Alle radici del lavoro invisibile: il lavoro delle donne

In collaborazione con I racconti del lavoro invisibile, una riflessione sull’architettura del lavoro femminile come archetipo dell’architettura della quotidianità contemporanea.

Per raccontare il lavoro invisibile nel presente è necessario posizionarsi tra i pieni e i vuoti di una narrazione sul lavoro che sta a cavallo tra la retorica del discorso pubblico e le analisi più o meno lucide degli ultimi vent’anni. Una narrazione che ha costruito l’immaginario del lavoro e della sua trasformazione, senza mai decretarne la fine: dal lavoro al centro del disegno costituzionale, come presupposto di cittadinanza piena, fino alle riforme del mercato del lavoro nel nome della flessibilità e del dettame europeo (vedi jobs act); dalla promessa della piena occupazione, pilastro dello stato sociale, fino alla disoccupazione crescente raccontata in numeri e indicizzata sui generi e sulle generazioni.

Posizionarsi significa riconoscere il confine tra cosa è considerato lavoro e cosa non lo è, in quei vuoti che lasciano uno spazio di azione e di pratica. Le vite le troviamo lì, a tenere in piedi lo stato sociale, a inventare strategie di libertà e reti di condivisione, a sostenere con le esperienze i numeri del lavoro che scompare.

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Riconoscere il lavoro che lavoro non è, nominarlo, farlo esistere, renderlo visibile e farne una questione politica, è stata una delle fortune del femminismo, per citare Nancy Fraser. Rivolta Femminile nel 1974 scriveva: «Noi identifichiamo nel lavoro domestico non retribuito la prestazione che permette al capitalismo, privato e di Stato, di sussistere». Perché il lavoro invisibile per eccellenza, il lavoro domestico e di cura, è sempre stato delle donne, un lavoro non riconosciuto, naturalizzato e svalorizzato. La rivoluzione femminista ha messo in discussione alla radice il sistema sociale patriarcale fondato sulla famiglia e sul soggetto sociale universale: il lavoratore, maschio, bianco, operaio, a tempo indeterminato. Ha messo in scacco la dicotomia dipendenza/indipendenza che era alla base dell’occultamento e della svalutazione del lavoro delle donne e a loro ha aperto lo spazio pubblico e, in maniera massiccia rispetto al passato, il mondo del lavoro.

Con l’ingresso in massa delle donne nel mercato del lavoro si comincia a parlare di un modo di produzione femminile, orientato alla riproduzione della vita umana e dei rapporti sociali: l’orientamento ai bisogni e alla cura delle persone, un comportamento espressivo e non strumentale, il sostegno affettivo, l’immaginazione e la fantasia, la spontaneità, l’orientamento all’ordine della casa, al corpo, alla soddisfazione del desiderio, caratteristiche legate al lavoro domestico delle donne. È proprio questa specificità dell’esperienza femminile del lavoro, che si muove in un contesto di rivalutazione dell’apporto delle donne alla creazione del benessere umano, a essere al centro degli studi di quella che, negli anni Novanta, viene definita femminilizzazione, della società e del lavoro.

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«Negli ultimi trent’anni questi studi hanno fatto vedere che là dove l’inserimento delle donne non ha cancellato la differenza sessuale, là dove questo inserimento non è stato solo omologazione con il modello maschile, là dove le donne hanno potuto rendere significativa la loro cultura del lavoro, là si sono sviluppate modalità di lavoro e valori che possono rappresentare alternative reali all’attuale organizzazione del lavoro: forme orientate non solo alla produttività a ogni costo ma ai bisogni umani, alla cooperazione, alla capacità comunicativa e agli aspetti relazionali» (Borderias 2000, p. 134). Si intravede la possibilità di trasformare il mondo del lavoro stesso, a partire dalle esigenze, differenti, delle donne, da quel “di più” che possono “portare al mercato”: competenze, attitudini, capacità acquisite per genealogia, l’eccedenza del saper fare e del progettare, «la predilezione femminile per non separare il sapere fare il pane (e provarne piacere) e il saper fare filosofia, fare simbolico (e provarne piacere)» (Buttarelli 1997, p. 102).

