Trieste è sulla rotta balcanica
«Trieste, porta d’oriente per l’immigrazione clandestina. […] Così l’esodo è ricominciato, irrefrenabile, spinto anche dalla miseria […]. II flusso è in crescendo, le destinazioni principali sono Germania, Olanda, Svizzera, l’Italia è per lo più zona di transito, anche se molti si fermano. Trieste è una delle principali porte dell’immigrazione clandestina, da una ventina d’anni. Non è nuova a tragedie. […] Da un anno gli arrivi stanno crescendo incontrollabilmente. Un afflusso spaventoso, e non si capisce ancora perché.»
Michele Sartori, «l’Unità», domenica 21 aprile 1991
Ci sono due questioni per le quali Trieste e il confine orientale – generalmente inspiegabilmente così lontani dal senso comune italiano, così esterni alla coscienza nazionale – fanno delle comparsate nel dibattito pubblico: la prima è il cosiddetto Giorno del Ricordo, la seconda è la rotta balcanica. E la prima sproporzionatamente di più della seconda.
E allora le farse?
Il 10 febbraio è quel giorno dell’anno in cui l’Italia si ricorda di avere un confine orientale sancito definitivamente col trattato di Osimo del 1975 e, imbellettati i fascisti e tolto dal cassetto il gonfalone della X MAS, trasforma una narrazione strumentalmente confusionaria e parziale in memoria nazionale. Il Giorno del Ricordo, introdotto nel 2004 dal secondo governo Berlusconi sulla scia dell’istituzione della Giornata della Memoria, secondo la logica distorta dell’opposizione ai «due totalitarismi», rientra in un’operazione di riscoperta di una storia rimasta silenziosa nei decenni della Guerra fredda e recuperata dopo la caduta della Jugoslavia e dell’Unione sovietica.
Quest’anno, per la prima volta, a Trieste, c’è stata il 10 febbraio una manifestazione antifascista in piazza della Borsa, vicino alla statua di quel Gabriele d’Annunzio «anti-slavo, guerrafondaio, militarista e nazionalista della prima ora»: il presidio aveva come obiettivo proprio «rompere quel tabù che vuole che a Trieste quel giorno ci si debba chinare al revisionismo storico nazionalista di Stato». Fino a ora, non prendere parola il 10 febbraio aveva significato non legittimarne l’esistenza, non aumentarne visibilità; tuttavia, dopo quindici anni dalla sua istituzionalizzazione, l’attenzione al Giorno del Ricordo è tanto permeante da rendere necessaria una contro-narrazione. La manifestazione antifascista aveva lo scopo proprio di svelare i meccanismi che hanno reso egemonica una narrazione di parte (la narrazione fascista che si è fatta memoria di Stato): il gonfiamento del numero delle vittime senza ricorrere alla ricerca storica, la confusione tra il discorso sulle uccisioni sommarie (metonimicamente: foibe) e quello sull’immigrazione degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia (metonimicamente: esodo), la riabilitazione di fascisti e negazionisti sotto le spoglie di martiri delle foibe, la olocaustizzazione dei morti del confine orientale, cioè la legittimazione del paragone tra l’uccisione di qualche centinaio di persone e lo sterminio di milioni.
In breve, il Giorno del Ricordo – una manifestazione alla quale partecipano indistintamente tutti i rappresentanti delle istituzioni – permette, più di altre cose, di svelare un grande non detto della nostra cultura: la sostanziale coerenza ideologica tra tutti i partiti di governo, che corrisponde a una generale nazionalizzazione e destrizzazione del discorso repubblicano, in passato quantomeno accomunato dalla radice antifascista, sulla quale si innestavano le due grandi appartenenze. Esiste un secondo discorso, che altrettanto alligna nel confine orientale, e che allo stesso modo permette di svelare l’effettiva compattezza ideologica di tutti i partiti dell’arco parlamentare: si tratta del discorso sulle migrazioni. Se è vero che questo discorso è stato spesso usato dai partiti progressisti per differenziare un noi multiculturalista e accogliente da un loro reazionario e respingente, in realtà sussiste una totale continuità nella prassi politica, e in definitiva un accordo di fondo sull’esistenza dei confini, e quindi sull’idea che esistano vite più o meno meritevoli di attraversarli e che quelle meno meritevoli debbano essere respinte, in modo più o meno umanitario.
Morire di confine orientale
Negli ultimi cento anni, molte vite si sono inceppate sul confine orientale: i soldati ammazzati in guerra, le slovene e gli sloveni ammazzati dai fascisti, i partigiani ammazzati dai fascisti, i prigionieri triestini, friulani, istriani, sloveni e croati, ebrei bruciati nella Risiera di San Sabba, i morti del ’43 e del ’45, le persone in transito lungo la rotta balcanica. Ricordare chi è morto lungo la rotta balcanica, al confine italo-sloveno, permette di fare due cose: per primo, costruire un archivio migratorio delle morti via terra, seppellirne le spoglie nella memoria collettiva; e poi, analizzare a distanza come la narrazione di queste morti, e del flusso di persone in transito, è cambiata negli anni, come sono cambiate le azioni delle comunità di confine dove quelle persone si sono trovati a morire.
