La Diaz, Franco Fedeli e la polizia democratica. Storia di un fallimento (5). Pubblichiamo l’ultima parte di una riflessione sulle dinamiche storiche delle forze dell’ordine a partire dal caso Diaz, e in relazione alla Sentenza di ieri. Qui la prima, la seconda, la terza e la quarta parte
Condannati. Tutti.
La Cassazione si è espressa ieri verso le diciannove dopo molte ore di camera di consiglio. Da oggi alcuni dei più importanti poliziotti italiani dovranno fare le valigie e lasciare i propri uffici per 5 anni. Infatti anche se molti reati sono prescritti perché i processi sulla Diaz sono durati undici anni, le pene accessorie dicono: interdizione dai pubblici uffici. Dunque per la prima volta in Italia vengono condannati definitivamente dirigenti di altissimo livello responsabili dell’operazione fra le più feroci che un corpo armato in tempo di pace abbia effettuato e per aver tentato di coprire le responsabilità attraverso la costruzione di prove false.
Rimane un rammarico, che pesa moltissimo sulle spalle di questi dirigenti visto che non hanno voluto identificare e denunciare gli esecutori materiali delle violenze alla Diaz: quel numero imprecisato di agenti tra i circa 400 entrati nell’edificio e hanno picchiato selvaggiamente e che oggi svolgono tranquillamente il loro lavoro per le vie dell’Italia perché i loro capi e colleghi hanno preferito la strategia omertosa.
E’ molto importante riuscire a tenere la guardia alta su come la polizia reagirà a queste condanne così come alle recenti condanne definitive dei quattro poliziotti che causarono in eccesso colposo dell’uso della forza, la morte di Federico Aldrovandi. Potrebbe essere l’anno zero della polizia italiana. Ma l’analisi deve rivolgersi non solo ai risultati giudiziari, ma ai modi storici in cui questi fatti si costituiscono e sono possibili.
“Di fronte agli attacchi la polizia si difende come può” – ovvero episteme e senso comune
Quando Riccardo Ambrosini [1] denunciò le torture ai brigatisti, persino alcuni suoi colleghi del sindacato lo allontanarono e lo isolarono con accuse velate di tradimento del corpo. “Certe cose non si raccontano” sembravano dire “i brigatisti hanno ammazzato un sacco di poliziotti e di innocenti, dunque ci si deve difendere da questi criminali come si può”. È questo a mio parere il punto centrale su cui lavorare: è vero che possono esserci anche motivazioni strettamente contingenti e politiche (l’ascesa di Berlusconi nel 2001) nei cambi di strategia dell’ordine pubblico, ma ritengo che le motivazioni profonde vadano cercate nelle reti di relazioni storiche che si sono create all’interno delle forze dell’ordine armate, difesa dello stato e delle sue istituzioni politiche, economiche e culturali dominanti. Si crea così una saldatura fra una lotta alla mafia, (o, ai tempi di Ambrosini al terrorismo) di stampo militare da un lato e dall’altro il perdurare di strutture economiche, modalità di assegnazione degli appalti e isolamento della cittadinanza dalla partecipazione politica diretta. Risultato di questa saldatura è la longevità mafiosa (l’hanno scorso ricorrevano i 180 anni da quando è stata pronunciata la parola mafia in un documento ufficiale) insieme a pur importantissimi risultati di tipo militare come l’arresto di grandi boss.
Come queste osservazioni conducono al caso Diaz? Ho già ricordato che molti dirigenti implicati a vario titolo nella vicenda genovese (De Gennaro, La Barbera, Caldarozzi, Gratteri) sono fra i più importanti, sicuramente i più noti, poliziotti antimafia; il loro lavoro ha assicurato alla giustizia criminali dei più pericolosi. Mi chiedo però quale sia la loro idea di ordine pubblico e mi viene in mente la parola e la categoria dell’eversione. Come tutto si mescoli per non distinguere più nulla. L’eversione mafiosa
L’eversione brigatista
L’eversione stragista
L’eversione anarco insurrezionalista
Devastazione e saccheggio
Dormire in una scuola
Pestare ragazzi che dormono in una scuola e a cui non piace molto il capitalismo
Forse in polizia, in una certa polizia, si è convinti che si possano pestare ragazzi che dormono in una scuola e non essere condannati neanche all’interdizione dai pubblici uffici perché nel frattempo si è arrestato Provenzano. Ma cosa importa di qualche testa spaccata, di una ragazza in sedia a rotelle, di un giornalista finito in coma per giorni di un arresto illegale di massa di fronte ai più alti meriti antimafia?
