Il 4 dicembre del 1975 si spegneva, a New York, Hannah Arendt. La redazione de il lavoro culturale ricorda il suo pensiero e la sua opera rileggendo un brano tratto dal capitolo “Il lavoro” di Vita activa. La condizione umana, del 1958.
«In questo capitolo procederò a una critica dell’opera di Karl Marx» annuncia Arendt nel preambolo al capitolo dedicato al lavoro, che anticipa quelli dedicati all’opera e all’azione (attività che, insieme, costituiscono propriamente la “vita activa”). Ma precisa: «è questo un compito spiacevole, in un’epoca in cui tanti autori che una volta si guadagnavano da vivere attingendo esplicitamente o tacitamente alla grande ricchezza delle idee e delle intuizioni marxiane hanno deciso di diventare antimarxisti di professione, al punto che uno di loro arrivò a scoprire che Karl Marx era incapace di guadagnarsi la vita, dimenticando in tale occasione le generazioni di autori a cui Marx ha fatto da sostegno. In tale difficile circostanza posso richiamare un’affermazione di Benjamin Constant quando si sentì costretto ad attaccare Rousseau: “J’éviterai certes de me joindre aux détracteurs d’un grand homme. Quand le hazard fait qu’en apparence je me rencontre avec eux sur un seul point, je suis en défiance de moi-même; et pour me consoler de paraître un instant de leur avis… j’ai besoin de désavouer et de flétrir, autant qu’il est en moi, ces prétendus auxiliaires”. [Certamente, eviterò di unirmi ai detrattori di un grand’uomo. Quando il caso apparentemente vuole che io sia d’accordo con loro su un solo punto, comincio a diffidare di me stesso; e per consolarmi di essere anche per un istante del loro parere… ho bisogno di sconfessare e di biasimare, per quanto mi è possibile, questi falsi alleati.]»
Hannah Arendt, “Il lavoro”, Vita activa. La condizione umana, 1958
Si dice spesso che viviamo in una società di consumatori e poiché, come abbiamo visto, lavoro e consumo non sono che due fasi dello stesso processo, imposte all’uomo dalla necessità della vita, questo è solo un altro modo per dire che viviamo in una società di lavoratori. Essa non è scaturita dall’emancipazione delle classi lavoratrici, ma dalla stessa emancipazione dell’attività lavorativa, che precedette di secoli l’emancipazione politica dei lavoratori. Il punto non è che per la prima volta nella storia i lavoratori furono ammessi nella sfera pubblica e vi ottennero uguali diritti, ma che si sia quasi riusciti a livellare tutte le attività umane a quel comun denominatore che consiste nell’assicurare le cose necessarie alla vita e nel provvedere alla loro abbondanza. Qualsiasi cosa facciamo, si suppone fatta per “guadagnarci da vivere”; tale è il verdetto della società e il numero delle persone, specialmente nelle professioni, che potrebbe contestarlo, è diminuito rapidamente. La sola eccezione che la società desidera proteggere è l’artista, che, rigorosamente parlando, è il solo “creatore di opere” rimasto in una società di lavoratori. La stessa tendenza ad abbassare e livellare tutte le attività serie al livello del “guadagnarsi la vita” è presente nelle odierne teorie del lavoro, che quasi unanimemente definiscono il lavoro come l’opposto del gioco. Di conseguenza, tutte le attività serie, senza riguardo ai loro frutti, sono chiamate lavoro e ogni attività che non sia necessaria né per la vita dell’individuo né per il processo vitale della società è compresa nel gioco. In queste teorie, che echeggiano in termini teorici, rendono più drastiche, e portano all’estremo le valutazioni correnti in una società dominata dal lavoro, nemmeno l’«opera» dell’artista è preservata; essa è dissolta in gioco e ha perduto il suo significato per il mondo. Il carattere ludico dell’attività dell’artista è supposto assolvere la stessa funzione, nel processo vitale lavorativo della società, del gioco del tennis o di un hobby nella vita dell’individuo. L’emancipazione del lavoro non ha dato luogo all’eguaglianza di questa attività con le altre della “vita activa”, ma al suo quasi indiscusso predominio. Dal punto di vista del “lavorare per vivere”, ogni attività non connessa al lavoro diventa un hobby.
