Ho aspettato qualche giorno per seguire dalla soglia l’evoluzione della discussione che ha preso piede in coda al prezioso post di Eve Blisset che abbiamo pubblicato martedì scorso.
Ora mi sembra che la piega presa dagli commenti in calce al post sia tale da consentirmi di muovere una perplessità che necessita di uno spazio indipendente.
Silvia Jop @silfix
Mi stupisce che l’intero scambio tra le persone intervenute si sia focalizzato praticamente solo e interamente sulla qualità e la potenziale funzione / se non potenziale rischio / delle serie televisive che stanno ridefinendo – affollandolo – sempre di più il nostro immaginario contemporaneo traducendosi in vincolanti contaminazioni delle pratiche quotidiane.
Certo, si tratta di un argomento di denso interesse che merita senza dubbio di essere continuato e sviscerato e, a questo punto – palesando un invito al confronto costruttivo – inviterei anche le amiche e gli amici di 404: file not found a intervenire nel dibattito, dato il loro interesse sempre più strutturato rispetto a quest ambito e questo linguaggio della narrazione contemporanea.
Trovo però sintomatico il fatto che nessuna o nessuno abbia sollevato pienamente la manchevolezza del sistema formativo universitario che, tra le righe di Eve Blisset, emerge in modo dirompente.
La questione centrale infatti a mio avviso è proprio il vuoto culturale che abita a pieno diritto gli spalti della formazione in medicina e, nello specifico, di quella in psichiatrica.
La pervasività di stimoli esterni, quali possono essere ad esempio quelli che hanno fatto da pretesto narrativo per l’articolo di Eve Blisset (le serie televisive), vanno a poggiarsi su un piano che li precede e finiscono per inserirsi tra i buchi – spazi che dir si voglia – che caratterizzano quello stesso piano.
Ricordo qualche tempo fa di aver sfogliato uno di quei libroni pieni di test per prepararsi all’esame di ammissione alla facoltà di medicina.
Una delle domande che trovai più balzana, relativa a materie di ordine psichiatrico, recitava più o meno così:
“Quali sono gli elementi che denotano un disagio psichico conclamato in un individuo?”
E la risposta giusta (costituita ovviamente da una misera striscia di parole in fila che andava crocettata) era la seguente: “Barba incolta – qui si potrebbero poi aprire mille parentesi sull’ennesima grave rimozione a cui la donna viene sottoposta –, vestiti macchiati, aria trasandata“.
Ecco, trovo che in questa manciata di righe si possa trovare piena sintesi della disarmante manchevolezza di un approccio formativo che, dedito all’implementazione progressiva del fronte farmacologico e organicistico (del quale non nego utilità e importanza), sostituisce una serie di prospettive altrettanto necessarie, con la diffusione / e complice costruzione / di una retorica stigmatizzante.
La medicina, e nello specifico la psichiatria, sono discipline in cui la relazione ha un ruolo fondativo. E, come per un insanabile paradosso dal quale invece dovremmo riuscire a emanciparci, finiscono per incarnare alcuni degli approcci più violentemente reificanti che caratterizzano la nostra cultura.
Ma non è un caso che questo accada.
La reificazione dei corpi e dei loro disagi infatti consente l’esercizio di un potere, quello medico, che mette al riparo dal terreno del dubbio, della contraddizione, dal rischio della perdita del sè che, come per ogni relazione che si dica degna d’esser tale, si affaccia nel momento del confronto.Proprio il conflitto, cioè ogni relazione che ponga problemi, diritti, attriti, difficoltà, sul piano del potere (quindi i conflitti di potere e di interesse tra il malato e la famiglia, il medico e il paziente, l’adulto e il giovane, il paziente e lo scolaro, fra l’uomo e la donna, l’individuo e la società) non più utilizzato per cancellare il polo più debole e incapacitarlo, può diventare fonte di conoscenza reciproca, di cambiamento, di ulteriore comprensione e modifica di sé e dell’altro. […] Nell’accettazione dell’altro e nel conflitto che produce, c’è sempre il rischio della perdita di sé quando il ruolo – qualunque esso sia – non ti difende più, non ti ripara più, non ti copre. Ma è questa uscita dal ruolo, pur giocandolo, che consente di passare da una domanda all’apertura di un’altra domanda qualitativamente diversa[1].
Alla luce dei fatti, appare evidente come la parte più sostanziale del mondo accademico della medicina e di conseguenza il sapere medico istituzionale, hanno perso a più riprese la possibilità di evolvere la qualità del loro tessuto costitutivo sottraendosi proprio a questo rischio di perdita di sé, del proprio potere simbolico e culturale.
Negli ospedali di oggi dunque, continua ad accadere che un uomo malato di diabete finisce per essere il diabete stesso, una donna con problemi di schizofrenia finisce per essere la propria scissione, un bambino particolarmente vivace, un eccesso di energia che va rimossa, e via così…
L’approccio dominante nelle Università di Medicina in Italia e, ancora una volta, nelle specialità di Psichiatria, hanno teso quindi nei decenni a mantenere intatto il loro status quo rendendo quasi inaccessibile l’entrata a riflessioni scardinanti sviluppatesi nel tempo e volte alla riqualificazione delle discipline stesse.
