Il rapporto creditore/debitore ha del tutto scardinato quello capitale/lavoro, ponendo fine all’esistenza della classe operaia e costituendo l’asse principale di una governance esercitata attraverso un asservimento macchinico che non passa attraverso la rappresentazione, il linguaggio, il logos. Sono queste le tesi principali dell’ultimo libro di Maurizio Lazzarato, Il governo dell’uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberista (Derive Approdi, 2013), di cui pubblichiamo una recensione.
Forse parola e comunicazione sono del tutto marce.
Sono impregnate dal denaro: non per casualità ma per natura.
Serve un détournement della parola. Creare è sempre stato tutt’altra cosa dal comunicare.
Forse ciò che importa sarà creare delle sacche di non comunicazione, degli interruttori, per sfuggire al controllo.
(Gilles Deleuze)
Nel suo ultimo lavoro il sociologo e filosofo Maurizio Lazzarato, che da tempo vive e lavora a Parigi, sviluppa ulteriormente i temi trattati nel precedente La fabbrica dell’uomo indebitato (Derive Approdi, 2012). I suoi capisaldi teorici sono come sempre Deleuze e Guattari, principalmente, ma anche Foucault (in parte superato) e una lettura inconsueta di Pasolini, Schmitt, Nietzsche.
Caratteristica della crisi del debito, sostiene Lazzarato, è che le sue stesse cause vengono elevate a rimedio. La contraddizione insita in questa soluzione è però solo apparente, poiché essa non è frutto di incompetenza ma di cinismo. E il suo scopo è ben preciso: distruggere ogni resistenza residua nei confronti della logica neoliberista.
La governamentalità della crisi è assolutamente autoritaria – e in questo sta il superamento della società disciplinare delineata da Foucault, la cui governamentalità era capillare ma non coercitiva – e mette in evidenza come sia illusorio pensare al liberalismo come un qualcosa di indipendente dalla sfera politica, interamente regolato dal mercato: il capitalismo è sempre capitalismo di Stato, sebbene possa imporsi anche attraverso dispositivi biopolitici non statuali (quali ad esempio i sondaggi, la televisione, internet). E la finanza, di fatto, è proprio questo: la politica – trasversale – del capitale.
Tutti questi temi sono anticipati nel glossario introduttivo, che costituisce una sorta di apparato lessicale del libro, e poi via via sviluppati e dipanati nel corso dei vari capitoli, ciascuno dei quali sviluppa un aspetto particolare dell’argomentazione complessiva.
Lazzarato ribalta radicalmente le teorie economiche classiche, sostenendo che non è affatto vero che al principio del ciclo economico ci sia la produzione, seguita poi dall’appropriazione e dalla distribuzione, quanto piuttosto il contrario: appropriazione e distribuzione sono i presupposti di produzione e crescita. L’appropriazione, poi, si esercita attraverso tre modalità: il profitto, la rendita e l’imposta. Se dunque fino agli anni Settanta abbiamo assistito al prevalere della logica del profitto, con l’avvento del neoliberismo qualcosa cambia: l’imposizione fiscale diventa il metodo principale di regolazione e di controllo. In una parola, di governo. Essa dirige la circolazione della moneta e fa del denaro un “equivalente generale”.
Decidendo chi deve pagare (i non responsabili della crisi) e dove deve confluire il denaro raccolto (ai creditori e alle banche responsabili della crisi), l’imposta garantisce la riproduzione in tutto e per tutto politica di un’”economia” e dei suoi rapporti di potere (creditori/debitori, capitale/lavoro) minacciati dal blocco della produzione e della moneta. I cosiddetti governi tecnici o di “salvezza nazionale”, sono politici per eccellenza. E il loro strumento politico fondamentale resta l’imposta. […] Il capitale non riesce più a “succhiare” produttività dalla società. Una funzione a questo punto delegata all’imposta, che non solo garantisce le funzioni di cattura in precedenza svolte dal profitto e dalla rendita, ma organizza anche la loro coerenza. Nel capitalismo il modo di produzione è indissociabile dal modo di predazione e la continuità della predazione è garantita dall’imposta (pp. 28-30).
Non esiste alternativa a questo stato di cose, non esiste riformismo possibile all’interno del capitalismo:
Le classi dirigenti non riescono a vedere le cause della crisi che pure stanno sotto i loro occhi, poiché “riformare” la finanza significherebbe banalmente mettere in discussione il capitalismo stesso. In un certo senso, non c’è alternativa al cinismo che comunque fanno proprio con un certo compiacimento (p.32).
Ma c’è di più. Il meccanismo dell’imposta e del debito crea una cattiva coscienza nell’uomo indebitato, instilla in lui un senso di colpa collettivo e allo stesso tempo solitario. In tal modo, a differenza di quello che accade nella società disciplinare, il controllo non viene dall’esterno, ma dal soggetto stesso, il cui tempo di controllo si estende da quello della fabbrica a quello dell’intera vita. Secondo Lazzarato il debito non è rimborsabile, e in questo si pone in aperta polemica con quanto sostenuto dall’antropologo David Graeber, né è espiabile la “colpa” che lo accompagna: il debito è infinito, non esiste alcuna possibilità di uscita. E, se mai esistesse, non sarebbe certo attraverso un rimborso monetario quanto attraverso un riscatto politico, che coinciderebbe con la fine del capitalismo.