Per dissolvere la plausibilità di questa autointerpretazione dell’uomo moderno, val la pena di ricordare che tutte le civiltà prima della nostra sarebbero state piuttosto d’accordo con Platone che l’arte di guadagnare denaro (techne mistharnetike) non ha alcun rapporto con l’effettivo contenuto anche di quelle arti che, come la medicina, la navigazione, o l’architettura, comportavano ricompense monetarie. Fu per spiegare queste ricompense, evidentemente di natura completamente diversa dalla salute, l’oggetto della medicina, o dalla costruzione di edifici, l’oggetto dell’architettura, che Platone introdusse un’altra arte che le doveva affiancare. Questa nuova arte non è in nessun modo intesa come l’elemento del lavoro in arti altrimenti libere, ma, al contrario, come quell’arte per cui l’artista, il professionista, come diremmo noi, si mantiene libero dalla necessità di lavorare. Quest’arte appartiene alla stessa categoria di quella necessaria a un capofamiglia che deve saper esercitare l’autorità e usare la violenza nel suo governo sugli schiavi. Il suo scopo è di rimanere libero dalla necessità di “guadagnare da vivere”, e gli scopi delle altre arti sono ancor più lontani da questa necessità elementare.
L’emancipazione del lavoro e la concomitante emancipazione delle classi lavoratrici dall’oppressione e dallo sfruttamento certamente significò un progresso nella direzione della non-violenza. È molto meno certo che si trattasse di un progresso anche verso la libertà. Nessuna violenza esercitata dall’uomo, eccetto la violenza usata nella tortura, può eguagliare la forza naturale con cui la necessità stessa ci costringe. È per questa ragione che i greci derivarono la loro parola significante tortura dalla “necessità”, chiamandola anankai, e non da bia, usata per la violenza esercitata dall’uomo sull’uomo, proprio come questa è la ragione del fatto storico che attraverso tutta l’antichità dell’Occidente la tortura, la «necessità alla quale nessun uomo può resistere», poteva essere applicata solo agli schiavi, che erano comunque soggetti alla necessità. Furono le arti della violenza, della guerra, della pirateria e infine del dominio assoluto che assoggettarono gli sconfitti al servizio dei vincitori e quindi mantennero la costrizione alla necessità per il più lungo periodo della storia che sia stato documentato. L’età moderna, molto più drasticamente del cristianesimo, ha prodotto, insieme con la glorificazione del lavoro, una enorme degradazione nella stima di queste arti e una meno grande ma non meno importante diminuzione dell’uso generale degli strumenti di violenza nelle faccende umane. L’elevazione del lavoro e la necessità inerente all’attività del metabolismo uomo-natura risultano intimamente connesse con la degradazione di tutte le attività che scaturiscono direttamente dalla violenza, come l’uso della forza nelle relazioni umane, o che comportano un elemento di violenza, come nel caso, e lo vedremo in seguito, di ogni attività connessa all’operare. È come se la crescente eliminazione della violenza nell’età moderna quasi automaticamente aprisse le porte al ritorno della necessità al suo livello più elementare. Ciò che già si verificò una volta nella nostra storia, nei secoli della decadenza dell’Impero Romano, potrebbe esser sul punto di accadere ancora. Anche allora il lavoro divenne un’occupazione delle classi libere, «solo per imporre a loro i vincoli delle classi servili».
Il pericolo che la moderna emancipazione del lavoro non solo fallisca nell’iniziare un’epoca di libertà per tutti, ma al contrario spinga per la prima volta tutto il genere umano sotto il giogo della necessità, fu già chiaramente intuito da Marx, quando egli insisteva sul fatto che lo scopo di una rivoluzione poteva non essere la già compiuta emancipazione delle classi lavoratrici, ma doveva consistere nell’emancipazione dell’uomo dal lavoro. A prima vista, questo scopo sembra utopistico, il solo elemento strettamente utopistico nel pensiero di Marx. L’emancipazione dal lavoro, secondo le stesse parole di Marx, è emancipazione dalla necessità, che significherebbe, in definitiva, emancipazione dal consumo, dal metabolismo con la natura che è la condizione effettiva della vita umana. Tuttavia gli sviluppi dell’ultimo decennio e specialmente le possibilità aperte dall’ulteriore incremento dell’automazione, consentono di domandarsi se l’utopia di ieri non diventerà la realtà di domani, così che, alla fine, solo lo sforzo del consumo sarà l’ultimo elemento rimasto di quella fatica e di quella pena connaturate al ciclo biologico al cui motore è legata la vita umana.
