La Diaz, Franco Fedeli e la polizia. Storia di un fallimento (4). Qui la prima, la seconda, la terza e la quinta parte.
Quelli delle scorte
Il primo fu Joe Petrosino, tenente della polizia di New York. Verso le nove di sera, in Piazza Marina, nel centro di Palermo, fu ucciso da emissari mafiosi con quattro colpi di pistola. Era il 12 marzo del 1909. L’ultimo è stato Giovanni Lizzio, ispettore capo della questura di Catania, ucciso dalla mafia il 27 luglio del 1992.
I poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia uccisi dalla mafia in 83 anni sono stati 64 [1]. Il contributo di questi uomini e donne delle forze dell’ordine nella lotta alla criminalità organizzata ha avuto un ruolo fondamentale nella formazione della coscienza storica in Italia e nella memoria civile di generazioni di cittadini.
Per me che sono cresciuto negli anni ’90, negli anni delle stragi mafiose (avevo dieci anni quando ho visto in televisione la foto di Emanuela Loi, poliziotta di 25 anni al seguito del giudice Borsellino e morta con lui in Via D’Amelio, una di quelli delle scorte, i poliziotti che stimavo di più e che credevo fossero i più coraggiosi) apprendere notizie sulle violenze della polizia ha sempre stimolato un’interrogazione, un bisogno di ricerca sempre condizionato da una solidarietà tacita con questi uomini e donne. Insieme però provo un senso di scoramento e di fallimento nel pensare alla storia di questa istituzione così complessa e contraddittoria.
Anche per questo motivo mi sono interrogato sul prefetto De Gennaro. Con la sua professionalità fu al fianco di Falcone nella caccia ai mafiosi per anni, ma da capo della polizia durante il g8 non ha sentito il dovere di chiedere scusa alle vittime della violenza inusitata della polizia nella scuola Diaz. Mi sono interrogato su uno dei più grandi poliziotti italiani, Arnaldo La Barbera, che contribuì all’arresto di numerosissimi mafiosi e sgominò negli anni ottanta la mafia veneta del Brenta e che fu mandato alla Diaz dirigendone in sostanza le operazioni. Rifletto adesso sulla presenza, fra gli imputati e condannati in appello al processo Diaz, di Gilberto Caldarozzi e Francesco Gratteri che hanno arrestato boss come Provenzano e Zagaria.
Mi interrogo e non mi so rispondere: come è possibile che questi uomini con la loro professionalità e senso dello Stato abbiano convinto Buscetta a parlare – per la prima volta dall’interno – dell’organizzazione di Cosa Nostra, abbiano trovato il covo bunker a Casapesenna di Michele Zagaria, abbiano fatto la storia dell’antimafia e poi, nel corso della loro carriera, abbiano diretto l’irruzione in una scuola in cui si apprestavano a passare la notte 93 manifestanti pacifici? Come è possibile che questi uomini non sappiano dire chi e perché effettuò il pestaggio unilaterale di persone inermi in quella scuola, o non si assumano la responsabilità di un’azione profondamente sbagliata e feroce della polizia italiana?
Storia triste di Natale Mondo
La sera del 28 luglio del 1985 un bravo commissario siciliano della mobile di Palermo, Beppe Montana, allora vice capo della sezione catturandi, cioè quelli che si occupano di scoprire dove si nascondono i latitanti, mentre torna da un giro in mare e scende dall’imbarcadero di Ponticello, è raggiunto da due mafiosi che lo uccidono. Siccome Montana li catturava davvero i mafiosi, e stava dando un forte impulso alle indagini, Cosa Nostra decise che era tempo di fermarlo. I poliziotti che lavoravano con Montana si vedono morire i colleghi giorno dopo giorno. Allo stesso tempo i finanziamenti per migliorare i servizi d’indagine e la volontà politica e organizzativa per combattere la mafia continuano a scarseggiare . I poliziotti reagiscono a questo stato di cose sempre nel silenzio ma alcuni iniziano a combattere per la costituzione del sindacato di polizia, scrivono documenti, redigono informative, partecipano, lottano.
