Una riflessione sul soggetto, sul presente, sulle forme di vita a partire dal Normcore, o New normal.
People say nothing is impossible, but I do nothing every day. Winnie-the-Pooh
Nous avons connu un peuple que l’on ne reverra jamais. Je ne dis pas: on ne verra jamais de peuple. Je ne dis pas: le peuple est perdu. Je dis: nous avons connu un peuple que l’on ne reverra jamais. Nathalie Quintane
Un apoftegma di Walter Benjamin – quello che recita: «Non vi è mai documento di civiltà che non sia al tempo stesso documento di barbarie» – rischia di diventare, oltre che stucchevole, un curioso alibi con cui evitare il confronto col presente, con quel che accade. Mettiamolo, almeno temporaneamente, sotto cauzione. E leggiamo un “documento di civiltà” (banale e deciduo proprio come la forma di vita da cui e di cui parla) che altro non si domanda se non com’è che si descrive il nostro – cioè il proprio – tempo; come si descrive una forma di vita e cos’è, se c’è, una forma di vita riuscita. Il metodo, semplicissimo a enunciarsi (vita Cartesii est simplicissima: Valéry dixit), è, filosoficamente, tra tutti il più arduo (perché forse, speculativamente, ineseguibile): non pregiudicare moralmente i concetti che la definiscono.
Youth Mode: A Report on Freedom è un “manifesto” stilato dal gruppo di trend forecasters newyorkesi K-Hole nel 2014. Ha disegnato, dopo anni di hipsteria collettiva, l’immagine del Normcore o del new normal (se ne è parlato un po’ dappertutto, perfino, con singolare pressapochismo, su qualche quotidiano italiano): un’esperienza, un lifestyle, uno stile di consumo, una forma di vita. K-Hole, con i suoi mezzi, fornisce una lettura del presente a metà strada tra l’etnografia, la profezia e lo sberleffo. Così facendo, però, ci insegna qualcosa sulla critica (sulla necessità apparentemente inderogabile che essa sia la forma eminente del pensiero), sul presente e sulla (nostra) libertà. Che Abercrombie & Fitch, prima, e GAP, dopo, abbiano intercettato il fenomeno (fatalmente equivocandolo) è un sintomo che verifica la necessità di non indulgere nel bon-ton filosofico.
L’incipit è secco: c’è stato un tempo in cui si poteva essere speciali. Ma il tempo dell’originalità è tramontato: «The likehood that you and Michelle Obama wish upon the same star is greater than ever». La gioventù rimpiazza l’età (cioè la storia e la tradizione) e descrive una maniera – un certo modo di prolungare infinitamente gli anni prima della distinzione. È una libertà condizionata; dunque anche una nuova ontologia del desiderio: su cui, certo, non si cede mai – ma a condizione. Se la premessa riserva soltanto al rapporto tra la maniera giovane (lo youth mode) e la libertà un ruolo cruciale, di questo rapporto possono darsi, si sono date e si danno più di un’interpretazione. Se il modo “alternativo” aveva provato a forzare i confini della “sameness”, quello Mass Indie (il fighetto di massa, l’hipster) ha investito tutto sulla differenza. L’ipotesi affacciata è che il Mass Indie abbia interpretato la differenza secondo una misura inclusiva e additiva: la sua dimensione è perciò quella del gruppo (dunque, sociologicamente, una forma dell’esclusività). Le leggi della scarsità sono tuttavia implacabili: non c’è differenza per tutti – tanto più quando sono tutti a volerla. Due figure possono risultarne: il clone (A è troppo uguale a B perché sia possibile dire in cosa differisce) e l’isolato (A è troppo A perché qualcuno lo capisca).
Thus the cargo shorts… Alla crescente scarsità di differenza, il Mass Indie (meglio: la sua uberelite) replica con un investimento forsennato sulla normalità. La differenza, al picco dell’iperbole, trascorre nella tautologia: non c’è cosa più diversa o differente che sbarazzarsi della differenza. È allora che la transitività integrale tra sameness e difference sarà flagrante: «When the fringes get more and more crowded, Mass Indie turns toward the middle». È il tempo dell’Acting Basic: il rovescio dialettico, la trappola del Mass Indie (il suo viaggio a Francoforte). Il diverso è il sempre uguale; perché nega e non risolve nulla: «Sameness is not mastered, only approached». È tempo, allora e finalmente, di Normcore: «The new world order of blankness». Se il Mass Indie cercava e guadagnava il suo accesso alla comunità in virtù dell’appartenenza esclusiva a un gruppo, il Normcore sperimenta la possibilità come esercizio di adattabilità, come potenza delle connessioni. I processi di differenziazione hanno, per il Normcore, una consistenza pulviscolare; il suo gruppo è lo sciame e la sua libertà è provvisoria, ma calorosa, affiliazione. Se il Normcore non affetta il sentimento non è perché ci creda per davvero, ma perché ne sperimenta l’effetto energetico: «You might not understand the rules of football, but you can still get a thrill from the roar of the crowd at the World Cup».
