Nati nella rete. Eco, la memoria e la scuola

All’inizio del nuovo anno l’Espresso usciva in edicola con quattordici lettere d’autore, raccogliendo, tra le altre, una dolcissima missiva di Umberto Eco al nipote.

La lettera –  essendo stata pubblicata anche online – ha cominciato ad apparire qui e lì nel rallentato flusso post–natalizio dei social network riscuotendo una certa visibilità. Nella lettera Eco si rivolge al nipote, reale e/o ipotetico, esortandolo a perseverare nell’esercizio della memoria; essa è ciò che ci può garantire una vita ricca, come vissuta molte volte, perché popolata di figure, date, informazioni, che sono state oggetto di continuo esercizio memorativo. La ricchezza di una vita intensamente vissuta attraverso il ricordo e l’esercizio della memoria è oggi messa a rischio dall’insinuarsi dell’idea, e della pervasività della pratica, che un computer possa sostituire l’archivio personale del nostro cervello e che la rete possa inglobare e rimediare ogni tipo di esperienza.

Come giustamente fa notare Claudio Lagomarsini, nel suo post su questo stesso argomento, nella lettera di Eco sembra riecheggiare la nota condanna della scrittura che il Socrate di Platone fa nel Fedro attraverso il mito di Theuth. La scrittura mette in pericolo l’esercizio della memoria, in quanto esternalizzazione della facoltà umana di ricordare. La lettera, proprio nella sua vicinanza alle argomentazioni platoniche, tocca nel vivo una questione cruciale. La possibile riconfigurazione (ma nell’interpretazione di Eco si tratta di una perdita) della memoria che si instaura con la nuova medialità é il segno che quello che stiamo vivendo è un cambiamento epocale, una rivoluzione dell’umano, pari alla scrittura o alla nascita a diffusione della stampa. E tuttavia è proprio nella sua saggezza e accorata dolcezza che la lettera mostra un limite ed indica un’emergenza ormai non più aggirabile.

Il limite è quello del nonno, che con ogni ragione e amorevole volontà di protezione, cerca di trasmettere al nipote il mondo che egli ha conosciuto, quell’organizzazione del sapere e del sentire in cui si è formato e di cui, nel caso specifico, è stato fine e lungimirante interprete. Tuttavia il pensiero e la riflessione, dinanzi all’enormità del cambiamento, non possono arretrare, rifugiandosi in un mondo che non esiste più, in un paradigma vecchio e confortante, ma che tuttavia non sembra funzionare più per il presente. È tempo allora – e questa è l’emergenza che appare eclatante dalla lettera di Eco – che la filosofia o le scienze umane in generale si facciano carico dei cambiamenti che oggi stanno avvenendo.

Michel Serres ha dedicato delle pagine molto belle a questo tema. Nel suo Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere[1] il filosofo francese offre una specie di guida per anziani al “nuovo umano” che avanza. Si tratta di un esercito di tanti Pollicino e Pollicina, così chiamati per le loro sorprendenti abilità nel digitare messaggi con i pollici, giovani individui urbanizzati, i cosiddetti nativi digitali, che abitano la rete, riuscendo a gestire più azioni ed informazioni contemporaneamente. Cresciuti in quella società dello spettacolo trasformatasi in una massificata società pedagogica, che ha più presa di qualsiasi altra istituzione, che si tratti di famiglia, scuola o università, i ragazzi del nuovo millennio – sostiene Serres –  non svolgono le stesse attività di sintesi e organizzazione del molteplice nella maniera in cui lo facevano le generazioni precedenti, cioè non hanno più la stessa testa dei genitori o dei nonni.

Pollicino e Pollicina hanno il sapere a portata di mano, zuhanden, oggettivato e ormai globalmente diffuso; non è solo il sapere ad essere a portata di digitazione, ma anche parte di quelle tipiche facoltà umane, come la memoria o l’immaginazione, che passano sempre di più attraverso le protesi digitali.

Dinanzi a questi cambiamenti – sostiene Serres – bisogna escogitare “novità inimmaginabili”: è questo il compito principale della filosofia, interpretare ed anticipare la contemporaneità ed è proprio su questo terreno che essa sembra oggi aver fallito. Per quanto, allora, possa apparire rassicurante e salvifico invitare i nostri figli o nipoti a continuare a recitare a memoria La Vispa Teresa, questa non può bastare come risposta alla rivoluzione che è in atto. Il limite del nonno si trasforma nel limite del filosofo. Non è una questione meramente generazionale e non è certo la rottamazione che qui si sta invocando, ma l’esatto contrario, cioè mettere la saggezza e la conoscenza al servizio di una contemporaneità che necessita di essere interpretata coraggiosamente.

Coraggiosamente significa affrontare la necessità di doversi spingere fino al punto di attestare lo scardinamento di quello stesso sistema di senso e conoscenza nel quale ci siamo formati e che è in fondo l’unico che davvero conosciamo. È quanto sostiene, ad esempio, Francesco Antinucci[2] che da tempo ha teorizzato il venir meno del primato di quel sistema di apprendimento che definisce simbolico–ricostruttivo (che si basa cioè sulla decodifica di un linguaggio autosufficiente), impostosi largamente con la diffusione della stampa e imperniato intorno alla forma–libro, sostituito da un’altra modalità di apprendimento, che forse più originariamente ci appartiene, che è da quella da lui definita senso–motoria, che si basa cioè su un circolo di risposte percezione–azione.

Pollicino e Pollicina non solo sono naturalmente orientati verso quest’ultima, che è più intuitiva, immediata e richiede uno sforzo minore, ma sono anche circondati ed immersi in dispositivi che sollecitano proprio questa modalità di apprendimento rendendo ingiustificabile lo sforzo richiesto dal tradizionale sistema simbolico–ricostruttivo. In pratica è molto più facile ed utile imparare ad usare computer o smartphone semplicemente smanettando, piuttosto che leggendo il libretto delle istruzioni. Tutto ciò impone una seria riflessione sul ruolo e sullo statuto dell’istituzione della scuola.

Come già sostenuto da Antinucci, non si tratta meramente della necessità di equipaggiare le classi con computer, schermi o sistemi interattivi, ma di immaginare un modo completamente diverso di lavorare sull’apprendimento, rivedendo il sistema scolastico nel suo insieme, dalla struttura lineare delle classi alla formazione del corpo docente.

Sembra che oggi questo sia un tema all’ordine del giorno, in questo ennesimo tentativo di dare una forma di governo al nostro paese. E proprio per la facilità ad essere oggetto di strumentalizzazione e facile retorica, è necessario che l’occhio vigile e attrezzato del vecchio saggio, del filosofo, stia lì ad osservare e ad offrire, senza paura o accecamento per il nuovo, una lettura lungimirante che sappia insinuarsi nelle pieghe e nelle trappole del presente.

 

Note

[1] M. Serres, Non è un paese per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere, Bollati Boringhieri, Torino 2013.

[2] F. Antinucci, La scuola si è rotta. Perché cambiano i modi di apprendere, Laterza, Roma-Bari 2001.

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