Divenire postumani

Recensione a Il postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte (DeriveApprodi 2014, traduzione di Angela Balzano) di Rosi Braidotti

 

«Mi impegno a iniziare da qui», scrive Rosi Braidotti nelle battute finali del suo nuovo libro-manifesto Il postumano:

non dalla restaurazione nostalgica di un modello onnicomprensivo trascendentale, non dall’elogio dei margini né da un ideale olistico. Desidero pensare a partire dal qui e ora, da mia sorella Dolly la pecora e dall’oncotopo, mia divinità totemica; dai semi dispersi alle specie in estinzione. E anche, simultaneamente e senza contraddizioni, dagli sconcertanti mezzi generativi, inaspettati e implacabili, grazie ai quali la vita – bios e zoe compresi – riprende continuamente a lottare. Questo è il tipo di materialismo che fa di me una pensatrice postumana fino al midollo […]. Non ho nessuna nostalgia per l’Uomo, misura presunta di tutte le cose, o per le forme del sapere e dell’autorappresentazione che lo accompagnano (p. 203 e s.).

Un posizionamento etico e politico, come sempre sessuato al femminile, questo di Rosi Braidotti, che avevamo già imparato a conoscere, e apprezzare, in quei suoi precedenti lavori così abili nel tenere insieme, «simultaneamente e senza contraddizioni», per riprendere le sue parole, Foucault e Irigaray, la differenza sessuale e il queer, Deleuze e la cibernetica, una fiducia smisurata nelle tecnologie e l’ecosostenibilità, e di cui questa ulteriore messa a fuoco sul postumano costituisce l’inevitabile, e desiderata, prosecuzione. Un posizionamento privo di qualunque nostalgia per l’Uomo, ossia privo di nostalgia per quel soggetto, e per il suo criterio di giudizio, che secoli di tradizione filosofica umanistica (occidentale) hanno concettualizzato e trasmesso come “propriamente umano”: il soggetto cartesiano e trasparente del cogito, quello razionale kantiano, il polìtes di Atene e le citoyen della Rivoluzione, con la loro lunga catena di aggettivi – proprietari, bianchi, maschi ecc. ecc.

Non tutti, d’altra parte, possono affermare con ampio margine di certezza di aver goduto del diritto di accesso – nel passato, come nel presente – a quella sfera dell’umano che le varie contro-filosofie marxiste, femministe, poststrutturaliste, queer e postcoloniali hanno smascherato come falsamente universalista, egualitaria, o anche solo includente: non erano “umani”, allora, le donne, gli schiavi, i meteci, i poveri, i neri, e poi non lo erano gli omosessuali e le lesbiche, e oggi non sono “umani” i transessuali e gli intersessuali, e ancora non lo sono i migranti, gli internati negli OPG, i nuovi poveri e i nuovi e inattesi esclusi e traditi dal capitalismo avanzato. E dunque, perché mai dovremmo piangere il declino dell’umano?

Tutti o quasi, secondo Braidotti, siamo invece già postumani fino al midollo, più di quanto riusciamo anche solo a immaginare. Nella nostra esistenza costellata di protesi, di macchine e di tecnologie, gli incontri e le relazioni con altri soggetti postumani si dipanano già dalla loro mutevole combinazione – e da essa si dipana la vita stessa e il suo orizzonte di senso e di attesa. La continuità di questa nostra esistenza è infatti garantita e al contempo prodotta e ri-prodotta, in un perpetuo moto circolare, e già da tempo – benché gli investimenti tecnologici e la rivoluzione analogica degli ultimi due decenni abbiano indotto una clamorosa accelerata di questo processo –, da un enorme insieme di elementi (si pensi agli innumerevoli dispositivi, alle nostre seconde e terze vite sui vari social, ai cibi geneticamente modificati, alle tecnologie riproduttive, ai mezzi di trasporto sempre più veloci ecc.) che erodendo la dicotomia costruttivista ormai classica tra ciò che è naturale e ciò che è culturale, rivelano i presupposti della «materia e della struttura vivente» e la spingono di continuo oltre le sue gabbie, aprendo spazi di libertà inimmaginati, garantendo e producendo nuove possibilità di soggettivazione, disvelando distese inesplorate di possibilità e di forme di persistenza che la filosofia umanista non avrebbe potuto (o voluto) considerare – e che in questo sono postumane.

«Il postumano», in questo senso, è quella «condizione storica che segna la fine dell’opposizione tra umanesimo e antiumanesimo e che designa un contesto discorsivo differente, guardando in modo più propositivo a nuove alternative» (p. 44). L’alternativa di Rosi Braidotti, infatti, pur articolandosi a partire dall’eredità antiumanista, che lei individua nel poststrutturalismo, nell’anti-universalismo femminista, nella fenomenologia anti-coloniale e nell’ambientalismo, tenta di spingersi oltre le sue secche – tra cui la debole progettualità etica e politica, a fronte invece di una serrata critica etica e politica –, attingendo a piene mani dai modi esemplari, plurali e proteiformi, attraverso cui «le differenze sessualizzate, razzializzate e naturalizzate» (p. 45) sperimentano in maniere reiterate, e ostinate, un decentramento dell’umano: un’immanenza radicale – o un realismo della materia – che corrisponde nientemeno che alla capacità di resilienza della materia vivente di persistere e reinventare forme di autorganizzazione, senza con ciò ricadere in forme reazionarie di essenzialismo. Una postura nei riguardi della condizione postumana radicalmente differente, pertanto, dalle forme “reattive”, à la Martha Nussbaum, che alle sfide poste dalle economie globali tecnologicamente guidate oppone un recupero senza mediazioni dei punti fermi dell’umanesimo, tra cui l’universalismo disincarnato da porre a garanzia della democrazia, della libertà e della dignità umana. E una postura più prossima, invece, a quella analitica dei sciences and technologies studies di Rose, Verbeek, Lury e Stacey, dei quali Braidotti dichiara di condividere molte delle premesse – su tutte: l’interpenetrazione indistinguibile tra il vivente e la macchina –, se non fosse che in essi il problema della soggettività appaia stranamente silente, in favore di una ambigua neutralità politica.

