Quale ecologia?

Le cause della crisi ecologica da una prospettiva eco-femminista e postumana.

eco-femminismo
Foto di Nacho Yuchark tratta da lavaca.org

Basta guardarsi intorno, accendere la televisione all’ora di un telegiornale o cercare le ultime notizie riguardanti lo scioglimento dei Poli o l’invasione di cavallette che sta flagellando il Corno d’Africa in questi giorni per rendersi conto che gli effetti del cambiamento climatico si stanno già verificando attorno a noi, spesso molti anni prima di quanto fosse stato previsto. Tuttavia, nel momento in cui bisogna risalire alle cause di una devastazione tanto grande, che ci pare quasi condannare all’impotenza e alla catastrofe, ci troviamo davanti a un compito più arduo e meno immediato. Il periodo storico in cui ci troviamo ha catapultato il mondo naturale e non umano all’interno di una categoria che prima gli era stata negata: la politica. Come il sociologo Bruno Latour ha evidenziato in molti suoi lavori, per citarne uno Cogitamus, la natura è diventata argomento di dibattito e lotta politica in maniera molto più sentita e urgente rispetto al passato. Come un meccanismo di cui prima si dava per scontato il funzionamento, ora che si sta rompendo ci si comincia ad accorgersi della sua esistenza e importanza. Ma su cosa bisogna intervenire? Quali aspetti teorici devono stare alla base della prassi ecologista?

Il lavoro svolto da alcune filosofe contemporanee e altri autori che potremmo definire talvolta postmoderni, altre volte postumani, ci permette di individuare dei punti fondamentali che devono essere posizionati al centro della riflessione ecologista. Ci sono infatti dei termini che devono entrare nel vocabolario dell’ecologismo classico per cercare di porre delle linee di confine ben chiare tra ciò che è ecologismo e ciò che è invece ambientalismo; tra le teorie (e pratiche) che intendono cambiare alla base un sistema che produce diseguaglianza e povertà e invece i metodi di contenimento della catastrofe, che intendono solamente tamponare il problema.

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Foto di Nacho Yuchark tratta da lavaca.org

Il primo termine che bisogna imparare a usare, e definire, è sicuramente “eco-femminismo”. Non esiste ovviamente un’interpretazione univoca di questa parola, tuttavia viene generalmente usata per definire l’intersezionalità tra la lotta ecologista e le istanze femministe. Alcune autrici, come Greta Gaard, Carol Adams e la più famosa Donna Haraway, si sono infatti interrogate sulla crisi climatica appoggiandosi sulle basi teoriche del femminismo classico. Da questa unione teorica, se così possiamo chiamarla, sono nate diverse riflessioni di notevole importanza: quella che sicuramente risulta essere la più importante consiste nell’individuazione nella società capitalista occidentale, o meglio nei suoi rapporti interni violenti e gerarchici, la base dello sfruttamento del mondo naturale. Questi rapporti deriverebbero dal patriarcato, il quale organizza e mantiene l’ordinamento della società tramite l’esclusione, prima delle donne e poi delle soggettività non umane. Si tratta di una teoria già formulata da Murray Bookchin, che nel suo testo L’ecologia della libertà imputa allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo la causa dello sfruttamento del mondo naturale.

Questa riflessione è di capitale importanza per comprendere che la catastrofe ecologica a cui stiamo andando incontro, spesso attribuita all’irrazionalità umana, deriva invece da determinati rapporti di potere e gerarchie che non sono imputabili all’intera umanità. Per questo motivo molte autrici ecofemministe preferiscono non utilizzare il termine Antropocene, il quale presupporrebbe un’uguale ripartizione di colpa fra tutti gli appartenenti alla specie umana, anche per chi sta alla fine delle gerarchie di potere.