Una rivoluzione inattesa – mossa dalla spinta a voler far parte di un contesto produttivo senza separarlo da quello riproduttivo – che si è irrimediabilmente incrociata e scontrata con le politiche liberiste di deregolamentazione del mercato del lavoro e di inclusione delle differenze, che hanno messo al lavoro la vita intera, di donne e uomini, in un modello del lavoro contemporaneo che assume come materie prime il corpo, il desiderio, il tempo. Cristina Morini la chiama «l’era della (ri)produzione sociale forzata»: «un meccanismo esplicitamente produttivo che il femminismo ha già da tempo molto ben individuato, anche se solo nella contemporaneità si esplica in tutta la sua evidenza critica, dovendo diventare finalmente terreno dell’analisi generale».

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Terreno di analisi generale perché oggi la condizione di esclusione dal lavoro formale diventa condizione di tutti: una condizione materiale del lavoro, che le donne hanno vissuto storicamente, che è un interregno tra il “non ancora” – le politiche di inclusione che vogliono le donne aderenti al modello maschile – e il “non più” – la crisi di quel modello e del nesso lavoro-cittadinanza (Simone 2013). Quello a cui stiamo assistendo è la rottura del meccanismo della cittadinanza: il sistema di diritti legati al contratto che decretavano la cittadinanza piena di chi era nel lavoro formale all’epoca del fordismo, ha lasciato il posto a un “di meno” di cittadinanza per tutti, nell’era post-fordista del lavoro precario e individualizzato, con una netta diseguaglianza sociale tra chi ha un lavoro garantito, e i diritti che questo porta con sé, e chi non ce l’ha e non lo avrà mai.

Eppure, che il lavoro ci sia o no, siamo tutte e tutti al lavoro, con una quantità di lavoro invisibile non riconosciuto (che non dà diritti), non retribuito (che non dà reddito), non valorizzato (che non dà riconoscimenti), così invasivo che spesso siamo noi stessi a farci preda degli apparati biopolitici contemporanei, non distinguendo più il lavoro dalla vita: sempre disponibili, sempre connessi, senza tempo, quel “tempo per sé” che permette di costruire un tempo sociale e politico di condivisione, di confronto, di conflitto. Quello che si può fare è nominare e distinguere: capire cosa impedisce di mettere i confini netti allo spazio del lavoro (Diversamente occupate 2013).

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Negli ultimi anni molto è stato pensato e detto attorno al lavoro, in un movimento altalenante di rivendicazione e proposta, a tratti orfano di una coscienza collettiva sul lavoro. Quello che si è tentato di fare è stato ridisegnare i contorni di un soggetto politico attorno alle condizioni di precarietà lavorativa e di vita, contorni che hanno rotto i luoghi di lavoro (spesso isolati) irrompendo nelle città, nei luoghi pubblici, misurandosi su modalità differenti di contrattazione. Un percorso in cui le donne hanno avuto una voce autorevole che ha parlato a tutti, a partire dalla loro esperienza di dentro-fuori dal mercato del lavoro, elemento ricorrente nella storia del lavoro femminile, e dalla libertà di un soggetto “a margine”, mai pienamente incluso e aderente al sistema del lavoro.