La Cassazione ieri non ha ragionato in questi termini, ma si deve a mio parere indagare questo livello di discorso se si vogliono comprendere alcune strutture della giustificazione e dell’autorappresentazione di un modello in cui realmente e sinceramente credono alcuni poliziotti, alcuni cittadini amanti dell’ordine e che vogliono essere difesi tanto dalla mafia quanto dai no global senza soluzioni di continuità, senza differenze, senza alcuna analisi critica. “Bisogna difendere la società” diceva il titolo del corso di Michel Foucault al College de France dell’anno accademico 1975-76.
Si deve indagare questo livello di discorso anche sapendo che a causa di questa condanna alcune altissime professionalità antimafia verranno effettivamente perdute per 5 anni. Non tutte, perché queste professionalità si trovano in tanti ispettori di polizia, in tanti agenti che si muovono nell’ombra e non fanno Gratteri o Caldarozzi di cognome, e che in maniera altrettanto importante contribuiscono fortemente alle indagini contro Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra.
Qualcosa si muove
Nel primo post su questi temi concludevo la premessa sostenendo che nonostante tutto nella polizia ancora qualcosa, anche se debolmente, si muove. Alcuni giorni fa, il 21 giugno, l’associazione Vittime dell’illegalità ha organizzato al centro sociale Croce Coperta a Bologna un incontro dal titolo “Diaz (il film) che fine ha fatto la democrazia nella polizia?”. Questa è un’associazione di poliziotti nata da uno dei momenti più significativi della storia del corpo, quando i fatti della Uno bianca, rivelarono nel centro dell’Emilia la presenza di un gruppo di agenti che commettevano furti e rapine e che in sette anni si erano resi responsabili di 24 omicidi e 102 ferimenti; tra le persone uccise non ci furono solo i carabinieri, le guardie giurate, i commessi dei negozi che tentavano di opporsi alle azioni criminali: il 18 agosto 1991 i poliziotti della Uno bianca, uccidono Ndiaj Malik e Babou Chejkh, due operai senegalesi, un terzo, Madiaw Diaw, viene ferito. I processi successivi dimostrarono le motivazioni razziste di questo e di altri tentativi delittuosi della banda. Mi sembra importante riportare le parole esatte di Fabio Savi, uno dei componenti della banda interrogato sul perché, visto che non c’era scopo di lucro, avevano deciso di uccidere i due migranti
«Il razzismo non c’entra nulla…..i senegalesi avevano dei comportamenti che non si potevano tollerare…ubriachi fradici in mezzo alla gente, in mezzo alle vie dove passavano mamme con bambini…a parte il fatto che erano degli sfruttatori… dei papponi erano…e…li abbiamo seguiti per un po’ e poi dopo, gli abbiam sparato…tutta lì la storia, non c’e altro motivo».
[2].
Torna in queste parole l’idea di giustizia sommaria, e a mio parere trova il suo luogo di possibilità un più profondo senso comune che alimenta e costituisce il modello razzista e che lo precede ad un livello, si potrebbe dire epistemico – prendendo a prestito una categoria di Michel Foucault [3] – o più semplicemente storico-culturale.
E’ singolare a questo proposito la negazione della motivazione razzista (“non c’entra nulla”, dice Savi) seguita subito da una delle più precise definizioni del razzismo come intolleranza nei confronti di un modello culturale e comportamentale non conforme e che arriva a giustificare l’omicidio. C’è in queste parole di Savi una matrice storica fondamentale a mio parere per respirare una parte dell’ossigeno culturale presente tre le forze che hanno ottenuto il monopolio della violenza, ma che costituisce anche un legame con l’intera società italiana. Mai riavutasi completamente dal fascismo culturale, dal militarismo che lo ha preceduto ed alimentato, la nostra Repubblica aveva nel 1960 su quasi quattrocento prefetti e vice-prefetti solo due che non erano stati fascisti.
Anche per ragionare sulle eredità storiche del corpo si formarono gruppi di poliziotti, a Bologna ed in tutta l’Emilia, che diedero poi vita all’associazione Vittime dell’illegalità.
