Al Teatro Valle la cultura occupa la scena

Riprendiamoci il Valle

da Roma

Ventidue giorni fa il sipario del Teatro Valle di Roma si è affacciato sulla strada che gli passa attorno e non si è più ritratto. Il 14 giugno un centinaio di lavoratrici e lavoratori dello spettacolo hanno occupato il più antico teatro romano per opporsi al rischio della privatizzazione dello stabile dando vita a un incredibile spazio di riflessioni sulla politica culturale di questo paese, che non si è ancora chiuso.

In seguito ai tagli previsti dall’ultima finanziaria, con il decreto legge n.78 del 31 maggio 2010, l’Ente Teatrale Italiano è stato soppresso. In fase di transizione i suoi compiti sono stati affidati al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ed in particolare alla Direzione Generale per lo Spettacolo dal Vivo. Nel corso delle settimane, come tentativo di risposta all’occupazione, il Comune di Roma ha assicurato che la gestione del Teatro sarebbe stata affidata a Roma Capitale e che si sarebbe potuto aprire un tavolo di trattative con gli occupanti per la sua direzione. Ma l’invito è stato declinato. Gli occupanti hanno deciso di non rispondere a una proposta nata sull’emergenza e che mirava, senza alcuna garanzia, alla momentanea risoluzione del problema. Hanno deciso di prendersi il proprio tempo e di rilanciare, ad elaborazione conclusa, una piattaforma di gestione, elaborata con il contributo del giurista Ugo Mattei, che oggi a mezzogiorno verrà presentata in conferenza stampa.

Per il Teatro Valle, assieme a pochi altri teatri sopravvissuti alle numerose soppressioni che da ormai diversi anni caratterizzano la gestione degli spazi pubblici della cultura in Italia, si è quindi aperta la possibilità di subire, in seguito a una paventata privatizzazione (che potrebbe comunque seguire al passaggio di gestione avvenuto qualche giorno fa a Roma Capitale), una trasfigurazione somatica radicale. Da pubblico a privato, da teatro a bistrot, da teatro a albergo, da teatro a supermercato. In un paese sclerotizzato dalla cultura del consumo, il 60 per cento dei beni artistici del mondo risiedenti sul suo territorio stanno perdendo la propria identità precipitando tra le maglie di un mercato di compravendite che ne polverizza anima e significati. In un’Italia che ha rinunciato a un ente pubblico che gestisse e organizzasse i luoghi della sua cultura, come punti d’intersezione critica tra tradizione e contemporaneità, al Valle si è imposta un’inversione di tendenza. Questa occupazione ha creato uno spazio nuovo. Uno spazio che non ricorda stagioni passate verso le quali si è soliti nutrire nostalgia pur non avendole mai vissute. La potenza della ’liberazione’ ragionata di questo luogo porta con sé i connotati dei tempi in cui si svolge che, nel rispetto di una storia preziosa, sono rivolti al di là dell’orizzonte. Si mette quotidianamente in scena il contemporaneo prendendosi il tempo di cui si ha bisogno, assieme. Sottraendosi al tempo della mercificazione e del consumo, si entra nel tempo del fare che produce cambiamenti.

Pochi mesi fa Fabrizio Gifuni dichiarava a Repubblica: “Quando si capirà che la cultura non è tempo libero, che non c’è una spaccatura del tempo in tempo delle cose serie -che sono la produzione e il consumo- e il tempo libero -quello durante il quale ci si svaga un po’-, quando si capirà che il terreno della cultura fa parte a tutto diritto del tempo delle cose serie, allora forse le cose cominceranno a cambiare.”

Seguendo il tempo del Valle, si ha l’impressione che forse le cose stiano cambiando davvero perché il tempo del teatro romano in questi giorni è unico e totalmente pubblico: dilatato, complesso, condiviso, attivo.

