Il 5 dicembre scorso sono stati divulgati i risultati delle indagini PISA-OCSE per il 2012. Pubblichiamo un commento di Claudia Boscolo al Rapporto nazionale sul sistema d’istruzione italiano.
Me spiego: da li conti che se fanno
seconno le statistiche d’adesso
risurta che tocca un pollo all’anno:
e, se nun entra nelle spese tue,
t’entra nella statistica lo stesso
perché c’è un antro che ne magna due
(Trilussa, La Statistica)
Il rapporto PISA-OCSE 2012 mostra alcuni punti di interesse che vanno commentati con attenzione.
Il dato che salta drammaticamente agli occhi leggendo i risultati dell’indagine, basata sulle risposte offerte dagli studenti quindicenni ai test INVALSI, è quello relativo al divario fra Nord e Sud, con la Calabria che si posiziona all’ultimo posto nella classifica del rendimento e il Trentino al primo. Estremo Nord contro estremo Sud.
Sembra la metafora dell’Italia, o una rappresentazione del discorso leghista che da vent’anni ormai domina lo scenario politico, il Nord che traina il Paese e il Sud che vive della Cassa del Mezzogiorno.
In altre parole, l’INVALSI, sembra uno strumento atto a evidenziare in maniera impietosa la situazione sociale del Meridione, piuttosto che a sollecitare il Ministero verso il riconoscimento dei meriti del sistema scolastico italiano.
Inutile sottolineare per la milionesima volta che il modo in cui i test sono strutturati prevede una preparazione di base atta non ad alimentare un pensiero critico e solleticare la curiosità degli alunni, cosa che dovrebbe fare la scuola, ma a plasmare un esercito di soldatini addestrati a rispondere a domande spesso vacue e inutili ai fini degli obiettivi formativi che si pone l’offerta scolastica.
Se in altri paesi dell’Unione Europea questo sistema di valutazione funziona grazie a una formazione di tipo modulare già in atto da decenni, e quindi una mentalità rivolta verso forme di produttività anche a livello scolastico, in Italia i farraginosi programmi ministeriali sono un ricordo troppo recente perché si possa esercitare la pretesa di un passaggio dal programma al modulo in un tempo insufficiente a digerire questa transizione.
Servirebbe per lo meno un ricambio generazionale fra gli insegnanti, ricambio che è certamente più veloce al Nord, dove le graduatorie scorrono più in fretta e gli insegnanti formatisi alle SSIS, quindi con un metodo più consono al tipo di valutazione su cui si basa il rapporto OCSE, sono già per lo più di ruolo.
Dal rapporto emerge inoltre che il sistema scolastico italiano mostra un lieve miglioramento rispetto alla precedente indagine, in particolare in matematica, materia in cui gli studenti italiani hanno offerto una migliore perfomance rispetto agli anni precedenti.
Rimangono invece stazionari i risultati nella lettura, in cui l’Italia si posiziona allo stesso livello di altri paese europei quali l’Austria, il Portogallo e la Spagna.
Ciò a cui non viene dato rilievo dai media è il fatto che mentre tra il 2001 e il 2010, la spesa per studente è cresciuta nella maggior parte dei Paesi dell’OCSE, in Italia durante lo stesso periodo la spesa cumulata per studente dai 6 ai 15 anni di età è diminuita dell’8%, con una riduzione di risorse concentrata verso la fine del periodo. Nel periodo summenzionato, riduzioni della spesa nel mondo sono state riscontrate solo in Italia,Islanda e Messico.
In breve, mentre il resto del pianeta sta investendo nell’istruzione, in Europa solo l’Italia e l’Islanda riducono la spesa per la scuola. Ciò tuttavia non sembra avere avuto alcun impatto sul rendimento scolastico degli studenti islandesi, mentre il rendimento di quelli italiani è migliorato.
Leggendo il rapporto, parrebbe che non vi sia relazione alcuna fra la spesa pubblica per la scuola e il rendimento degli studenti. Ad esempio, laddove Italia e Singapore hanno investito circa la stessa cifra per allievo dai 6 e ai 15 anni, l’Italia ottiene 485 punti in matematica mentre Singapore ne ottiene 573. Un altro esempio è offerto dal raffronto fra Italia e Norvegia, che riportano simili risultati, ovvero rispettivamente 485 e 489 punti, ma la Norvegia investe in maniera molto considerevole rispetto all’Italia.
Questo argomento verrà certamente utilizzato da chi gestisce le risorse per la scuola per dimostrare che il livello di investimento è irrilevante, perché comunque i risultati italiani sono solo lievemente inferiori alla media europea, e se il Sud non tirasse verso il basso, sarebbero addirittura superiori.
Appunto, diciamo noi: se non si investe nella scuola del Meridione, non solo come fabbrica di robottini in grado di rispondere bene a un test, ma come elemento imprescindibile del tessuto sociale per la crescita del Paese, come sarà possibile superare questo divario?
