I suppliziati del linguaggio

Mario Galzigna recensisce la raccolta di saggi “Cronache da un pianeta infernale” dedicata a Louis Wolfson e da poco pubblicata da Manifesto Libri.

Susan Sontag, in un saggio memorabile su Antonin Artaud (1896-1948) – laddove afferma che si può essere bruciati, catturati da Artaud ma che non lo si può usare e strumentalizzare – estende questo punto di vista ad alcuni scrittori da lei definiti, con termine efficace e icastico, “coscienze in extremis” (Un approccio ad Artaud, in Sotto il segno di Saturno, Einaudi 1982). Si avverte, qui, l’influsso diretto di un motivo presente in non pochi testi dello stesso Artaud. Un esempio, tra i tanti possibili: il passaggio di una lettera molto ispirata scritta a Henri Parisot tre anni prima della morte, il 17 settembre 1945 (cfr. Oeuvres complètes, Gallimard, IX, p.168), dove leggiamo: «Non amo i poemi e i linguaggi di superficie… Amo i poemi degli affamati, dei malati, dei paria, degli avvelenati: François Villon, Charles Baudelaire, Edgar Poe, Gérard de Nerval, e i poemi dei suppliziati del linguaggio… Amo i poemi che trasudano la mancanza e non i pasti ben preparati».

Un linguaggio torturato e “suppliziato”, quello di Artaud, che ci ricorda da vicino l’estrema sfida mentale e linguistica dello scrittore schizofrenico Louis Wolfson (LW), nato a New York nel 1931: un altro “schizo” creativo del panorama letterario contemporaneo, un’altra coscienza in extremis, un altro grande suppliziato del linguaggio. L’occasione per parlare di LW è l’uscita di un libro collettivo a lui dedicato – Louis Wolfson. Cronache da un pianeta infernale (che citerò come Cronache) – curato per Manifesto Libri da Pietro Barbetta ed Enrico Valtellina, animatori, a partire dall’Università di Bergamo, di un importante gruppo psico-filosofico (i seminari BDF, Bateson, Deleuze, Foucault, presenti in rete).

Gli interventi proposti sono tutti di grande qualità: firmati, oltre che dai curatori, da Silvère Lotringer, Tobie Nathan, Giacomo Conserva, Pierre Lepori, il Nobel Jean-Marie Gustave Le Clézio, Marco Dotti, Lucia Amara, Alain Rey, Alfredo Riponi, Pierre Alferi. Questi interventi – ognuno di essi meriterebbe un discorso a parte – rappresentano, in vari modi, l’esito di un serrato corpo a corpo con la figura e con gli scritti di LW; soprattutto con i suoi due libri: Le Schizo et les langues (SL, che esce, nel 1970, nella collana Connaissance de l’inconscient diretta dal freudiano Pontalis, presso Gallimard, con prefazione di Gilles Deleuze), e Ma mère, musicienne, est morte de maladie maligne à minuit, mardi à mercredi, au milieu du mois de mai mille977 au mouroir Memorial à Manhattan  (edito nel 1984, in una collana lacaniana presso Navarin e ripubblicato nel 2012, in versione ampliata, presso Attila). Quest’ultimo testo, impeccabilmente tradotto da Fabio Montrasi, viene ora proposto al lettore italiano da Einaudi/Stile Libero (2013, pagg. 287) con il suo lungo titolo originale, tutto giocato sulla singolarità e sulla centralità di un evento drammatico: Mia madre, musicista, è morta di malattia maligna a mezzanotte, tra martedì e mercoledì, nella metà di maggio mille977, nel mortifero Memorial di Manhattan.

Qualche annotazione, ora, connessa alla lettura di questo splendido e caleidoscopico libro collettivo: di queste Cronache, che compongono, in maniera variegata e multicolore, una vera e propria cartografia dei limiti e delle fratture che scandiscono la relazione tra il soggetto e i suoi linguaggi.

Spezzare il linguaggio per toccare la vita, scrive Antonin Artaud: «écraser le langage pour toucher la vie». Si tratta di un percorso che porta l’écrivain insurgé, lo scrittore insorto, a problematizzare l’autoevidenza del legame tra significante e significato. Lucia Amara, nel suo contributo Parlare in lingue. Wolfson/Artaud – uno dei saggi più significativi di Cronache – sviluppa una profonda analisi critica del rapporto tra il procedimento utilizzato da Artaud nella sua produzione di glossolalie e il procedimento di conversione adottato da LW.