Il Normcore è integralmente post-autentico: ha una relazione con la “sameness” puramente immanente; aldilà dell’estetizzazione dell’Acting Basic, il Normcore fa la differenza dov’è e come può. È veramente Normcore chi sa che la normalità non esiste. È veramente Normcore chi è veramente queer. Perché il Normcore (o il queer) fa un’esperienza della libertà e della normalità che disfa, di esse, tutto ciò che rende, una e l’altra, normative (dunque: esibisce e disfa la stessa normatività del normale). L’ethos new normal sarà situazionale, non determinista, adattabile, disinteressato all’autenticità, empatico, post-aspirazionale. L’incomprensione, il malinteso, che condiscono le relazioni new normal, sono occasione di una relazione possibile, di uno scambio probabile; non la minaccia portata all’autenticità presunta, la decezione della volontà saputa. È il caso del consumo: le preferenze e le scelte non sono irrilevanti, sono solo temporanee. Ci sarà spazio e tempo per il compromesso e per l’inconsistenza, per le soluzioni non definitive e le approssimazioni. Non c’entrano l’ipocrisia né l’indegnità. Si tratta piuttosto di una morale della complessità, che non aspira, che non vuole, ma naviga tra i fatti e costruisce possibili connessioni tra cose e persone, affetti e concetti. Il traguardo non è l’auto-realizzazione (il compimento di sé, l’autonomia), ma giace, essendogli coestensivo, in un modo di stare al mondo, di accomodare l’esistenza agli eventi. La libertà del Normcore ha a che fare con la non-esclusività e l’eteronomia: essere nulla di speciale è una liberazione e l’adattamento è promessa di appartenenza (temporanea, va da sé, e radicalmente non identitaria, non identificabile, non identica). Se è nell’autenticità che moralismo e normativismo coincidono senza resto, allora solo l’inautentico, che è il possibile non padroneggiabile («the grace of maybe»), è il modo proprio del new normal e del queer.
Al registro troppo moderno che oppone seccamente un “allora” a molti “domani”, sameness e difference, il Normcore affianca – perché sostituire non può – il registro dell’altrimenti. Esso ha il potere di esibire e di sopportare l’ambiguità che definisce, proprio ora, la relazione, che è poi un intreccio intriso di ambivalenza, tra rapporto sociale di capitale e mitologema della soggettività. Perché è queer e new normal chi sfrutta iperbolicamente (non senza cinismo, non senza divertimento) le interpellazioni, le situazioni, le condizioni e i condizionamenti; nel farlo cita in giudizio la normatività e indica al cuore del concetto di normalità il più vuoto dei vuoti: l’apertura a infinite interpretazioni. Il concetto di normalità, effettuale com’è, è però, alla lettera, reso inconsistente (e disfatto) – in ogni new normal, in ogni queer esso è puramente contestuale e congiunturale.
Il Normcore è un nome preciso – so now – del nostro presente. È il dispositivo della citazione iperbolica che, diventato virtuosistico e ridondante, si libera finalmente del suo residuo volontarista. Il presente è il luogo che sta aldilà del lutto e aldiqua della redenzione. Il presente è il tempo della crisi ordinaria, dei quasi eventi (eventi che non sembrano eventi), della violenza dolce: come si può, davvero, abitarlo? Come ci si può stare senza resistere né soccombere? Solo sperimentando una certa povertà di parola (quella del Normcore, la sua abbacinante blankness), un certo impaccio delle definizioni, un certo margine di non padroneggiamento, un po’ di pigrizia, sarà possibile aprire un varco in quell’agency già sempre sovrana (e ormai soltanto – anche quando resiste – lugubremente intessuta di quelle retoriche che della sovranità sono la sostanza: violente, noiosissime, prevedibili). Si tratta di sospendere la volontà senza perdere una forma. Di sperimentare, davvero, la vita come potenza e potenzialità di produzione (e già il linguaggio scricchiola) dell’altrimenti; quindi a dispetto della presunta scelta tra accondiscendere o sovvertire. Di sostituire, almeno provvisoriamente, al che fare il come fare. Di liberarci di noi stessi esonerandoci dall’identità.