L’attenzione dovrebbe essere rivolta al benessere del Paese e non ai numeri di un rapporto che ci dice che tutto sommato ce la caviamo anche se i tagli sono stati selvaggi, e grazie al Nord, alimentando così i peggiori argomenti leghisti.
In realtà, i numeri del rapporto OCSE si basano su test altamente discutibili e non in linea con il tipo di offerta formativa che tradizionalmente propone la scuola italiana, da sempre orientata al versante umanistico.
Questa è una caratteristica che dovrebbe essere valorizzata e non umiliata, come si fa quotidianamente con il nostro incomparabile e inestimabile patrimonio storico-artistico.
L’incapacità endemica di chi amministra questo Paese di trarre il massimo profitto dalle sue immense risorse culturali trasformandole in occasioni per creare occupazione e indotto è la stessa che eleva la cultura scientifica a detrimento di quella umanistica, considerando le due in opposizione, mentre come insegna la storia culturale di questo Paese, che è storia culturale europea e andrebbe studiata un po’ meglio, le due culture da sempre vivono in simbiosi e si alimentano reciprocamente, testimoni i grandi intellettuali del nostro Rinascimento.
Infine, il rapporto pone in evidenza il fatto che in Italia poche scuole hanno autonomia nello stanziamento delle risorse. Citando dal documento:
[in] media nell’insieme dei Paesi dell’OCSE, circa il 70% degli studenti o oltre frequenta scuole in cui i dirigenti riportano che solo le autorità nazionali e/o regionali dell’istruzione pubblica hanno una responsabilità rilevante nella determinazione degli stipendi d’inizio carriera degli insegnanti e nel decidere gli aumenti di stipendio degli insegnanti. Il 93% degli studenti in Italia frequenta scuole con dirigenti senza potere decisionale in materia di spesa per personale. All’opposto, nei Paesi dell’OCSE, i dirigenti scolastici e/o gli insegnanti hanno maggiori responsabilità per selezionare, assumere, licenziare gli insegnanti e formulare il budget della scuola e la sua ripartizione (p.4).
Sembra di poter cogliere il suggerimento che se i dirigenti avessero autonomia decisionale sugli stipendi di inizio carriera e sui licenziamenti, il rendimento scolastico degli alunni migliorerebbe.
L’indicazione del rapporto va quindi nel senso di un rafforzamento del ruolo dei dirigenti e dell’autonomia scolastica a scapito del Ministero. Questa sembra anche essere la direzione imboccata dai partiti per le prossime politiche, e certamente il PD, partito di maggioranza allo stato attuale, da tempo mostra un orientamento sulle politiche della scuola rivolto al rafforzamento del ruolo decisionale dei dirigenti anche in materia economica.
Tuttavia, non si vede sinceramente in quale modo la maggiore autonomia scolastica nella gestione delle risorse finanziarie possa avere un impatto determinante sul migliore rendimento degli studenti. Forse se ne deve dedurre che importare anche nella scuola pubblica il ricatto del licenziamento per scarso profitto, cioè allargare a un ambito dove una serena valutazione dell’operato degli insegnanti è pressoché impossibile da attuare e in genere si basa più su elementi umani, come la capacità di offrire supporto emotivo agli allievi (quella che in inglese si chiama pastoral care, e che è fondamentale nel sistema scolastico anglosassone), il tipo di valutazione del rendimento del singolo che si attua ad esempio nel sistema bancario. Un’idea folle e offensiva, che va a ledere il cuore della professione di insegnante.
In conclusione, si potrebbe dire che il rapporto PISA-OCSE, seppure basato sui risibili test INVALSI, solleva almeno tre questioni importanti:
– il divario fra Nord e Sud è troppo alto e andrebbe posto rimedio, che non consiste nel tagliare i fondi alla scuola pubblica, ma al contrario nel rafforzarli proprio in quelle aree del Paese ad alto rischio di illegalità per gli adolescenti, dove la scuola funge da paratìa per arginare un fenomeno sociale di gravità non più eludibile;
– un maggiore investimento nella scuola forse non garantirà una migliore performance nei test INVALSI, ma di certo garantisce un ambiente più sereno per alunni e per insegnanti, che si trovano a svolgere il proprio fondamentale compito in condizioni spesso invivibili (con particolare riferimento all’edilizia scolastica): è questo precisamente uno degli indici di civiltà di un Paese, e in specie di uno che possa dirsi veramente europeo;
– la maggiore autonomia dei dirigenti scolastici in materia economica non può essere considerata la panacea che garantirà in futuro un maggiore rendimento dei singoli docenti, pena il decurtamento dello stipendio o il licenziamento: non è certo attuando forme di coercizione e ricatto ai danni del corpo docente che il rendimento scolastico dei nostri quindicenni può migliorare, quando tutta la società concorre a offrire modelli culturali tendenti al ribasso di cui è stata diretta responsabile la stessa rappresentanza politica negli ultimi due decenni.
Su questo ultimo punto una riflessione approfondita sarebbe il caso di farla, aldilà del rapporto OCSE e della discussione sulla validità degli INVALSI.