di Vincenzo Idone Cassone
Il 23 giugno, in occasione di Vdf 2011 è andato in scena Sonno, della compagnia Opera (di Vincenzo Schino), premio Lia Lapini 2010. Nel titolo come nell’opera corrono sotterraneamente due riprese fondamentali del suo messaggio e immaginario: da una parte i Caprichos di Goya (su tutti, il primato intellettuale de Il sonno della ragione genera mostri; ma sono i ritratti dello spagnolo ad aver condizionato la mano di Pierluca Cetera, autore delle tele); dall’altra il mondo sconvolto dal caos di Macbeth, mondo in cui, distrutto l’ordine naturale, il sonno non è più possibile. Tutti questi riferimenti, alcuni espliciti altri meno, puntellano e cospargono il testo di piccoli rimandi e illusioni che sembrano confondersi e non mirare ad una struttura e ad una storia precisa; così come l’opera più che uno sviluppo narrativo sembra puntare sul percorso emozionale e sull’impatto, anche feroce, che le immagini e i suoni procurano nello spettatore.
Come al solito, pienone; una quarantina di persone. Mi sono chiesto quanta gente, prima dello spettacolo, avrebbe voluto vederlo e non ha potuto. Quante persone lo avrebbero apprezzato o compreso più di me. Quante non sono volute venire volontariamente e quante non sono state raggiunte dalla campagna pubblicitaria. Mi sono chiesto se scrivere un articolo, cercare di chiarificare e spiegare, dare un filo logico non sia in fondo un errore persino per chi ha assistito allo spettacolo. Personalmente, sono ancora percorso dalla sensazione che in questo spettacolo si “navighi a vista”. Ho pensato che forse sarebbe più utile se, invece di recensire o commentare il testo, ne raccontassi alcuni frammenti. Per come li ricordo e senza molte pretese. Magari usando qualche immagine e video che ho trovato sulla rete (qui e altrove) e più con lo scopo di mettere in gioco le capacità immaginative di noi tutti che di ricostruire una versione coerente dello spettacolo. Mi piacerebbe farvici trovare in mezzo, stimolare le vostre impressioni, se lo avete visto, oppure lasciarvi suggestionare dal piccolo esperimento di montaggio “ermeneutico”, e collaborare al suo sviluppo aggiungendolo, migliorandolo o completandolo con i vostri pensieri, le associazioni, le immagini che suscita in voi. C’è molto che deve essere ancora detto e si può provare a scriverlo insieme (e già vi chiedo: cosa dice la voce che parla nel video?).
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Apertura: pioggia scrosciante, temporale in lontananza, nessuna luce sul palco; si percepiscono ai lati due figure umane, immobili. A poco a poco una tela dipinta scivola al centro, come fosse un tendone a coprire lo stage. Sullo stile di Goya, ritrae un uomo nudo, seduto e circondato da galline, mentre tiene un gallo tra le gambe. La luce prima si concentra sul suo volto, dopodiché la tela cede il posto ad un primo piano del viso stesso, gigantesco; un uomo di spalle osserva questo volto, ha per faccia una maschera di vernice rossa; completamente muto, in perfetto ordine e con lo sguardo carico di un silenzio curioso.
Sul palco, un uomo dorme su una rete metallica, una corona posata sull’addome: si sveglia, la indossa, sempre in silenzio. Il volto e le mani sono dorati, inizia a muoversi come un serpente, scivolando sotto la branda, in maniera animalesca, con sguardo vacuo: nessun pensiero umano sembra sfiorarlo, nessuna consapevolezza di pensare. Cammina a quattro zampe, con il bacino sempre più in alto della testa. Mentre si avvolge attorno alla branda, una figura scura e minacciosa entra da destra, rasenta il limite del palco: un uomo di cui non si possono vedere i lineamenti, si muove come un animale feroce, come una pantera. La luce non lo sfiorerà mai per tutto lo spettacolo.
Lei arriva dopo, in un vestito rosso lucente, la testa come una bambola di porcellana, due occhi enormi: un bambino col corpo e movimenti da donna; lo accudirà solo un attimo, e dietro di lui, tenendo la corona, in un fondale sempre più luminoso, dal rosso sangue al giallo vivo e tanto altro. Ma dopo, quando lui dorme, arriva la belva nera e lei fugge, gattonando al contrario, fino a scomparire da un lato.
Quello che non potete vedere, ma dovete immaginarvi, è un enorme pendolo, al termine del palco, che oscilla. Ma il nostro uomo dalla maschera rossa, ed il suo amico in penombra lo vedranno bene, per quanto ognuno sia immerso nel suo fare. L’uomo a sinistra, la maschera bianca che non osa oltrepassare la folta barba, è apparso e scomparso più volte… ai suoi piedi, pezzi di legno che con foga e furia, martellando e conficcando chiodi sghembi nel legno tenero, riuscirà a trasformare in un rozzo e asimmetrico trono; qualche tempo dopo un bambino, incrociando questo rozzo compensato, inizierà a parlarci; ci giocherà a carte e no, non così, gioca per bene, non guardare le carte altrimenti… se la prenderà, spingendo e facendo cadere quello scranno vuoto, urlando.
Parecchio tempo dopo: un lavandino, prima a lato, seminascosto dietro un tendaggio, ora al centro del palco; ed il nostro re, sempre più animale, urlando e tentando di lavare una sudicia camicia, ficca un braccio nel tubo continuando ad estrarre metri e metri di capelli, untuosi appiccicaticci, fetidamente neri. E se qualche scena prima urlava sguaiatamente e selvaggiamente, godeva delle urla di sofferenza di lei (chi?), ora questa vista e questo continuo tirare lo fanno dar di stomaco, nello stesso lavandino.
In qualche momento prima, o dopo, tra le urla incessanti e la sparizione delle bestie, quella figura di pantera che prima camminava sul palco, ne è fuori, eretta si avvicina a noi, si era avvicinata all’uomo dalla maschera rossa, che tremante di paura era saltato sul tavolo dove prima passava il dito sul bordo del bicchiere, in un continuo e acutissimo suono. Percorrendo il palco verso di noi, sempre nell’oscurità fitta; alcuni hanno reclinato il corpo, o hanno abbassato lo sguardo, o si sono fatti letteralmente indietro. A quel punto si è fermato.
Ora, non ricordo come, tra le urla e gli sguardi penetranti delle pitture, le luci che puntavano sugli occhi aguzzi ed enormi, cosa sia successo al palco; la branda, il lavandino, tutto quanto spostato, come abbandonato e nel mezzo del caos, gettati di sbieco per la sala. Un velo leggero separa il palco dal nostro uomo con la maschera rossa, che si avvicina ad una scatola accanto al suo tavolo: immaginatevi lui che alza il lenzuolo che la copriva, ed una tv, vecchissima, in bianco e nero, in cui un uomo parla in un monotono e ripetitivo inglese ad una donna che sembra addormentata: gli occhi chiusi, come sotto ipnosi. Non ho capito cosa lui dicesse, né se fosse quello il sonno della ragione, né se quel re abbrutito e animalesco fosse l’alter ego di Macbeth, o fosse una proiezione freudiana. Ma ho sentito, solo per un attimo, un brivido di terribilità. E voi?
SONNO (teaser) from opera on Vimeo.