Un mondo senza Wall Street?

di Andrea Sartori

Quando nel 2008 il Fondo monetario internazionale valutò le perdite globali durante la crisi dei subprime in 400 miliardi di dollari, e alzò la valutazione, già all’inizio del 2009, a ben 4.000 miliardi per il solo mercato americano, era chiaro che la massima istituzione monetaria non aveva chiare le proporzioni di quanto stava accadendo. La sottovalutazione del fenomeno ha condotto a fornire delle spiegazioni della sua origine, che non ne hanno colto la portata strutturale e hanno limitato fortemente le contromisure.

 

François Morin, professore emerito di scienze economiche all’Università Touluse-I ed ex membro del Consiglio Generale della Banca di Francia, scrive nel suo Un mondo senza Wall Street? (Marco Tropea Editore, Milano 2011) che va messa a fuoco l’autentica radice del problema: la finanza ha cessato da tempo di essere una risorsa per l’economia reale ed è divenuta un generatore di bolle speculative, dipendente dagli interessi di precisi oligopoli bancari e delle più agguerrite società di borsa. Wall Street avrebbe pertanto perso la sua funzione principale, al punto che solo smantellarla e sostituirla con una politica monetaria e fiscale internazionale, e con una profonda revisione della governance delle imprese di capitali, metterebbe al riparo gli Stati, le aziende e il lavoro dalle smodate pretese di arricchimento di una finanza ipertrofica. Un’utopia, certo, ma «concreta», come Morin non cessa di ripetere, poiché attrezzata sia sotto il profilo diagnostico, sia sotto quello propositivo.

Le liberalizzazioni dei tassi di cambio e d’interesse, avvenute rispettivamente negli anni settanta e ottanta, sono state la premessa della nascita di un mercato connesso alla copertura dei rischi, consistente nel trading di quei prodotti derivati rispetto ai quali ancor oggi il G20 non ha preso delle decisive risoluzioni, pur essendo divenuti proprio essi – in particolare i Credit default swaps – il primo «focolaio d’infezione» che tiene in scacco gli Stati e che ne mette a rischio la solvibilità. Sono d’altra parte proprio i derivati, in origine nient’altro che dei contratti d’assicurazione contro i rischi di fluttuazione dei tassi, a fungere circolarmente da riferimento per fissare il livello dei medesimi tassi di interesse ai quali gli Stati devono prendere a prestito le loro risorse sul mercato finanziario: qui è evidente che il capitalismo finanziario è divenuto del tutto autoreferenziale, e che un intervento regolativo una tantum non è risolutivo della sua patologia.

L’altro aspetto fuori controllo di questo capitalismo, secondo Morin, è lo strapotere assunto dai grandi azionisti delle aziende capitalizzate, i quali possono pretendere a priori delle rendite insensatamente elevate, da tradurre a proprio esclusivo vantaggio in corposi dividendi. É la sottomissione della creazione del valore aggiunto alla logica dello shareholder value, dove lo shareholder – l’azionista – è per lo più espressione, in ultima istanza e ancora una volta, di un’oligarchia bancaria.

Ritenere che la crisi, esplosa in Europa in concomitanza con il fallimento di Lehman Brothers, possa essere superata tenendo a bada le banche too big to fail, cioè ripristinando una sana concorrenza nel settore, è per Morin una pia illusione, poiché la finanziarizzazione dell’economia ha reso quest’ultima un fine in se stessa, non un mezzo per degli scopi, falsando a vantaggio di pochi la nozione stessa di concorrenza. Anche l’idea secondo cui la crisi è stata causata da un’eccessiva assunzione di rischi da parte degli speculatori, e che quindi basterebbe rendere più trasparente il mercato dei derivati per ritornare a una situazione di equilibrio, non revoca il contestabile dogma, secondo Morin, del neoliberismo contemporaneo: «non esiste finanza liberalizzata senza mercati di prodotti derivati».

Quello richiesto non è dunque un ritorno alla «concorrenza» o all’«equilibrio», come vuole la teoria economica standard, fiduciosa nella capacità auto-regolativa dei mercati, ma un radicale cambiamento di paradigma, che incida davvero sulle pratiche dell’economia. In caso contrario, le soluzioni potrebbero tutt’al più apporre una pezza ai problemi del presente, consentendo allo status quo di sopravvivere in qualche modo fino alla prossima letale crisi, in una sorta di automatismo post-mortem dell’economia mondiale, come accade a «un’anatra zoppicante a cui è stata tagliata la testa, ma che continua a correre». Il punto è: fino a quando?

Morin non si limita a vagheggiare una riprogrammazione intellettuale degli economisti, e ad auspicare che la politica democratica diventi il faro della sfera economica, anziché esserle subordinata, ma dice anche come.

Intendere la moneta come un «bene comune», giungendo per tappe a una moneta internazionale ma non necessariamente unica, basata su un paniere di monete, permetterebbe intanto di limitare i rischi di deprezzamento drastico e sgonfierebbe alla radice le manovre della speculazione finanziaria, poiché la sua costituzione non potrebbe prescindere dalla elaborazione di regole condivise sulla formazione dei tassi di interesse e di cambio, che tengano in egual conto i diritti dei creditori e quelli dei debitori.

Contestuale alla riforma monetaria internazionale, dovrebbe poi essere l’avvento di una fiscalità altrettanto internazionale, che preveda l’abolizione dei paradisi fiscali e del segreto bancario, nonché la tassazione delle operazioni finanziarie sul modello dell’idea di Tobin. Secondo i dati della Banca dei regolamenti internazionali (Bri), l’ammontare di queste transazioni era pari, alla fine del 2007, a circa 3.500 trilioni di dollari, di cui poco meno dell’1,6% frutto dell’economia reale: una tassa dell’uno per mille frutterebbe pertanto 3.500 miliardi l’anno, che potrebbero essere distribuiti in modo da affrontare le sfide energetiche e ambientali globali, sostituendosi ai controproducenti esiti della cosiddetta carbon finance, ovvero del mercato correlato alle quote di emissione di carbonio, giunto a speculare anche sulla «volatilità climatica».

Per quanto riguarda il superamento della logica della creazione di valore per l’azionista (shareholder value), la posizione di Morin è non meno radicale, e chiama in causa la riformulazione dei rapporti di proprietà nelle società di capitali, in modo che in una «impresa partenariale alternativa» gli utili siano equamente distribuiti tra chi apporta i fondi, il top management e i salariati, senza che una parte sia costretta ad assumersi più rischi dell’altra, come accade attualmente a scapito del lavoro.

Quali sono i tempi di questa utopia concreta? Inevitabilmente lunghi, tuttavia i contraccolpi della realtà sono sempre più pressanti, e proprio per questo il libro di Morin dovrebbe essere portato rapidamente all’attenzione di un pubblico multidisciplinare, per innescare un ragionamento comune tra cittadini, politici, economisti, scienziati sociali e studiosi di diritto dell’ambiente.

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