Qualche giorno dopo l’omicidio Montana la Squadra mobile arresta un pescatore, Salvatore Marino,condotto in questura perché sospettato dell’omicidio. Qui viene picchiato dagli agenti e torturato: il tubo che viene usato per fargli ingoiare acqua gli lacera l’esofago. I poliziotti gettano in acqua il corpo di Marino con l’idea di occultare il cadavere. Marino non è responsabile dell’omicidio Montana e Cosa Nostra, che ha una talpa in questura che racconta tutto, vuole sfruttare l’occasione. Durante gli imponenti funerali di Marino, il 5 agosto, il suo corpo è trasportato in una bara bianca su cui viene posta la sua maglia di calciatore dilettante. Il corteo che attraversa Palermo grida insulti contro la polizia.
Il giorni dopo, il 6 agosto, la mafia uccide Ninni Cassarà, capo della sezione catturandidella polizia e amico fraterno di Beppe Montana. Insieme avevano condotto importantissime indagini contro la mafia, lavorando con Falcone e Borsellino.
Ai funerali dell’agente Antiochia, che faceva da scorta a Cassarà, esplode la ribellione dei poliziotti che aggrediscono Scalfaro, allora Ministro degli Interni, reo di aver fatto trasferire i funzionari ritenuti responsabili delle torture che provocarono la morte di Marino.
Da questi episodi, emergono alcuni elementi utili per interrogarsi sul funzionamento delle nostre forze dell’ordine e sulla cultura che le attraversa. Gli anni ottanta a Palermo sono stati anni di guerra. Poliziotti, carabinieri, giudici, uomini politici e semplici cittadini sono stati uccisi dalla mafia di fronte ad uno Stato inerte o reticente a prendere misure adatte.
Cosa ha condotto gli uomini della squadra mobile a torturare un sospettato fino ad ucciderlo e a buttare il cadavere in mare? Si percepisce come un senso di accerchiamento nei confronti dei funzionari di polizia e dei giudici antimafia. Alcuni, come il commissario Cassarà, risponderanno a questo accerchiamento, alla sfida mafiosa e alle reticenze governative impegnandosi con altri poliziotti per la costituzione del sindacato di polizia in una lotta di lungo periodo che cambiasse dall’interno, aprendosi alla società, una forza che era militarizzata e subiva ancora i retaggi della legislazione fascista. Era una battaglia culturale. Altri invece rilanceranno in forme nuove quei retaggi, confermando percorsi gerarchi ed autoritari che potevano sfociare in episodi come quello della tortura di Marino.
La mafia aveva sfruttato quei fatti per aizzare la popolazione contro la polizia, anche contro quella polizia che s’impegnava perché non accadessero più. Come ricordato, il giorno dopo il funerale del giovane pescatore, la mafia aveva organizzato l’uccisione del commissario Cassarà e dell’agente Antiochia. Quel pomeriggio si salvò dai colpi di mitra un altro agente, Natale Mondo, che faceva parte della squadra di Cassarà. Natale riuscì a sfuggire all’attentato nascondendosi sotto un’automobile ma fu ucciso dalla mafia tre anni dopo, di fronte al negozio di giocattoli della moglie.
L’inchiesta sulle torture e sull’uccisione di Marino dimostrerà che a spingere il tubo nella gola del pescatore e a procurarne la morte era stato Natale Mondo. [2]
L’agente federale Van Alden e lo stato etico
Dalla microstoria palermitana dei primi anni ottanta emergono culture e pratiche di polizia diverse tra loro: torture e impegno sociale, slanci democratici e depistaggi, lotte per la smilitarizzazione e rilanci autoritari. Gli agenti che torturarono Marino e quelli che si impegnavano per costituire il sindacato e cambiare volto e pratiche alla polizia italiana frequentavano gli stessi uffici, facevano insieme le indagini e uscivano con le volanti, redigevano rapporti e compivano arresti, andavano nelle scuole a parlare di mafia e facevano le scorte ai giudici.
Oggi l’assalto alla Diaz ci ripropone tristemente un’identità, una sovrapposizione, una coincidenza fra il poliziotto antimafia e quello che si trova a dirigere l’operazione genovese definita dalla magistratura di una violenza inusitata contro persone inermi e nell’impossibilità di resistere.