I dibattiti e i lavori d’indagine sui delitti della banda della Uno bianca rappresentano un momento molto importante per la storia della polizia, anche se alcune delle sue conseguenze sembrarono confermare un’idea di polizia ancora legata ad una tradizione antica efficientista e senza slanci per un cambio di direzione culturale [4]. L’AssociazioneVittime dell’illegalità fu uno dei risultati positivi di quel momento di riflessione. Tornando a Bologna e al 21 giugno scorso i poliziotti che si sono riuniti per parlare del film insieme a tutti coloro che sono accorsi all’incontro hanno chiaramente disobbedito all’ordine del Ministero degli Interni partito subito dopo l’uscita del film nelle secondo cui
«In concomitanza con la proiezione di numerose pellicole cinematografiche che affrontano la ricostruzione storica di eventi relativi ad attività di polizia in situazioni ordinarie e straordinarie, si ribadisce che qualsiasi intervista, partecipazione a convegni o dibattiti, va autorizzata da questo Dipartimento»
Insieme all’ “invito” al silenzio da parte ministeriale si nota però anche una certa timidezza da parte delle stesse dirigenze sindacali di polizia; in occasione dell’incontro bolognese ad esempio il SIULP- tra i più rappresentativi sindacati di polizia – ha diramato una nota:
«L’iniziativa dell’ “Associazione vittime dell’illegalità” di commentare con alcuni poliziotti il film “Diaz” insieme al regista Daniele Vicari non è riconducibile in alcun modo al Siulp che, anzi, ne sottolinea l’assoluta inopportunità»
Questa sottolineatura è dovuta al fatto che alcuni componenti dell’ associazione bolognese fanno parte anche del SIULP, ma con tutta evidenza non approvano tutte le linee d’azione dei dirigenti. Sebbene il SIULP giustifichi questa nota di censura sostenendo che c’è un processo in corso e che non bisogna influire con iniziative volte a strumentalizzare i fatti e a non emettere sentenze sommarie prima del processo, si notano due aspetti: il primo è una scarsa fiducia nei confronti dei propri iscritti e militanti che ovviamente non hanno alcun interesse a screditare la polizia nel suo complesso, ma scelgono di riflettere criticamente sui fatti. In secondo luogo emerge ancora una volta una lotta all’interno della polizia in cui gli agenti che scrivono libri, discutono, tentano di raccontare e farsi raccontare aprirsi alla società costruiscono con enorme fatica dei varchi.
Noi – che proviamo dolore e a volte rabbia per quanto successo alla Diaz, a Bolzaneto, in via Ippodromo a Ferrara dove fu ucciso Federico Aldrovandi e in tutti i luoghi in cui la polizia ha esercitato la violenza illegale – in quegli spazi di libertà aperti da poliziotti che sfidano il silenzio, anche se in modo parziale [5], siamo chiamati ad entrare e a metterci al loro fianco [6]. Ai poliziotti che distinguono mafiosi e stragisti dai manifestanti in movimento, che si pensano nella società e nei conflitti in essa presenti, che fanno un uso cauto e rispettoso della delega ad essi concessa dallo stato di diritto: quella dell’uso della forza. Nel ricordo di Riccardo Ambrosini, Ninnì Cassarà, Franco Fedeli e delle loro lotte.
Note
[1] http://insorgenze.wordpress.com/201… . Riccardo Ambrosini fu uno dei fondatori del sindacato di polizia, un suo ricordo e i suoi splendidi scritti si trovano nel libro Le parole di una vita, dDe, Roma, 2000.
[2] questa testimonianza, i cui contenuti sono resi anche al processo, è tratta dalla trasmissione Storie maledette andata in onda nel 1998
[3] trovo che un’analisi a partire dal legame tra senso comune e quell’ a priori storico che Foucault chiama episteme negli ultimi duecento anni di storia italiana (ma qualcuno direbbe negli ultimi cinquecento di storia europea) molto possa dirci sui nessi fra condizioni di esistenza della tortura e della violenza illegale degli apparati dello stato e strategie di accettazione, giustificazione e rimozione, da parte di quella che ci si ostina coraggiosamente a chiamare società civile; chi ricorda la missione in Somalia “Restore Hope” e le torture subite dai somali da parte di militari italiani della folgore? Cfr.http://www.repubblica.it/online/cro…. Anche la pubblicazione da parte di Panoramadelle foto con gli elettrodi applicati alle parti intime di un somalo da parte di un militare italiano si perde nella memoria pubblica.
[4] Dice Notari, poliziotto bolognese: “La commissione sulla Uno Bianca retta dal Prefetto, ex questore, ex deputato Achille Serra resta molto ermetica, ma contiene ed elabora un progetto chiaro: la riprogrammazione della polizia. E la riprogramma nel cosiddetto punto 4, dove afferma la necessità del rilancio del valore della dirigenza. Da allora si dice che la colpa è degli agenti, dei sindacati, che di certo non gestiscono nomine e vertici. E quando Serra dice che va rilanciata la dirigenza, nei fatti dice che va rilanciato il concetto di gerarchia. Si scrive dirigenza ma si legge gerarchia, chiusa, ottusa” Cfr. Ripensare la polizia… cit. p. 117-118..
[5] http://www.paesesera.it/Rubriche-e-….
[6] mentre spesso si contrappone la sola rabbia e sfiducia nei loro confronti e si formula come unica richiesta quella di disertare, di lasciare una polizia pensata come intrinsecamente ed irrimediabilmente fascista; cfr. http://ricerca.repubblica.it/repubb….