Tra la lotta allo stigma e i nuovi modelli di welfare: la questione della giustizia sociale.
Reparto Agitati, dopo aver rielaborato i contributi raccolti fino ad oggi, torna a definire le proprie prospettive d’indagine e ricerca attorno al tema della Salute Mentale. La riflessione che inizia oggi, che prevediamo di articolare in tre puntate, emerge da un percorso condiviso di incontri, riflessioni e discorsi tra Dipartimenti di Salute Mentale, associazioni, movimenti, imprese sociali. La rete di contatti ed esperienze che abbiamo percorso ci ha mostrato un campo estremamente contraddittorio, agitato da tensioni spesso inconsapevoli, strategie miopi e dibattiti asfittici, insieme ad esperienze vivaci e soggettività in rapida crescita che però faticano a creare coscienza diffusa, a saldarsi tra loro e a leggere la propria posizione all’interno di una più articolata riflessione politica.
Guardando oggi al campo della salute mentale abbiamo notato vari fenomeni di sicura rilevanza e di crescente impatto. Proviamo ad esporli in una sintetica ricognizione, disponendoli in ordine di complessità per motivi puramente didascalici.
1. Lotta allo stigma: un fenomeno ambivalente
Il primo: nell’ambito dei discorsi, la malattia mentale non è più un tabù. Nelle sue articolazioni di disagio, fragilità, rischio, sempre più la malattia mentale si presenta come un’esperienza “possibile”, in qualche modo anche “attraversabile”, quindi non necessariamente legata alla inguaribilità, all’esclusione dal consorzio sociale e ad una aberrazione originaria della natura umana, che comporterebbe il marchio a fuoco del male inestirpabile dall’individuo. I documenti di programmazione nazionali ed internazionali, gli atti di indirizzo dei Dipartimenti di Salute Mentale, le forme in cui il tema appare nella macchina tritatutto del dibattito pubblico sempre più convergono dietro la parola d’ordine della “lotta allo stigma” come momento fondamentale delle azioni positive per la Salute Mentale. Anche negli ambiti, popolosi nel campo psichiatrico, che poco o nulla hanno avuto a che fare con la storia della deistituzionalizzazione, i discorsi sembrano convergere su parole d’ordine come “guarigione”, “inclusione sociale”, “recovery”, “partecipazione”. La malattia mentale, dunque, sempre più si presenta come una condizione esistenziale che può vivere “chiunque” in diversi momenti della vita, che si può affrontare e che non deve o non dovrebbe spaventare anche perché i “tecnici” hanno finalmente predisposto una serie di strumenti, basati sulle vaste acquisizioni delle scienze dell’uomo, pronti ad essere messi in atto per garantire all’individuo di attraversare la circostanza della malattia “prendendosi carico” di ogni aspetto, dalla gestione dell’episodio psicotico acuto alla socializzazione. Sembrerebbe che il fronte battuto negli ultimi vent’anni dalle associazioni dei familiari e dai soggetti istituzionali che si riferiscono all’esperienza antistituzionale sia stato ampiamente sfondato, avendo prodotto nei “tecnici” e negli “amministratori” una risposta adeguata, che, almeno a un primo sguardo, pare averne recepito le indicazioni. Tuttavia nella vita concreta degli uomini, sempre più esposti a fattori di rischio come conflitti, tensioni sociali, disoccupazione, disparità nella distribuzione di salari, resta da capire in che misura questa “riduzione dello stigma” non risulti solo un tentativo di normalizzare vite francamente insopportabili, riproducendo una forma ancora più subdola di delega del controllo sociale alla Salute Mentale, nella misura in cui, a fronte di tecnici e professionisti pronti a prendere in carico “chi non ce la fa”, resta politicamente inevaso il tema della lotta per il lavoro, per salari più equi, per il diritto all’abitare e per migliori condizioni di vita collettiva.