Qual è il filo che legala storia dell’antimafia e quella di Genova? Cosa potrebbe aver generato queste sovrapposizioni? Mi viene in mente un personaggio di una serie televisiva americana prodotta da Martin Scorsese, Boardwalk Empire. Il personaggio in questione è un agente federale che in pieno proibizionismo si fa strenuo difensore della legge Volstead (dal nome del deputato che la propose). L’agente Van Alden è incorruttibile, onesto, deciso ad assicurare alla giustizia i contrabbandieri e le mafie che intorno ad essi uccidono, derubano e fanno affari per miliardi, con la connivenza di politici di alto rango. Egli è anche un fervente cattolico e la sua figura viene dipinta con decisi tratti di integralismo religioso spesso scioccanti (in una scena l’agente si prende a cinghiate da solo perché, da sposato, ha avuto una tentazione amorosa puramente platonica nei confronti di una sospettata) che lo accompagnano nel suo lavoro di poliziotto. La sua etica e la sua fede si compenetrano a tal punto da far coincidere il Tutore Della Legge con il Dispensatore Della Giustizia Divina. Van Alden odia a tal punto il Male ed i suoi rappresentanti che non esita ad uccidere un suo collega sospettandolo (giustamente, ma non è questo il punto) di essere un corrotto al soldo dei contrabbandieri.
La dinamica dell’omicidio è significativa. L’agente Van Alden ed il suo collega, durante la ricerca di una distilleria clandestina nel bosco, si imbattono in un gruppo di religiosi afroameriani che si battezzano al fiume. Van Halden costringe il suo collega – che nei giorni precedenti aveva tempestato di domande sospettose sul suo conto e di accuse non troppo velate – ad unirsi al gruppo di religiosi e a battezzarsi per espiare i suoi peccati. È lo stesso Van Alden a battezzarlo ma il rito di purificazione si trasforma gradualmente in un omicidio per annegamento.
Il poliziotto che si fa giustiziere ultimo, che intende il suo ruolo come dispensatore di verità, che non si immerge mai nel mare del dubbio, credo possa dirci qualcosa, anche se non tutto ovviamente, di una parte di quella cultura della difesa sociale che attraversa le forze dell’ordine. Di quel senso di impunità che deriva dalla convinzione di stare facendo giustizia. Rifuggendo dunque ogni semplificazione complottista che intende attribuire esclusivamente alla volontà politica del governo in carica ciò che successe a Genova, potrebbe essere utile attingere ad una genealogia di quella cultura dello stato etico che ha attraversato il fascismo e che gli è sopravvissuto nella nostra repubblica. A proposito di questa genealogia possibile mi ha sempre colpito un racconto di un poliziotto del SIULP riportato nel più volte citato Ripensare la polizia di Marcello Zinola:
nel corso di uno dei convegni sul dopo G8 ho raccontato dell’iniziativa del Questore di Alessandria sul precetto pasquale (la funzione religiosa) che lo ha visto poi intervenire sottolineando il fatto di essere riuscito a portare l’80% degli agenti di Alessandria a fare la comunione alla messa durante l’orario di servizio. Ora ogni appartenente alle forze dell’ordine è libero, deve essere libero di avere la propria idea politica e religiosa e di andare a messa tutte le volte che vuole. Ma è questo l’obiettivo che deve avere un Questore?Ripensare la polizia…. cit., p. 118-119.
Per tornare alla Diaz dunque, non sono in dubbio le responsabilità personali, la violazione patente dei diritti umani, le contingenze politiche e la volontà di molte forze di spaccare e rendere inoffensivo uno dei movimenti civili e più forti degli ultimi anni, come quello che si riunì a Genova. Si sta cercando però di sostenere che vi sono anche cause di lungo periodo che vanno affrontate per capire le dinamiche della forza e della violenza di stato. E su quelle è necessario agire qualunque sia l’esito del processo di domani.
Anche se prendessimo per buone le dichiarazioni dei poliziotti che hanno motivato il blitz alla Diaz, credendo che al suo interno ci fossero pericolosi black block armati di molotov e spranghe, solo il delirio dell’impunità assicurata avrebbe potuto motivare il loro comportamento. Come l’agente Van Alden che uccide a freddo un collega corrotto facendosi giudice supremo, come i questurini antimafia di Palermo che torturano Marino e lo gettano in mare, il poliziotto che entra alla Diaz credendo di essere nel giusto e di trovarsi di fronte il Male non può operare se non in preda a questa missione autoritaria che trova le sue origini nello storia dello stato etico e nelle sue attualizzazioni, variabili, derivazioni contemporanee.
Note
[1] Per una visione più completa, ma dal criterio meramente cronologico (dal 1852 ad oggi), dei caduti nella sola polizia cfr. http://www.cadutipolizia.it/index.asp.
[2] Per approfondire questi episodi cfr. E. Deaglio, Patria 1978-2008, il Saggiatore,Milano 2009 e id., Raccolto rosso. La mafia, l’Italia, Feltrinelli, Milano, 1993.