Se infatti è stato dato spazio nuovo all’idea della centralità della relazione come però mera retorica del politicamente corretto, alcune tra le esperienze più fondamentali che hanno attraversato gli Stati Uniti e l’Europa dalla metà degli anni sessanta alla fine degli anni settanta, sono state, nella maggior parte dei casi, estromesse.
Le analisi critiche sviluppate in America da Thomas Szasz, le comunità terapeutiche inglesi avviate da Ronald D. Laing e David Cooper, la filosofia politica di Michel Foucault e le analisi filosofico/psicanalitiche di Félix Guattari e Gilles Deleuze in Francia, il movimento rivoluzionario di psichiatria alternativa avviato da Franco e Franca Basaglia in Italia, sono patrimoni tendenzialmente rimossi dal percorso formativo di chi ha studiato e studia Psichiatria in Italia.
Si tratta infatti di contaminazioni che trovano spazio recintate magari nei manuali di storia della psichiatria dove abbondano i pressapochismi, oppure nei corsi monografici che qualche professore “illuminato” decide di proporre alle proprie studentesse e ai propri studenti.
Ma non si tratta di un sapere che è riuscito a permeare integralmente l’epistemologia istituzionalizzata del sapere che è andato a scardinare per rifondare, riqualificandolo.
Per avere un’idea un po’ più pratica della capacità di rimozione esercitata dal dispositivo culturale di cui l’accademia si è avvalsa, può essere d’aiuto provare a nominare alcuni dei passaggi che a mio avviso sono centrali per riconoscere ad esempio, la rimozione della cultura prodotta in Italia dal movimento basagliano di psichiatria alternativa.
La prima neutralizzazione è infatti avvenuta sul piano della “materia”. Va in prima istanza considerato che il presupposto della lotta che Basaglia avviò nei confronti dell’istituzione totale manicomiale affondava le radici nella messa in discussione della verità assoluta attribuita all’ontologia della scienza medica. Per la prima volta si diceva che il luogo e la parola “manicomio” contenevano il significato del luogo e della parola “lager” anziché della sostanza “cura”. Si affermava che il protocollo medico era in realtà uno strumento di controllo e coercizione su un soggetto che, malato, finiva per essere oggettivato nel malessere di cui era portatore e così negato. Si denunciava la colpevolezza di un abuso di potere che si era travestito da verità inviolabile: quella della medicina. Un medico, direttore di un manicomio, funzionario del consenso e di conseguenza partecipe di un’egemonia radicata nella nostra cultura al punto da essere stata naturalizzata, denunciava l’ontologia di cui era partecipe, l’egemonia di cui era funzionario, il potere di cui era portatore. La risposta che venne dal mondo accademico/istituzionale della scienza medica consistette nella rimozione di un confronto e nella neutralizzazione disciplinare delle idee e delle pratiche basagliane. Basaglia fu quindi bollato come filosofo, come antimedico, come poco scientifico. Fu neutralizzato, allontanato, rimosso. Inoltre, a causa della parcellizzazione dei saperi che ha sempre caratterizzato la nostra cultura, da molti scienziati sociali l’esperienza di demanicomializzazione venne osservata solo da lontano. Perché sembrava un’esperienza tutta medica, tutta settoriale, tutta psichiatrica. Furono in pochi quindi – e i più oltretutto solo a ridosso degli anni settanta – a raccogliere la complessità e il significato politico-sociale dell’esperienza che si stava consumando e diffondendo lungo la penisola. La storia che scriveva la fine dei manicomi veniva scritta quindi in un libro che non sarebbe entrato nelle accademie perché non apparteneva a nessuna disciplina.
Inoltre va considerato che al centro delle lotte che andavano sviluppandosi per l’Italia degli anni settanta, la contraddizione primaria aveva sede nella fabbrica in cui la relazione tra egemonia e subalternità era letta in termini di classe: “padroni” e “proletari”. La fabbrica e i campi coltivati erano quindi i luoghi della lotta. Di conseguenza il manicomio a molti sembrava un luogo marginale, una dimensione che nulla aveva a che vedere con le necessità che l’ideologia dell’epoca aveva delineato.
Questa, tra altre, una delle storie che penso dovremmo impegnarci a ricostruire per renderci conto di come molti dei saperi e delle scienze che conosciamo come “esatte” in realtà nascondono una mole di rimozioni che abbiamo il dovere e il diritto di svelare.
Analizzare la struttura dei percorsi formativi è un punto di partenza davvero importante e ad ora ancora troppo poco indagato. I contributi che abbiamo chiesto a Eve Blisset che verranno raccolti in “L’istruzione negata: rapporto periodico sulla psichiatria da una facoltà di medicina italiana” sono proprio un passo in questa direzione.
Note
[1] Franca Ongaro Basaglia, in occasione del conseguimento della {Laurea Honoris Causa} conferitele dall’Università di Scienze Politiche, Sassari 2001.