2. Ambiguità della prassi
Il secondo aspetto che interviene a rendere più complesso e ambivalente il primo, riguarda il campo della prassi. Se abbandoniamo gli strumenti teorici e le linee di indirizzo elaborate dagli organi di governo e scendiamo nella declinazione “istituzionale” del diritto alla Salute Mentale, sancito dalle leggi 180 e 883 e successivamente affermato dai Piani Obiettivo e da documenti internazionali come il Global Action Plan on Mental Health del 2013, la distanza tra le affermazioni di principio e le prassi resta abissale. I contributi che scandagliano questo abisso sono innumerevoli nella letteratura; prendiamo come rappresentativo solo l’ultimo, redatto dalla Commissione Parlamentare di Inchiesta sul Sistema Sanitario Nazionale, che passando in rassegna i servizi di Salute Mentale in Italia ha denunciato per l’ennesima volta le gravi mancanze emergenti dalla estrema varietà di pratiche, modelli normativi e culture organizzative, concludendo che esistono zone in cui le citate linee guida sono state “disattese” producendo “lacune, anche gravi, nella rete globale dell’assistenza sanitaria, fino a situazioni di franco degrado”. Nel dibattito pubblico odierno, tali rilievi vengono svolti nell’alveo della nozione di “equità”. Anche agli occhi del più “tecnico” tra i decisori politici, la palese violazione di un principio aritmetico di distribuzione di risorse e di opportunità appare come una criticità rischiosa, pure se gli strumenti della mera analisi matematica (dal numero dei posti letto disponibili nelle cliniche, alla quantità di ore di apertura di un CSM) sembrano essere strumenti inadeguati a colmare quell’abisso. E sembrano altresì rinforzare quella deriva aziendalistica e fortemente burocratizzata ereditata dai modelli neoliberisti di gestione amministrativa del sanitario.
3. La questione inevasa della giustizia sociale
Il terzo aspetto che vogliamo segnalare è importante soprattutto per chi resta convinto della “verità pratica” delle acquisizioni del movimento anti-istituzionale e cerca di collocare i sommovimenti del campo psichiatrico all’interno della più ampia realtà sociale. Si tratta, senza mezzi termini, dell’aggravarsi delle disuguaglianze tra chi può concretamente esercitare i diritti di cittadinanza e chi ne è, temporaneamente o cronicamente, escluso. Non ci soffermiamo su questa constatazione. Chi è nelle condizioni di gettare uno sguardo limpido sulle circostanze della vita urbana, sulla povertà delle relazioni umane, sulle storie di vita che quotidianamente si svolgono nella fabbrica, nel carcere, nella scuola, nelle aspiranti metropoli del terziario avanzato, nei recessi delle case di lavoro, nei CIE e nelle periferie ombrose dei nostri sempre più efficaci sistemi di servizi alla persona ha esperienze sufficienti per riempire di contenuti questa osservazione.
In particolare, come redattori di Reparto Agitati, ci interessa qui osservare il ruolo che le pratiche e i discorsi sulla Salute Mentale sembrano svolgere se osservati da questo specifico punto di vista. Una Salute Mentale sempre più “accessibile”, sempre più pronta a rispondere con “competenza” e “perizia tecnica” all’elevata complessità dei bisogni da essa stessa formulati e continuamente riformulati, in che rapporto sta con la realtà sociale che la circonda, che le dà mandato, che essa stessa contribuisce a costruire e incessantemente ricostruire? In questo campo lo “stato dell’arte” della riflessione è particolarmente frammentato e per la sua ambiguità presenta non pochi recessi francamente scivolosi. Il rischio è che si ripropongano ideologie di ricambio, tecnicismi tesi a mantenere quello status quo che non consenta un reale affrontamento delle contraddizioni.
4. L’arretratezza delle conquiste socialdemocratiche
Da una parte, le vecchie forme di egemonizzazione storica della prassi antistituzionale sembrano aver perso quella spinta propulsiva di analisi critica rispetto al tema prettamente politico delle disuguaglianze sociali e alle forme contemporanee della prassi nei contesti istituzionali. Tali soggetti continuano, con uno sforzo importante e in condizioni determinate da rapporti di forza sempre traballanti e precari, a difendere la “buona Salute Mentale”, partendo da una sempre più chiara delimitazione del proprio ambito di azione (i servizi sanitari, magari allargando la fascia oraria di gestione dell’esistente – pensiamo ai CSM 24 ore) e inserendo il proprio operato nel quadro delle alleanze istituzionali che permettano di continuare a nutrire il legame che in certi territori si è riusciti a costruire. Il rinato interesse su temi come “l’impresa sociale” e la recente mobilitazione nazionale sugli OPG potrebbero essere contenuti che riaprono questi soggetti alla tematizzazione delle questioni sociali più ampie, alla presa di posizione politica e alla concreta vitalità dei movimenti sociali. Tuttavia resta forte il rischio che questi soggetti siano troppo incardinati nella riproposizione di un “modello” da difendere contro la destrutturazione neoliberale dei buoni servizi socialdemocratici, o forse in generale contro la scomoda attività del mettersi in discussione come tecnici del sapere pratico. E che quindi questo sforzo rimanga confinato al puro sventolìo di slogan senza un adeguato radicamento alla realtà. Non ci sembra comunque esagerato dire che posizioni puramente “difensive” possono limitare la spinta creativa, costringendo tali soggetti anche a mantenere in vita alleanze e pratiche che risultino “di comodo” piuttosto che realmente trasformative dell’esistente. Il rischio è che, passata la fase di “effervescenza”, i servizi concretamente riformati si siano “istituzionalizzati”, cioè cullati nell’illusione di aver concluso l’analisi critica e concretamente compiuto l’adeguazione della verità alla pratica. Si tratta chiaramente del rischio della riproposizione di un modello che, nella misura in cui vede solo l’aspetto della “organizzazione dei servizi di Salute Mentale”, rischia di essere un pesante paraocchi che impedisce di dialogare con le odierne forme di esclusione e marginalizzazione, con le contraddizioni reali del tessuto sociale.