Nell’ottobre 1973, in piena guerra del Kippur, tre corpi venivano ritrovati in Val Rosandra (Dolina Glinščice) sul Carso triestino: erano i corpi di Seydou Dembele, 22 anni, Mamdor Niakhate, 19 anni, e Diambou Lassana, 27 anni, maliani, mentre qualche mese più tardi veniva rintracciato anche il corpo di Djibj Somaili, 25 anni, mauritano. Erano morti assiderati all’arrivo della rotta, dopo aver chiesto aiuto bussando alla porta di una casa isolata, che non gli era stata aperta. Quel giorno, «il Meridiano» – allora un quotidiano locale – scriveva che la morte di «tre negri del Mali in una mattina di freddo e bora in Val Rosandra» aveva portato «alla luce lo scandalo del lavoro clandestino: Trieste come punto di transito di braccia, di turchi e negri per la Francia e la Germania», mentre «cinquemila jugoslavi ogni giorno, lavorano, o rischiano senza protezione, senza contratti, senza speranza, nelle aziende e nei cantieri triestini». Come ricorda un articolo commemorativo del Primorski dvenik, quotidiano di Trieste di lingua slovena, per quei ragazzi morti a un passo dalla meta fu organizzato un funerale: «il triste corteo dei giovani del paese con le bare sulle spalle e delle ragazze, che li accompagnavano con mazzi di fiori, salì in silenzio verso il cimitero del paese [di Boršt] con una corona del Comune [di Dolina] davanti a ogni bara».
Diciotto anni più tardi, nel 1993, mentre la Jugoslavia sbriciolata viveva la tragedia della guerra civile e ondate di cittadini albanesi raggiungevano l’Italia via mare e via terra, nei boschi del Carso nella zona di Basovica – dove dodici anni più tardi sarebbe cominciata la giostra intorno al monumento della cosiddetta Foiba di Basovizza – morivano assiderati Pradeepan, 2 anni, Krishanthini, 4 anni, Yaliny Kanagaratman, 3 anni, e Mathura Ahila, 9 anni, cittadini tamil dello Sri Lanka che fuggivano dalla guerra civile (1983-2009). In quella stessa occasione, «l’Unità» commentava: «sparpagliati tra ospedali e una casa di esercizi spirituali dal nome beffardo, “Le Beatitudini”, sono rimasti 23 adulti e 10 bambini. Erano arrivati in 63. Ventisei, quelli che non si erano ammalati, sono già stati ricacciati in Jugoslavia»: seguivano interviste ai sopravvissuti, sulla Jugoslavia che avevano attraversato, sul loro futuro, sul genocidio tamil in Sri Lanka, sulle bombe di fattura italiana che si erano visti cadere addosso in Sri Lanka.
Il primo gennaio 2020, un cittadino marocchino è precipitato per venti metri in Val Rosandra, vicino al castello di Socerb (San Servolo), mentre tentava di passare dalla Slovenia all’Italia, insieme alla moglie e ad alcuni compagni. Il suo corpo senza nome è stato recuperato dai tecnici del Soccorso alpino della stazione di Trieste: non ne è seguito un funerale, tantomeno con un «triste corteo dei giovani del paese» e ragazze coi mazzi di fiori. La morte del marocchino senza nome è stato un evento imparagonabile alla morte dei quattro uomini del 1973: se per loro, ancora 35 anni dopo, il Comune di Dolina organizzava momenti celebrativi, il marocchino senza nome non ha avuto più di un articolo su «il Piccolo»: la sua morte a Capodanno non è stata eccezionale, si è inserita nella routine delle violenze della rotta, che già conosciamo come fatto di ogni giorno.

La rotta balcanica vista dalla stazione di Trieste
Oggi Trieste è il nome di una città italiana che tutte le persone in transito lungo la rotta balcanica – stipate nei campi bosniaci o serbi o in game nel territorio croato – conoscono: è la meta occidentale di quella rotta che parte dalla Grecia, dove in questi giorni la violenza dell’Unione Europea si manifesta ormai scevra di ipocrisie, e attraversa tutta la ex Jugoslavia. Trieste è punto d’arrivo per alcuni, è stazione di scambio per la maggioranza, che prosegue per l’Europa del nordovest: «le destinazioni principali sono Germania, Olanda, Svizzera, l’Italia è per lo più zona di transito, anche se molti si fermano», proprio come scriveva «l’Unità» nel 1991.
