrano nella eurozona via mare è praticamente indecifrabile per come viene presentata nei report dei media nazionali e globali, che dipingono i migranti come vittime senza speranza. A meno che non si faccia luce sulla complessa consapevolezza che i migranti hanno sviluppato al fine di negoziare con i meccanismi legali internazionali e le burocrazie degli stati europei. Quando una persona sa molto in anticipo, ancor prima di arrivare, che gli europei la deporteranno al suo arrivo, diventa imperativo, per quella persona, fare di tutto per confonderli.

Reporter sorpresi descrivono bambini “abbandonati”, apparentemente mandati ad attraversare il mare e a entrare in Europa da soli. Non si rendono conto i reporter che i bambini sono preparati all’incontro con gli ufficiali europei e sanno ben in anticipo che non devono dare alcuna indicazione della loro relazione con gli adulti a bordo (con il loro padre, zio o fratelli e sorelle maggiori). Un bambino abbandonato non è deportabile.

Perché rischiare la pericolosa attraversata? Perché se arrivi via mare non c’è nessun confine nazionale il cui attraversamento risulterebbe in un’espulsione.

Perché viaggiare senza documenti? Perché il passaporto non passerà i porti e servirà solo a rispondere alla domanda su dove dovresti essere deportato. Meglio arrivare senza quel pezzo di carta in cui ci sono così tanti dettagli sul di te.

Perché rimanere in silenzio quando si è interrogati? Perché la lingua in cui rispondi potrebbe dare a chi interroga un’idea dei tuoi luoghi di provenienza. Se parli una parola di francese potresti essere rimandato in Niger anche se vieni dal Mali. Non dire niente, così non c’è niente da tradurre.

 

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