Un secondo termine che a questo punto viene utile definire è quello di “dominio” sulla natura. Abbiamo visto come la crisi climatica derivi da una funzione di dominio gerarchico della struttura patriarcale sulle donne e sulla natura. Mentre il primo tipo di dominio è sicuramente più comprensibile, risulta a volte poco comprensibile il secondo. Come si può infatti dominare la natura, dal momento che si tratterebbe di un soggetto astratto e troppo vago? L’autrice Chaia Heller, nel testo For the Love of Nature, fornisce un’interessante chiave di lettura a proposito: la natura viene spesso rappresentata come un soggetto unitario, idealizzato, universale e femminile; Heller la definisce addirittura “l’ultima donna platonica”. Al contrario la natura è composta da una molteplicità di soggettività, nei confronti delle quali è possibile esercitare un dominio e una violenza. Carol Adams esplica questo concetto nel suo testo The Sexual Politics of Meat: l’oppressione si esercita nel ciclo di oggettificazione, frammentazione e consumo (si tratta di un processo che secondo l’autrice riguarda sia le donne che gli animali). Nel primo stadio la soggettività non umana diventa un oggetto, perdendo il suo statuto di soggetto; nel secondo stadio avviene una separazione definitiva tra questo oggetto e la sua finalità e nel terzo e ultimo stadio viene assegnato un nuovo scopo, del tutto subordinato agli usi e desideri di chi lo domina. In questo noi possiamo dire che dominiamo la natura, in quanto sostituiamo le finalità proprie delle singole entità non umane con le finalità che noi attribuiamo loro.

Foto di Nacho Yuchark tratta da lavaca.org

Questo processo ha alla base il non riconoscimento dello statuto di soggetto politico, sociale e morale di alcune determinate categorie. A questo punto pare chiaro come il problema derivi dalla costituzione di un soggetto escludente, che fonda la sua identità sull’esclusività tutta umana di poter essere considerato appunto soggetto. Il termine filosofico che ci aiuta a comprendere questo concetto è “carno-fallogocentrismo”. Si tratta di un termine chiave nella riflessione del filosofo francese Jacques Derrida. Compare nel testo Il faut bien mangere riassume tre concetti fondamentali individuati dal filosofo all’interno della costruzione del soggetto umano. Il primo è il consumo di carne, da intendere non solo a livello letterale: il soggetto umano per esistere deve consumare l’altro, ciò che considera solamente un oggetto. Gli altri due concetti fondamentali consistono nell’attribuire lo statuto di soggetto solamente a chi è in grado di esercitare il logos, da intendere come la razionalità tipicamente umana, e la centralità dell’uomo maschio cisgender eteronormativo all’interno della definizione del soggetto umano. Come vediamo, lo statuto di soggetto resta totalmente chiuso per tutte le soggettività non umane e parzialmente aperto per soggettività umane che non sono alla sommità della catena gerarchica patriarcale e capitalista. Per Derrida questo tipo di soggetto, questa sua definizione, corrisponde intrinsecamente al concetto di dominio.

Un ulteriore concetto che si può ricavare da queste riflessioni corrisponde all’antropocentrismo. La catastrofe climatica a cui si va incontro ha come causa principale la costituzione e la costruzione di un mondo a misura d’uomo occidentale, il quale tuttavia per esistere deve fondarsi sull’esclusione e la marginalizzazione sia all’interno della società che al suo esterno.

Una riformulazione del significato di soggetto più aperta e inclusiva risulta dunque essere di vitale importanza per cercare di costruire un’ecologia politica inclusiva, intersezionale e non escludente. La questione animale diviene quindi centrale, dal momento che gli animali sono la soggettività non umana per eccellenza. La filosofia occidentale si è spesa nei secoli per dimostrare la legittimità di tenere le soggettività animali all’esterno del concetto di soggetto. Solamente nell’epoca post moderna si è cercato di invertire la tendenza, si pensi ai lavori di Lyotard o Lèvinas. Cary Woolf, autore postumano, dimostra tuttavia come si sia trattato di un’apertura solo teorica e non etica. Come afferma nel suo testo Animal Rites, solamente quando si aprirà l’orizzonte etico anche al mondo non umano si potrà avere un soggetto fondato sulla molteplicità e inclusività, non violento e gerarchico e quindi non caratterizzato dal dominio sul mondo naturale. Il primo passo per raggiungere questo obiettivo consiste nel ripensare il ruolo del soggetto umano nell’ecosistema e problematizzare tutte le sue caratteristiche auto conferite. Si potrebbe affermare che è necessario un salto nel buio da parte del soggetto umano, in cui l’unica certezza è che non si tratterà sicuramente di un lavoro semplice e immediato.

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