Se non è possibile fornire un’immagine consistente di una comunità Normcore è perché in essa si annuncia l’antropologia che viene. L’antropologia non enfatica, l’antropologia dell’uso e del consumo. Essa non sfida le norme, né vi soggiace: le abita e le attraversa, dunque le disfa. O ancora meglio: le istituisce ogni volta di nuovo, vivendo. Il Normcore è un esempio formidabile di critica all’anti-normativismo (cioè di critica alla critica e dunque di liquefazione della critica). Non c’è progetto (non c’è blocco sociale): c’è sopportazione (endurance) e c’è invenzione; c’è possibile e novità. C’è il lavoro del lutto e non c’è il lutto imprescrittibile (anche del lavoro). Non c’è la malinconia, soprattutto; né austerità. L’ambivalenza del Normcore è tutta qui: una valorizzazione forsennata, parossistica e iperbolica del mainstream, e, insieme, un rifiuto implacabile della moda. Con il Normcore ciò che tramonta è la distinzione. L’iperrealismo morale trascorre in un ethos surreale. Se una volta c’erano anoressia e bulimia ora c’è il binge-eating disorder: bulimia nervosa senza pratiche di compensazione. La forma di vita new normal rifiuta la retorica dell’eccesso (sovrano, violento, trascendente) e anche i volontarismi dell’eccedenza. Essa riposa nel possibile.
Il congedo Normcore a Leviatano è l’addio a un immaginario politico e sessuale i cui traguardi sono stati il lutto e la salvezza. Traguardi che dislocano ciò-che-capita aldilà e aldiqua del medio in cui ciò-che-capita avviene: la vita (e i concetti che la avvolgono). Congedarsi dal gelido mostro sarà come correre da fermi (un nuovo equilibrio, un new balance): evitare le scorciatoie che hanno nome “dicotomia” e “dialettica” e perciò tenere il luogo della vita sopportandone l’imperfezione sotto la specie spuria dell’irreparabile e del perfettibile. Al pessimismo ragionato segue l’ottimismo crudele. C’è molta coazione a ripetere; ma senza nostalgia e quasi senza storia. Alla verticalità della restituzione e delle trascendenza si affianca, anche nell’immagine sinistra e liberatoria di coppie post-edipiche e “incestuose” e stellari, quello dell’orizzontalità (senza età). Questo popolo che non siamo e che non saremo più sa stare al mondo e sa stare al presente oltre la critica e l’accettazione.
È veramente new normal e queer ogni forma di vita singolare; ogni così che definisce, inconcludentemente, un certo modo di stare al mondo. Esso designerà null’altro che il più puro idiosincratico. Non l’idiota, ma il singolare (in) comune. Normcore è la forma di vita quando esiste e brilla.Desidero ringraziare Laura Sinagra Brisca, che, per prima, mi ha parlato di Normcore.
Idee, spunti, citazioni e criptocitazioni sono tratte da: L. Berlant, Cruel Optimism, Duke University Press, Durham 2011; L. Berlant, L. Edelman, Sex, or the Unbearable, Duke University Press, Durham 2014; F. Cassano, Senza il vento della storia. La sinistra nell’era del cambiamento, Laterza, Roma-Bari 2014; E. Coccia, Le Bien dans les choses, Payot et Rivages, Paris 2013; E. Coccia, Luccicanza. La gloria nelle cose che brillano, testo inedito della lectio magistralis tenuta al Festival di Filosofia 2014; e-flux 58, 10-2014; P. Godani, Senza padri. Economia del desiderio e condizioni di libertà nel capitalismo contemporaneo, DeriveApprodi, Roma 2014; K-Hole, Youth Mode: A Report on Freedom; M. Lazzarato, Marcel Duchamp et le refus du travail, Les prairies ordinaires, Paris 2014; S. Mahmood, Politics of Piety: The Islamic Revival and the Feminist Subject, Princeton University Press, Princeton 2011; E. A. Povinelli, Economies of Abandonment: Social Belonging and Endurance in Late Liberalism, Duke University Press, Durham 2011; J. Puar, Terrorist Assemblages: Homonationalism in Queer Times, Duke University Press, Durham 2007; N. Quintane, Les années 10, La fabrique, Paris 2014; W. Siti, Troppi paradisi, Einaudi, Torino 2006; W. Siti, Resistere non serve a niente, Rizzoli, Milano 2012.