Tuttavia, nemmeno questa utopia potrebbe mutare l’essenziale futilità mondana del processo vitale. Le due fasi per cui deve passare il ciclo sempre ricorrente della vita biologica, le fasi del lavoro e del consumo, possono mutare le loro proporzioni anche al punto che quasi tutta la “forza-lavoro” umana sia spesa nel consumo, con il concomitante grave problema sociale del tempo libero: cioè, in sostanza, come provvedere sufficienti opportunità di spreco quotidiano per mantenere intatta la capacità di consumo. Il consumo senza pena e senza sforzo non muterebbe, ma solo aumenterebbe, il carattere divorante della vita biologica, finché una umanità interamente liberata delle catene della pena e dello sforzo non fosse libera di “consumare” il mondo intero e di riprodurre giornalmente tutte le cose che desidera consumare.
Il numero delle cose che comparirebbero e scomparirebbero ogni giorno e ogni ora nel processo vitale di una società del genere sarebbe nella migliore delle ipotesi irrilevante per il mondo, se il mondo e il suo carattere oggettivo potessero resistere al dinamismo incessante di un processo vitale interamente motorizzato.
Il pericolo della futura automazione non è tanto la deplorata meccanizzazione e artificializzazione della vita naturale, quanto il fatto che, nonostante la sua artificialità, ogni produttività umana sarebbe risucchiata in un processo vitale enormemente intensificato, e seguirebbe automaticamente, senza pena o sforzo, il suo sempre ricorrente ciclo naturale. Il ritmo delle macchine intensificherebbe a dismisura il ritmo naturale della vita, ma non modificherebbe, rendendola solo più micidiale, la funzione principale della vita rispetto al mondo, che consiste nel consumare ciò che è durevole.
La strada che porta dalla graduale diminuzione delle ore lavorative, progredita costantemente per quasi un secolo, a questa utopia, è molto lunga. Inoltre, il progresso è stato piuttosto sopravvalutato perché fu misurato in rapporto alle condizioni eccezionalmente inumane di sfruttamento prevalenti nelle prime fasi del capitalismo. Se pensiamo a periodi un po’ più lunghi, l’ammontare totale annuo di tempo libero goduto attualmente non appare tanto un risultato della modernità quanto una tardiva approssimazione alla normalità.
Sotto questo e altri aspetti, lo spettro di una società di mero consumo è più allarmante in quanto ideale della società attuale che come una realtà da sempre esistente. L’ideale non è nuovo; era chiaramente indicato nell’assunto incontestato dell’economia politica classica che lo scopo finale della vita activa è lo sviluppo della ricchezza, l’abbondanza e la «felicità del maggior numero». E che cos’altro è, infine, questo ideale della società moderna se non l’antico sogno del povero e dell’indigente, che può avere un fascino finché rimane un sogno, ma diventa il paradiso di un pazzo non appena è realizzato?
La speranza che ispirava Marx e gli uomini migliori dei vari movimenti operai – che il tempo libero potesse emancipare definitivamente gli uomini dalla necessità e rendere produttivo l’animal laborans – si basava sull’illusione di una filosofia meccanicistica secondo cui la forza-lavoro, come ogni altra energia, non deve andare mai perduta, così che, se non è spesa ed esaurita nel lavoro faticoso per vivere, potrà dar vita automaticamente ad altre, “superiori” attività. Questa speranza di Marx aveva indubbiamente come modello l’Atene di Pericle che, nel futuro, con l’ausilio della produttività enormemente aumentata del lavoro umano, non avrebbe più avuto bisogno di schiavi per esistere, ma sarebbe divenuta una realtà per tutti. Un centinaio d’anni dopo Marx comprendiamo l’errore di questo ragionamento; il tempo libero dell’animal laborans non è mai speso altrimenti che nel consumo, e più tempo gli rimane, più rapaci e insaziabili sono i suoi appetiti. Che questi appetiti divengano più raffinati – così che il consumo non è più limitato alle cose necessarie, ma si estende soprattutto a quelle superflue – non muta il carattere di questa società, ma nasconde il grave pericolo che nessun oggetto del mondo sia protetto dal consumo e dall’annullamento attraverso il consumo.
