Tra la vita della piazza e quella delle urne: riflessioni sulle evoluzioni del movimento in Italia oggi, dopo il social strike.
«Avrei voluto una rivoluzione,
per il momento faccio movimento per il movimento»
(Assalti Frontali, In movimento)
Il social strike del quattordici novembre scorso non è stato l’inizio di una rivoluzione ma sicuramente si è trattato di un momento fondamentale per la storia del movimento italiano: è stata la concretizzazione di un processo di crescita delle lotte sia quantitativa – in termini di partecipazione – che strettamente politica e contenutistica, che andava avanti in maniera sotterranea e silente già da qualche anno, tra alti e bassi, entusiasmi ed autocritiche.
Il valore positivo dello sciopero sociale si può leggere anche nelle reazioni fioche e superficiali dei media mainstream: se da un lato è vero, come nota Alex Foti su Internazionale, che la piazza della CGIL a Milano ha vampirizzato tutta l’attenzione e si è preferito criticare anche le virgole del discorso di Landini piuttosto che parlare del social strike, va anche detto che quantomeno, stavolta, probabilmente anche per la difficoltà di rappresentazione dovuta alla moltiplicazione delle piazze su tutto il territorio, il frame discorsivo dei “manifestanti violenti”, almeno in relazione alla giornata del quattordici, ha avuto poca presa.
Sulla questione dei “manifestanti violenti” e della percezione collettiva a riguardo, tuttavia, è il caso di soffermarsi e di guardare oltre la narrazione della sola giornata del #14N: da un paio di mesi, infatti, è in atto un’operazione politica e mediatica volta a fare dei movimenti antagonisti il nuovo arcinemico da combattere a tutti i costi per mantenere la stabilità dello Stato. Si va dalle dichiarazioni di Napolitano che sostanzialmente ha comparato in maniera gratuita, arbitraria e superficiale antagonismo sociale e terrorismo islamico targato Isis, alle dichiarazioni di Paolo Macry (docente di Storia Contemporanea della Federico II di Napoli, ndr) che definisce “reazionari” gli antagonisti perchè, a suo dire, nella loro opposizione allo Sblocca Italia e alle speculazioni sui territori impedirebbero il progresso sociale ed economico , ai numerosi reportage video o cartacei sulle case occupate in cui, piuttosto che raccontare i bisogni reali e la povertà estrema che spinge ad atti tanto estremi, si distorce la realtà dipingendo scenari apocalittici di occupanti eretici all’assalto del sacro vincolo piccoloborghese della proprietà privata.
È piuttosto scontato leggere queste esternazioni come un inasprimento della repressione in un clima che non può non condurre a paragoni con gli anni di piombo. D’altro canto, però, va sottolineato che se il potere, sia direttamente che tramite i media mainstream, sta avviando un’operazione repressiva così ampia, è perchè i movimenti sono in uno stadio di maturazione, di crescita, e possono diventare politicamente incisivi, destabilizzare e quindi, in un certo senso, spaventare la controparte, soprattutto in mancanza di una forza d’opposizione realmente incisiva, e per “opposizione” qui si intende opposizione reale all’establishment economico/finanziario responsabile di speculazioni territoriali e precarietà, non la farsa di Matteo contro Matteo che sembra una riproposizione in chiave italotrash di Kramer contro Kramer o una copia in chiave italica triste, squallida e mal riuscita di Piccoli Animali Senza Espressione di David Foster Wallace, se si considera che entrambi sono personaggi televisivi nati mediaticamente nei quiz show di casa Mediaset.
In questi termini è importante analizzare in un’ottica di movimento anche il dato del fortissimo astensionismo alle elezioni regionali in Emilia Romagna e Calabria: entusiasmarsi in maniera acritica e superficiale riconducendo l’astensionismo alla misura dell’opposizione popolare alle politiche del governo Renzi sarebbe quantomai ingenuo. Piuttosto, bisognerebbe capire, anche nell’ambito dei laboratori per lo sciopero sociale – che continuano anche dopo il 14, fuoriuscendo finalmente dalla logica dell’evento – come fare in modo che l’astensione popolare diventi astensione di classe, anche perchè se questo non succede, a lungo andare c’è il rischio fortissimo che l’astensionismo diventi astensionismo di destra ed è significativo (e spaventoso) da questo punto di vista, notare come mentre la narrazione mediatica rispetto a chi occupa le case e gli spazi è quella descritta sopra, la narrazione delle periferie razziste, invece, viene declinata e, di fatto, giustificata, nei termini dell’esasperazione dovuta alla crisi sociale.
In questo scenario sociopolitico quantomai confuso, è fondamentale dunque he il social strike non sia un fuoco di paglia episodico, è importante far sedimentare e crescere il tumulto e l’entusiasmo e continuare a confrontarsi, controinformare e riappropriarsi di spazi di azione sia materialmente che dal punto di vista discorsivo. E’ importante capire come coniugare lo sciopero sociale allo sciopero vero e proprio, come far crescere i blocchi della produzione materiale ed immateriale rendendoli più incisivi anche dal punto di vista materiale e non solo dal punto di vista immaginifico/narrativo. Tuttavia quest’autunno caldo che ormai dura da un po’ non è ancora finito.