Nel corso delle assemblee pomeridiane e delle serate di spettacolo si ha la sensazione che si stia assistendo a minuzioso lavoro di ritessitura tra le parole e le cose, per ristabilire quel rapporto diretto tra il dire e il fare che consente di cambiare. E sono le soggettività di oggi a parlare: attrici, attori, registi, registe, scrittrici, scrittori, ricercatrici, ricercatori, giornalisti, giornaliste, musicisti e tanti, tantissimi tecnici. Lavoratori della conoscenza che partecipano di una comune condizione di precarietà ormai rappresentata anche dalla configurazione degli spazi all’interno dei quali lavorano.

La precarietà diventa dunque punto comune di partenza per la creazione di una lotta contro l’essenzializzazione di una condizione di liminalità costretta dalla frantumazione della continuità di ogni formazione, di ogni professione, di ogni produzione.

Nel corso di un’assemblea Christian Raimo, giovane scrittore del gruppo TQ, è intervenuto raccontando l’origine di questa esperienza: “A un certo punto ci siamo accorti che c’era un momento di crisi per cui non riuscivamo più a fare bene il nostro lavoro. Abbiamo cercato di mettere a fuoco i problemi strutturali che ci impedivano di fare il nostro lavoro. A quel punto abbiamo capito che dovevamo parlare da cittadini, dovevamo fare un discorso politico da lavoratori della conoscenza in tutti i campi del lavoro culturale in Italia.”

Gli occupanti si sono presi il loro tempo e l’hanno regalato alla città: da tre settimane infatti alcuni tra i maggiori artisti e intellettuali di questo paese stanno passando per il palcoscenico del teatro romano per contribuire alla protesta in corso.

Sulla scena si alternano monologhi, riflessioni condivise, musiche parole.

Dal Carmelo Bene di Fabrizio Gifuni si passa all’inconscio che si fa Stato di Ciarrapico; dalla solidarietà di Roberto Vecchioni portata da Skype si arriva a quella di Dario Fo; dalle parole di Pippo del Bono al Caimano di Moretti, dal Majakovskij di Sonia Bergamasco al Benigni di questa sera.

Ma la cosa più importante è sapere cosa sta succedendo dentro, nell’intestino di questa occupazione che con grande generosità regala alla città di Roma, e a chiunque voglia assistervi, 4 ore di spettacolo a sera e il profumo di un fare il quotidiano diverso.

È importante parlare di questo sia perché dietro a una notizia c’è sempre un humus di pratiche condivise alle quali quasi mai si fa riferimento e che invece ne costituiscono l’epicentro, sia per delegittimare tutte quelle denunce fuorvianti che si nutrono di situazioni radicali come queste per agire una politica reazionaria attraverso la retorica del pericolo.

Benedetta Cappon, ufficio stampa dell’occupazione, mi dedica un po’ del suo tempo e nello spazio di un caffè e una fetta di torta al bar di fronte al teatro mi racconta un po’ del dietro le quinte di questa lotta politico-culturale: “Siamo un gruppo ampio di persone che negli ultimi tre anni si è incontrato periodicamente per riflettere sulle problematiche legate al mondo della gestione della cultura, nello specifico dello spettacolo in ambito teatrale. L’occupazione di queste settimane quindi affonda le sue radici in un percorso lungo e elaborato durante il quale si sono messi a fuoco una serie di punti che in queste giornate stiamo sviscerando. C’è un numero più o meno fisso di partecipanti che lavorano quotidianamente all’organizzazione della vita all’interno del teatro e che condivide una media di sei ore di assemblea al giorno. Parliamo di una trentina di persone che dormono tutte le notti e una cinquantina che partecipa assiduamente all’organizzazione di piattaforme e attività serali. Siamo tutti stupiti per l’alta adesione che si sta creando attorno a questa protesta. Devo ammettere che in tutti questi anni di frequentazione e lavoro in ambito artistico non ho mai visto tanto coinvolgimento e nonostante la stanchezza ormai pesante, questa è una constatazione che ci dà energia e che alimenta il nostro impegno. Ed è una conferma non solo della radicalità condivisa di questa azione ma della complessità a cui fa riferimento. Perché la gestione del Valle è solo uno dei punti di cui si discute. Al centro del nostro confronto c’è la precarietà della formazione e del lavoro culturale, l’assenza di un welfare che in questo paese garantisca un accesso legittimo ai servizi e ai diritti e la mala gestione degli spazi che, anche se pubblici, risentono delle logiche politiche interne per cui l’organizzazione degli stabili e le nomine dei direttori artistici vengono effettuate in continuità con le logiche delle lobby che già detengono potere politico e non sulla base di progetti culturali. Il pubblico dovrebbe garantire laddove il privato non rischia, il ‘nuovo’ è uno di questi luoghi.”