La verità piuttosto sconsolante è che il trionfo ottenuto dal mondo moderno sulla necessità è dovuto all’emancipazione del lavoro, cioè al fatto che l’animal laborans è stato messo nella condizione di occupare la sfera pubblica; e tuttavia, per tutto il tempo che l’animal laborans ne rimane in possesso, non può esistere una vera sfera pubblica, ma solo attività private esibite apertamente. Il risultato è quella che è eufemisticamente chiamata cultura di massa, e il disagio radicato e profondo che la caratterizza è una insoddisfazione universale, dovuta da un lato all’equilibrio turbato di lavoro e consumo e, dall’altro, alla persistente richiesta dell’animal laborans di ottenere una soddisfazione che può essere raggiunta solo quando i processi vitali dell’esaurimento e della rigenerazione, della pena e del sollievo dalla pena, si incontrano in un perfetto equilibrio. La richiesta universale di felicità e l’infelicità largamente diffusa nella nostra società (le due facce della stessa medaglia) sono i segni più convincenti che viviamo in una società dominata dal lavoro, ma che non ha abbastanza lavoro per esserne appagata. Infatti solo l’animal laborans, e non l’artigiano né l’uomo d’azione, ha sempre chiesto di essere felice o pensato che gli uomini mortali possano essere felici.
Uno dei più evidenti segni di pericolo, che mostra come siamo in procinto di tradurre in realtà l’ideale dell’animal laborans, è la misura in cui la nostra intera economia è divenuta un’economia di spreco, in cui le cose devono essere divorate ed eliminate con la stessa rapidità con cui sono state prodotte, ammesso che il processo stesso non giunga a una fine improvvisa e catastrofica. Ma se l’ideale fosse già una realtà, e noi non fossimo che membri di una società di consumo, non vivremmo più nemmeno in un mondo, ma saremmo semplicemente guidati da un processo in cui le cose appaiono e scompaiono in cicli sempre ricorrenti, appaiono e svaniscono senza mai durare abbastanza per fornire uno sfondo al processo vitale.
Il mondo, la casa dell’uomo, costruita sulla terra e fatta dei materiali che la natura affida alle mani dell’uomo, non consiste di oggetti da consumare ma di oggetti da usare. Se la natura e in generale la terra costituiscono la condizione della “vita” umana, allora il mondo e le cose del mondo costituiscono la condizione in cui questa vita specificamente umana può avere la propria dimora sulla terra. La natura vista con gli occhi dell’animal laborans è la grande fornitrice di tutte le “buone cose”, che appartengono egualmente a tutti i suoi figli, che “[le] prendono dalle [sue] mani” e “si mescolano con” essa nel lavoro e nel consumo. La stessa natura, vista con gli occhi dell’homo faber, il costruttore del mondo, fornisce solo i materiali quasi senza valore in se stessi, in quanto l’intero loro valore sta nell’opera che li trasforma. Senza strappare le cose dalle mani della natura e senza consumarle, senza difendersi dai processi naturali della crescita e del deperimento, l’animal laborans non potrebbe mai sopravvivere. Ma senza trovare la propria dimora tra oggetti resi dalla loro durata adatti all’uso e alla costruzione di un mondo, la cui permanenza si pone in diretto contrasto con la vita, questa vita non potrebbe mai essere umana.
Più sarà diventata facile la vita in una società di consumatori o di lavoratori, più sarà difficile rimanere consapevoli della necessità da cui è guidata, anche quando la pena e lo sforzo, manifestazioni esteriori della necessità, sono riconosciuti a stento. Il pericolo è che una società del genere, abbagliata dall’abbondanza della sua crescente fecondità e assorbita nel pieno funzionamento di un processo interminabile, non riesca più a riconoscere la propria futilità – la futilità di una vita che non si fissa o si realizza in qualche oggetto permanente che duri anche dopo che la fatica necessaria a produrlo sia passata.