5. La gabbia dorata del welfare mix
D’altra parte, nei territori più disparati per storia e cultura, sono emerse ipotesi di organizzazione dei servizi meno sensibili alle “conquiste” socialdemocratiche e più declinate secondo la retorica del “welfare mix” postmoderno. Coproduzione, empowerment, auto mutuo aiuto, sussidiarietà orizzontale, lavoro di rete, utenti esperti, facilitatori sociali sono stati negli ultimi anni le frontiere del riassetto istituzionale di alcuni servizi di Salute Mentale. E’ indubbio che attraverso queste nuove sperimentazioni si siano creati spazi di confronto “comune” che, in certi contesti, hanno aperto la strada ad evoluzioni molto interessanti e sensibili anche sui temi sociali sopra richiamati (parliamo sopratutto di alcune esperienze della Toscana, dell’Umbria e dell’Emilia Romagna). Tuttavia queste impostazioni restano fortemente segnate da una serie di criticità che rischiano di costituirne un intrinseco limite. La formula organizzativa del “welfare mix” ripropone una questione fondamentale per quanto gravemente sottovalutata: in che misura le sue “nuove” strutture, corroborate dalla retorica della partecipazione e della sussidiarietà, mantengono viva la questione della giustizia sociale, della compensazione delle disuguaglianze, della costruzione collettiva di spazi di azione concreta per permettere alla totalità dei cittadini di incidere sulle proprie condizioni di vita? Al di là della progressiva esclusività e ristrettezza, con conseguente perdita di senso, della nozione universalistica di cittadinanza (che sempre più nei nostri sistemi sociali diventa un lusso, che stranieri senza contratto di lavoro e vecchi e nuovi poveri non possono permettersi) queste formule organizzative rischiano di nascondere dietro il “nuovo” delle loro proclamazioni le vie “morbide” per un ritorno dei sistemi di welfare al residualismo ottocentesco, nei quali chi ha le risorse per ricostruirsi una identità “tecnica” da buon utente ottiene la sua parte di diritto alla salute in quanto bravo cittadino che partecipa, chi invece non si adatta a questa camicia rischia, nel migliore dei casi, di finire dentro l’alveo asfissiante dell’assistenzialismo arcigno e caritatevole dei privati variamente confessionali, nel peggiore di essere traslato verso altri circuiti di esclusione, dal carcere, all’infinito repartino, alla strada. Non secondo per importanza, l’altro aspetto gravemente critico riguarda la crescente professionalizzazione del sapere esperienziale di utenti e cittadini fruitori a vario titolo dei servizi. Data per scontata la questione che questo possa costituire un giustificativo verso la crescente riduzione della spesa pubblica, per cui si edulcora il costante taglio di risorse strutturali con la progressiva sostituzione del lavoro di volontariato professionale alla giusta riorganizzazione dell’intervento pubblico, è utile dare voce qui anche a un’altra dissonanza critica. L’istituzionalizzazione della partecipazione, dell’assemblea, del “tavolo partecipato”, rischia di rivelarsi un mero strumento per depoliticizzare e deconflittualizzare le contraddizioni che via via emergono dalla concreta esperienza di chi chiede di vedere riconosciuto il suo bisogno di salute. Nell’enfasi della “comunità” e della armonia che proviene dalla composizione degli interessi particolari che insistono su un territorio, si annida il germe del comunitarismo aconflittuale, per cui diviene impossibile leggere i rapporti di forza che producono la malattia e ne condizionano i modi di espressione. La gabbia d’oro della partecipazione sembra essere l’orizzonte attuale in molti servizi, in cui l’assemblea non fa emergere nessun conflitto, diventa anzi pratica legittimante di servizi di “elitè” in quanto “espediente tecnico” (servizi che magari liberandosi dalla cronicità possono dedicarsi ai disturbi minori come ansia e depressione, oppure alle prestazioni su cui ci sono maggiori investimenti come i disturbi del comportamento alimentare e gli esordi psicotici giovanili). Contemporaneamente non c’è una reale riduzione delle pratiche neo asilari (non solo nei servizi di Salute Mentale ma su tutte le istituzioni del territorio).