Nessun recupero dell’umano, dunque, ma nessuna morte del soggetto nel “postumanesimo critico” di Braidotti: «le questioni circa le norme e i valori, le forme dei legami comunitari e delle appartenenze sociali, così come quelle relative alla governance politica presuppongono e richiedono (anzi) la nozione di soggetto» (p. 50). Questo soggetto postumano, secondo Braidotti, dovrebbe piuttosto avere il coraggio di divenire ciò che già in qualche modo è, in modo più o meno cosciente, così da comprendere fino in fondo le potenzialità della propria condizione attuale. Lei ha in testa un soggetto critico che trae la propria linfa da «un’eco-filosofia delle appartenenze multiple» (p. 56), un soggetto che è relazionale e determinato nella e dalla molteplicità, in grado di operare e di muoversi facendo la differenza senza con ciò rinunciare alle innumerevoli altre differenze di cui come singolarità è unica portatrice, né al radicamento, da contrapporre allo sradicamento e allo spaesamento indotto dalle necropolitiche neoliberali (cap. 3), su cui fondare la propria responsabilità, anch’essa radicata e sempre parziale, nei riguardi degli altri viventi e di quel pezzo di terra su cui di volta in volta si troverà a camminare (cap. 1). Un soggetto non-unitario, questo, che occuperà una posizione decentrata nell’ecosistema, e che da quella posizione non più centrale, non più privilegiata, organizzerà i propri saperi e le relative modalità di trasmissione ispirandosi non già al solipsismo nevrotico della propria autocelebrazione, o alla messa al centro dei propri problemi come fossero i principali problemi del mondo, bensì alla relazionalità con altri umani e non-umani, e questa nuova relazione etica – improntata alla positività della condivisione di «progetti e attività» (p. 199), e non alla negatività della comune vulnerabilità, à la Judith Butler – non potrà che condurre inevitabilmente a un radicale ripensamento delle forme di organizzazione politica così come delle forme di trasmissione del sapere e dell’università, che del tragico tramonto dell’umano reca oggi, secondo Braidotti, i segni più inquietanti, e spesso ridicoli (cap. 4).

Una potenza liberatoria affermativa, avanguardista e carica di speranza – parola che solca di continuo queste pagine – innerva dunque questa teoria del postumano. Una presa di parola potente, quella di Rosi Braidotti, e tuttavia non priva di aporie. Questa urgenza del vitalismo e del materialismo del divenire rischia infatti di lasciare poco o nessuno spazio, nel libro, alla parola del lutto, nonostante gli ingombranti e ineludibili cumuli di rovine e di morti (inclusi quelli viventi) che l’ordine economico-politico neoliberista ha mietuto su più fronti. In parte, questa quasi-assenza, nelle pagine de Il postumano, è da imputare al fatto che Braidotti dichiari apertamente che «le condizioni per un rinnovamento etico e politico non possono essere ricavate dal contesto prossimo o dallo stato attuale delle cose», bensì devono essere «generate affermativamente e creativamente attraverso progetti orientati alla costituzione di futuri possibili, alla mobilitazione delle risorse e delle visioni non ancora sfruttate, attraverso la loro concretizzazione in pratiche quotidiane d’interconnessione con l’alterità», «progetti collettivi diretti all’affermazione sociale del possibile e quindi della speranza» (p. 200 e s.).

Per altro verso, tuttavia, non può non rilevarsi che la speranza sia un’attitudine (umanista, troppo umanista) così poco politica, così poco incline a coniugarsi con il “pensare qui e ora”, pur rivendicato dalla stessa Braidotti. E la categoria del “futuro possibile” lo è ancora, drammaticamente, di meno – al punto da far passare Il postumano, a più riprese, un tentativo ottimistico, fors’anche comprensibile, di legittimare e giustificare l’assai meno roseo stato di cose, e che rischia però di silenziare le possibilità reali (quelle sì, possibili hic et nunc) di destituzione e di sovversione. Il “qui e ora”, per ciò che mi è dato vedere quotidianamente, vede senz’altro sulla scena soggetti postumani, e spesso loro malgrado: anzitutto perché, benché Braidotti non lo metta sufficientemente a tema, quella condizione è essa stessa costitutiva del regime odierno di accumulazione capitalistico, che si fonda tanto sullo sfruttamento intensivo della materia vivente (umana e non), quanto sull’impossibilità di distinguere tra l’umano e il macchinico. Le attuali diseguaglianze globali, che poggiano innanzitutto sui presupposti della teoria postumana di Braidotti m’impediscono pertanto di credere che questo mondo – come scrive la filosofa nelle ultimissime battute del libro – sia «il risultato dei nostri sforzi congiunti e dell’immaginario collettivo» e che, pertanto, sia «semplicemente il migliore dei mondi postumani possibili» (p. 206). Esso è piuttosto il frutto degli sforzi congiunti e dell’immaginario di alcuni, e dell’esclusione violenta dei tantissimi. Messa a tema, questa, che non ci impedirà affatto di pensare – e organizzare – la nostra condizione e il nostro mondo postumano. Tutt’altro: ci consentirà, semmai, di farlo davvero.

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