LW, in effetti, che si autodefinisce «lo studente schizofrenico», «lo psicotico», «il malato mentale», inventa un procedimento, insieme linguistico e mentale: un procédé – così lo definisce Deleuze nella sua densa prefazione a SL –, consapevolmente mirato a «distruggere la lingua materna» (la lingua della madre, l’inglese, distinta, come è stato precisato, dalla lingua madre, l’ebraico). Si tratta di un lavorìo di «traduzione, che implica una decomposizione fonetica della parola»: esso produce, a partire dal «desiderio di uccidere la lingua materna», «una distruzione deliberata, un annichilimento concertato, un disossamento», un «omicidio rituale e propiziatorio della lingua materna». E questo perché tutto parte da qui: dal fatto che LW «non sopporta, non può sopportare di sentir parlare sua madre». Così Deleuze, che riprende e amplifica tale desiderio citando la spiegazione fornita dallo studente schizofrenico: «un desiderio forse vago, se non subconscio e rimosso, di non dover sentire la lingua naturale come un’entità così come la sentono gli altri, ma di poterla invece sentire molto diversamente, come qualcosa di più, come esotica, come una mescolanza, come un pot-pourri di diversi idiomi». Ed è questo il cuore del procedimento di LW: trovare, per l’appunto, per ogni parola inglese, un termine equivalente che le corrisponda in lingua diversa e che sia in grado di sostituirla sia nel suono che nel senso, sia come fonema che come morfema. “Assordato” dai vocaboli inglesi proferiti dalla madre e dalle sue insistenti e ossessionanti domande (ad esempio: «C’è stata una chiamata telefonica?»), lo psicotico deve “convertire” quegli stessi vocaboli, “neutralizzarli, trasmutarli, distruggerli”. Il problema, perciò, è quello di imparare le lingue per poter realizzare questa conversione delle parole inglesi in parole straniere, senza passare attraverso l’inglese e servendosi di dizionari interlingua. Occorre insomma usare il procedimento per evitare la lingua inglese, per combattere la parola materna, per decostruirla. È il «dramma del transito linguistico», di cui parla il Nobel Le Clézio, che si consuma attraverso uno scontro, un combattimento con la lingua inglese. E la lingua inglese da combattere – come afferma Pietro Barbetta, nel suo originale contributo – giocato, tra l’altro, sul parallelo Joyce/Wolfson – è «quella specie di maccheronica lingua franca […] parlata a livello internazionale, composta di un migliaio di termini, quella degli scienziati e dei signori di internet. Non quella di Shakespeare e di Melville» (Cronache, p. 37).

Le parole materne rappresentano il grido della Vita: il grido di quella méchante matière malade, di quella maligna materia malata – così la definisce lo studente schizofrenico –, da cui è possibile difendersi e proteggersi attraverso gli spostamenti e i giochi della linguistica. Le risorse del procedimento, che affondano le loro radici nel Sapere del linguaggio (la linguistica, la filologia), instaurano una tragica dicotomia. Un tragico dualismo tra Sapere e Vita, accentuato dalla natura stessa delle parole materne: oggetti parziali – scrive Deleuze –«ribelli a ogni trasformazione», non integrabili in nessun tutto, «ribelli alla simbolizzazione»: dominati, per l’appunto, dalla «logica dell’oggetto parziale» e del corpo frammentato, alla quale lo studente schizofrenico contrappone un corpo completo, chiuso, autosufficiente (anche grazie all’uso del walkman, sempre attivo, di cui LW viene considerato l’inventore).

Si situa proprio all’interno di questa tensione tragica tra il Sapere e la Vita il titanico lavorìo dello studente schizofrenico: il suo primo libro, SL, è strutturato, secondo Barbetta, come una sorta di Bildungsroman – un singolare romanzo di formazione – dominato, soprattutto nel capitolo sulla prostituta (SL, pp. 71-114), sia dall’uso della terza persona, frequente, come è noto, tra gli schizofrenici, sia dal sistematico ricorso al condizionale: un modo verbale che LW utilizza al presente e al passato. Questi due caratteri imprimono alla narrazione una torsione singolare ed estraniante, che rendono sfuggente e inafferrabile da un lato lo spessore e la concatenazione dei singoli eventi, dall’altro lato il profilo dei soggetti coinvolti e designati: in questo caso, LW e la prostituta. La terza persona veicola distanziamento e sdoppiamento. Il condizionale crea un’atmosfera di incertezza e di sospensione.

Attraverso le parole straniere e i giochi linguistici, occorre soffocare la voce della madre: le sue parole inglesi, ma anche l’esecrabile e disgustoso nutrimento che essa infligge maniacalmente al figlio. Il “grido della vita” e l’erompere della sofferenza rappresentano una sorta di matrice nascosta del procedimento; esso affonda le sue radici in una matrice emotiva: un fattore emotivo, un facteur émotif, «che spingerebbe delle persone a studiare la linguistica generale ed in particolare la grammatica comparativa». La presenza strategica di questo fattore emotivo viene efficacemente messa in scena da Alfredo Riponi in un contributo impegnativo, che ha il merito di restituirci, tradotti, molti passaggi significativi di SL.

Un’attenta disamina, una sorta di cartografia del fattore emotivo nell’opera di LW, potrebbe essere una delle chiavi di lettura e di comprensione dello studente schizofrenico, tutta da pensare e da sviluppare: sarebbe così possibile, forse, rendere riconoscibile un profilo della vita emozionale e affettiva di Wolfson e l’insorgere, entro il suo tormentato percorso, di qualcosa come la speranza, l’espérance. La speranza di un riscatto. La speranza di una riconciliazione. «Vi è anche della speranza» – così si conclude il manoscritto originale di SL – che «il giovane uomo malato mentalmente sarà un giorno capace, di nuovo, di usare normalmente questa lingua, il famoso idioma inglese» (SL, p.247).

E poco più avanti, a conclusione del capitolo finale aggiunto che precede l’Appendice, leggiamo: «Troverebbe così la sua libertà perduta? Chi lo sa?…» (SL, p. 256).

La speranza come prospettiva di una riconquista della libertà perduta. Come possibilità di liberarsi dalle catene della coazione e dall’inferno della ripetizione…

 

 

 

 

 

 

 

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