Ci raggiunge fuori per una sigaretta Giorgia Salari e le chiedo di spiegarmi come funziona la gestione pratica della situazione all’interno del teatro: “Ci siamo divisi in gruppi, c’è l’ufficio stampa, quello dell’organizzazione artistica, quello che si occupa dei pasti, il servizio d’ordine e quello delle pulizie. In realtà la composizione dei gruppi è a rotazione e al tempo stesso ognuno è sempre pronto a fare quel che serve. Ma per necessità organizzative e di gestione ci siamo dati un ordine che è quello che ci consente di portare avanti questa occupazione nel migliore dei modi. Abbiamo un estremo rispetto per il Teatro Valle, sappiamo che decidendo di occupare uno spazio prezioso come questo andiamo incontro a serie responsabilità. Ma il bisogno di rispetto del luogo nasce da noi e non dalle minacce che ci vengono periodicamente mosse. Noi: attori, registi, scenografi, tecnici che lavoriamo quotidianamente per il e nel teatro nutriamo un senso di sacralità nei confronti di questo luogo che sfocia in un’autentica esigenza e quindi pratica di tutela. Stiamo occupando proprio per questo: perché riteniamo che la gestione pubblica degli spazi in cui si fa cultura debba essere educata, rispettosa e intelligente ma non per questo meno accessibile.
È stato molto importante per noi realizzare come le nostre istanze fossero in realtà condivise da altri lavoratori della conoscenza. Se infatti inizialmente siamo partiti da un gruppo eterogeneo di lavoratori del teatro, nel corso delle assemblee e degli incontri abbiamo capito che la situazione in cui ci ritroviamo da ormai diverso tempo è condivisa da lavoratori del cinema, delle arti visive, dai musicisti, dagli scrittori. È un problema di cultura e di politica culturale. E proprio per una questione di integrità politica abbiamo deciso per la programmazione serale che, salvo rarissimi casi, nessuno di noi avrebbe fatto pezzi propri. Chiunque di noi fosse salito sul palco avrebbe messo in scena parole di altri. Per evitare che si pensasse che questa occupazione altro non fosse che l’autogestione di una passerella della quale approfittare per mettersi sotto ai riflettori.”

Al Teatro Valle la discrezione diventa una scelta politica. Nell’era in cui l’immagine ipersoggettivata crea la notizia, sul palcoscenico del Valle i corpi vestono storie altrui per parlare di una condizione di vita comune. Ed è stando lì, seduti ogni sera per una settimana di fila, che si capisce come una condizione di vita faticosa e disgregante, possa trasformarsi in un luogo di rifondazione di un sé che da soggettivo diventa plurale.
Il linguaggio di questa mobilitazione è lo stesso che ha raccolto milioni di italiani attorno all’acqua, attorno alla Tav, attorno al desiderio di rinascere questo paese ridefinendo i termini fondamentali che ne costituiscano i pilastri fondanti. Il web infatti è stato ed è tutt’ora lo spazio della comunicazione che crea le reti attraverso le quali si organizzano nuove piazze in cui produrre nuove pratiche quotidiane che restituiscano relazionalità, pensiero critico e diritto ad una cultura frantumata dal consumo.

A Roma, assieme al Teatro Valle, stanno occupando un cinema nel quartiere di S.Lorenzo e uno vicino alla stazione Termini. Un po’ alla volta la cittadinanza sta rivendicando l’accessibilità a spazi di cultura pubblici riconoscendo nell’abitare un principio fondamentale dell’esistere.

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