L’analisi passa poi ai concetti di capitale e capitalismo, e ai modi di governamentalità che essi impongono. Il capitale finanziario costituisce la forma più compiuta di capitale, e non la sua degenerazione, perché si rivolge a flussi astratti, possibili, futuri, mettendo in pratica la legge fondamentale del capitale: produrre sempre nuovo valore. Così l’infinito si introduce nell’economia, e poiché per definizione l’infinito non ha equilibrio, ecco che il cerchio si chiude: “La crisi non è l’eccezione, ma la regola del capitale, è il suo modo normale di funzionamento”. Del resto l’aspetto distruttivo è costitutivo del capitalismo, che se da una parte produce ricchezza dall’altra riproduce disuguaglianza e povertà.
Ma chi governa chi, e come? È la finanza, attraverso le banche, le istituzioni finanziarie e le istituzioni politiche transnazionali, a gestire i flussi di capitale, di lavoro, di immaginari, di servizi. E lo fa enunciando degli assiomi dotati di valore operativo. Tali assiomi, sostengono già Deleuze e Guattari, sono «enunciati operativi» che «costituiscono la forma semiologica del capitale ed entrano come componenti nei concatenamenti di produzione, di circolazione e di consumo». Così, conclude Lazzarato «le cosiddette leggi dell’economia si rivelano essere degli assiomi politicamente stabiliti». Tale assiomatica gestisce dunque i rapporti tra flussi di vario tipo, ma lo fa in modo del tutto funzionale, indifferente alla loro natura. I rapporti tra flussi sono dunque, innanzitutto, rapporti di potere. L’unico fattore preso in considerazione è quello della loro redditività. E la società attuale non è poi così liquida, perché se da un lato il capitalismo deterritorializza i flussi, dall’altro li assiomatizza; se da un lato li liquefà, dall’altro li solidifica.
Le tecniche di governance non agiscono direttamente sul sociale e sugli individui, ma si servono di “macchine”: dispositivi, semiotiche, infrastrutture collettive che «suggeriscono, rendono possibile, sollecitano, incentivano, incoraggiano, impediscono azioni, pensieri, affetti o ne favoriscono altri». Peculiarità e tratto comune di tali macchine è quella di essere veicolo di semiotiche a-significanti, che pur non appoggiandosi alla sfera linguistica né a quella simbolica sono dotate di un’operatività capace di agire direttamente sui flussi materiali. Così, da un lato il capitalismo ci “assoggetta” – ci assegna delle individualità, dei ruoli, un sesso, una professione, un sé – attraverso saperi, pratiche discorsive, rappresentazioni. Dall’altro, invece, ci “asservisce”, riducendoci a componente umana del macchinismo, a “dividuali” la cui sfera mentale, rappresentazionale, psicologica, semplicemente non è richiesta:
Nelle società di controllo gli individui diventano dividuali, e le masse diventano campioni, dati, mercati o banche. Il dividuale costituisce una deterritorializzazione dell’individuo, mentre le banche dati, i campioni, i sondaggi di marketing costituiscono le sue modalità di esistenza collettiva. Il dividuale richiede un genere specifico di governance che costringe a confrontare i concetti di biopolitica e di biopotere alla produzione tecno-semiotica della soggettività. Se l’individuo, come indica il termine stesso, è indivisibile, insecabile, in quanto rinchiude dentro una sintesi, dentro un tutto (il sé) le soggettività parziali, modulari e preindividuali che lo compongono, il dividuale, sciogliendo la sintesi del soggetto, è infinitamente divisibile, infinitamente secabile, dunque infinitamente ricomponibile e manipolabile (p.158).
Se l’intero apparato argomentativo de Il governo dell’uomo indebitato non è certo improntato alla prudenza, risulta sicuramente più arduo da metabolizzare l’esito conclusivo dell’autore, la sua via d’uscita teorica dallo stato di cose attuale. Arduo proprio perché teoricamente valido e assolutamente condivisibile, ma difficile da pensare nel suo risvolto concreto.
Non c’è altra via d’uscita dalla crisi e dal capitalismo (il che, come sostenuto, è la stessa cosa) secondo Lazzarato, se non attraverso una radicale rottura: un non-movimento più che un movimento, una smobilitazione generale che si configuri come rifiuto del lavoro, come ozio, un rigetto dei ruoli e delle funzioni che l’assoggettamento sociale e l’asservimento macchinico ci assegnano. L’unico modo per destituire il sistema capitalistico, e stabilire un’uguaglianza che ponga fine alle gerarchie sociali, consiste nel seguire la via del non-movimento. All’interno di questo sistema, infatti, non esiste opposizione possibile: esiste solo lo sforzo di pensare un altro sistema.
Tale visione implica, naturalmente, un rifiuto della rappresentanza, che di fatto legittima i ruoli e le istituzioni esistenti: sono necessarie nuove soggettività e nuove istituzioni. Solo l’azione oziosa e il rifiuto del lavoro, conclude Lazzarato, possono permettere l’uscita dal circolo vizioso della produttività e la disidentificazione totale rispetto ai ruoli attuali. Un processo che richiede tempo, ma che secondo l’autore è l’unica via capace di portare alla creazione di nuovi possibili.