Nel 2019, le prefetture regionali hanno registrato 5.526 arrivi, che non tengono conto di chi attraversa l’Italia senza lasciare traccia; secondo la Questura di Trieste, nel 2019 è stato rintracciato «almeno il 50%» di persone in più rispetto al 2018, ma l’incremento di persone registrate non dice molto in realtà sul numero di persone che transitano. Il transito va a ondate, ma non si è interrotto da anni. Nel 2015, la Germania decise per ragioni economiche e propagandistiche di creare un «corridoio umanitario», di fatto per permettere alla classe medio-alta siriana di raggiungere il nord Europa attraverso un canale gestito dalle polizie; nel 2016, l’accordo tra Ue e Turchia segnò la chiusura formale della rotta, costringendo le persone a chiedere asilo in Grecia per evitare la deportazione; tuttavia, la rotta non è mai stata davvero abbandonata, ri-aggiustandosi ogni volta in base alle decisioni dei Paesi balcanici in termini di gestione delle frontiere, e i suoi numerosi confini non sono mai stati impermeabili.
Vista dall’Italia, la rotta balcanica è oggi una questione migratoria che non esiste. Non se ne parla nel dibattito politico e gli arrivi via terra non vengono nemmeno menzionati nell’ultimo dossier del Viminale: per la retorica anti-immigrazionista della destra sarebbe troppo pericoloso ammettere la porosità senza appello del confine orientale, che è intrinsecamente molto più incontrollabile dei porti italiani; i partiti di governo tendono invece a silenziare strumentalmente qualsiasi discorso sulle questioni migratorie, proseguendo le prassi del governo precedente, a fronte di una moderazione dei toni per compiacere parte del proprio elettorato. La sfera mediatica – e anche quella della società solidale – si ricorda a sprazzi dell’esistenza della rotta, e ne parla come di una questione confinata ai Paesi balcanici, e non come di un fenomeno che è qui, in quanto tocca Trieste, e nel quale l’Unione europea ha responsabilità dirette (e non indirette, come in Libia) nel massacro quotidiano dei profughi per mano delle polizie balcaniche. In breve, quella retorica emergenziale e spettacolistica che investe la narrazione degli sbarchi nel Mediterraneo, per quanto essi stessi siano un fenomeno costante e strutturale, non tocca invece le migrazioni attraverso il confine orientale.
A Trieste, intanto, la rotta balcanica è una questione ormai normalizzata, una costante quotidiana: le persone in fila in Questura, di fronte al Teatro romano, le persone sulle panchine di piazza Libertà, che si fanno medicare i piedi da un gruppo di volontari/e, i vestiti abbandonati sui sentieri del Carso sono diventati, negli anni, quasi arredo urbano. È raro che qualcuno si vòlti quando per strada cammina un gruppo di uomini pachistani con le scarpe rotte: se un fenomeno non viene raccontato come emergenziale, allora succede che si fa come se non ci fosse. Nel frattempo, le conseguenze delle decisioni dell’ex ministro degli Interni stanno portando allo smantellamento del sistema di accoglienza triestino, e al peggioramento delle condizioni di vita di chi ci lavora o vive dentro.
Trieste tuttavia, mostrandosi indifferente, ha un ruolo attivo: fa parte della catena dei respingimenti delle polizie balcaniche, proprio come il suo territorio appartiene geograficamente ai Balcani: nell’estate 2018, alcune persone hanno denunciato pubblicamente di essere state respinte da Trieste, e anche quest’anno sono emerse altre testimonianze di respingimenti illegali dall’Italia. Inoltre, gli accordi tra Italia e Slovenia e l’ingaggio di alcune pattuglie miste per la perlustrazione del confine hanno puntato – più teoricamente che nella prassi – a coordinare le polizie lungo la rotta per respingere collettivamente e illegalmente le persone, da Trieste fino in Bosnia-Erzegovina.
Non si può parlare di arrivi senza parlare di partenze
L’estate scorsa, il governatore leghista, Massimiliano Fedriga, lanciava il progetto di costruire un muro sul confine italo-sloveno, su modello di Viktor Orbán, e annunciava – ritrattando presto – la chiusura di Schengen, in un territorio in cui passare il confine significa risparmiare sul pieno o camminare sul Carso. Più di tutto, quasi a voler fare del Friuli-Venezia Giulia una regione sperimentale dal punto di vista della repressione del fenomeno migratorio, Fedriga proponeva l’apertura di un Centro permanente per il rimpatrio (Cpr) in ogni provincia, in aggiunta a quello di Gradisca d’Isonzo (GO), da dove a gennaio 2020 usciva la notizia della morte di Vakhtang Enukidze, un cittadino armeno, morto dopo aver subito un pestaggio da parte delle guardie del Cpr.
Un Cpr è un centro-minaccia: il suo scopo è recidere le esperienze di migrazione e di vita europea di centinaia di persone e insieme ricattare tutte quelle che vivono in Italia con un permesso di soggiorno. Un Cpr è una linea di confine dentro lo Stato: la sua presenza a meno di un’ora dal punto di arrivo della rotta balcanica è quasi un totem a guardia dell’Europa, una minaccia tangibile per chi arriva e deve meritarsi la permanenza, e insieme un monito per chiunque ragioni politicamente di migrazioni e provi ad agire nel presente: non c’è aiuto umanitario in Grecia, in Bosnia, in Marocco che possa permettersi di non tenere conto che ogni viaggio migratorio rischia di finire in un respingimento.
Non c’è aiuto umanitario se non l’abbattimento dei confini.