Pensare che sia possibile avere e darsi possibilità, spazi di libertà, senza passare per lo scambio economico, ma attivando altre forme di scambio, di relazioni, di spazi condivisi è il concetto che è alla base della rivendicazione di un sistema di diritti sganciato dal lavoro: il diritto all’abitare, all’istruzione, alla mobilità, alla cultura, alla salute, ma anche il diritto a un reddito di base e a un tempo fertile sottratto alle regole della produzione, un tempo generativo. Un percorso che ridice cosa è economia e cosa è società, che ridisegna i contorni di un welfare che si sta sgretolando ma che, ancora oggi, si regge sul lavoro di cura delle donne: reddito di autodeterminazione (Forenza 2013), diritto universale alla maternità (Diversamente occupate 2013), collettivizzazione dei carichi del lavoro materno, domestico e/o di cura (Melandri 2014), riappropriazione della dipendenza, dell’interdipendenza e della relazione (Giardini, Simone 2015).

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Analisi che distinguono il lavoro dalla vita e nominano strategie di uscita dalla (ri)produzione forzata, che si accompagnano alle narrazioni, le immagini, i corpi, le strategie messe in campo dai soggetti che sul lavoro invisibile o invisibilizzato costruiscono le loro vite e sperimentano nuove forme di auto-organizzazione, a un costo, va detto, altissimo in termini di frustrazione, depotenziamento, stanchezza, povertà.

Il femminismo degli ultimi anni ha riportato l’attenzione sulle condizioni materiali delle vite, ripensandole a partire dal (non)lavoro e dalle sue trasformazioni più recenti, riconoscendo, ancora una volta, che il di più che portiamo al lavoro, la cura dei luoghi e delle relazioni, è l’ammortizzatore che permette al sistema neoliberista di perpetuarsi, ma è anche una fedeltà a se stesse, un’autenticità (Femministe Nove 2013). Quello che serve, e che forse ancora manca, è un immaginario collettivo su cosa è oggi il lavoro e cosa vogliamo che sia, sulla qualità di questo lavoro, sulle energie, la forza e i desideri che (non)ci mettiamo.

Raccontare il lavoro invisibile di oggi, dentro e fuori i confini sfumati del pubblico e del privato, provare a dargli una forma, un’immagine, un suono, un corpo, significa di nuovo nominare e distinguere: renderlo riconoscibile, assegnargli un valore, innanzitutto per noi. Trovare e darsi la misura, per riconoscere l’oppressione e l’(auto)sfruttamento, ma anche il piacere di “fare un buon lavoro” e “mettere al mondo qualcosa”. Per iniziare a colmare i vuoti. Per ritrovare un tempo del lavoro né determinato né indeterminato, ma autodeterminato.

 

Note bibliografiche

Borderias, Cristina (2000) Strategie della libertà. Storie e teorie del lavoro femminile, manifesto libri, Roma

Buttarelli, Annarosa (1997) “Lavorare radicalmente” in AA.VV., La rivoluzione inattesa, Pratiche

Diversamente occupate (2013) “Diritto universale alla maternità. La misura di un corpo che si espande cittadinanza” in Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro, a cura di Sandra Burchi e Teresa Di Martino, Iacobelli, Roma

Femministe Nove (2013) “Manifest@F9” in DWF n. 98 

Forenza, Eleonora (2013) “Libertà precarie e reddito di autodeterminazione” in Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro, a cura di Sandra Burchi e Teresa Di Martino, Iacobelli, Roma

Fraser, Nancy (2014) Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista, Ombre Corte, Verona

Melandri, Lea (2014) “Intervista” in Anna Simone, I talenti delle donne. L’intelligenza femminile al lavoro, Einaudi, Torino

Simone, Anna (2013) “Nuovi universali. Cittadinanza senza lavoro/lavoro senza cittadinanza” in Come un paesaggio. Pensieri e pratiche tra lavoro e non lavoro, a cura di Sandra Burchi e Teresa Di Martino, Iacobelli, Roma

Rivolta Femminile (1974) Manifesto, Scritti di Rivolta Femminile, Milano

Morini, Cristina (2015) Dall’etica sacrificale della crisi al soggetto imprevisto? 

Simone, Anna e Federica Giardini (2015) La riproduzione come paradigma. Elementi per una economia politica femminista 

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