Sono trascorsi trentacinque anni da quando Roberto Rossellini posizionò la macchina da presa nel cuore della città di Parigi, per documentare l’apertura del Centre National d’Art et de Culture Georges-Pompidou e i lavori del grande cantiere tra il quartiere del Marais e il Forum des Halles: il centro commerciale che sarebbe stato inaugurato nel 1979 da Jacques Chirac.
Francesco Zucconi
Trentacinque anni è il tempo di un restauro, o almeno di un restyling. Già da qualche anno, infatti, tre grandi gru sono attive sulle macerie delle vecchie Halles di Chirac, mentre le nuove Halles volute dal sindaco di Parigi Bertrand Delanoë sono previste per il 2016.
Sul Pompidou, progetto architettonico esuberante e dagli alti costi di manutenzione, invece, neppure una gru, nessuna impalcatura, nessun operaio a lavoro. I turisti in coda dal mattino presto su Place Pompidou; i frequentatori della biblioteca in coda all’ora di pranzo sull’ingresso di Rue Beaubourg. I signori vestiti con l’impermeabile blu che chiedono ai turisti di aprire la borsa; i turisti che guardano i tubi azzurri, rossi, gialli e verdi e, ancora, gli sembra il futuro.
Eppure qualcosa è cambiato, il restyling dei trentacinque anni sembra essere avvenuto, o almeno è stato dichiarato. Negli spazi pubblicitari presenti nelle linee metropolitane della città si trovano infatti manifesti come questo:
Anziché rinnovare gli spazi o riverniciare i tubi di nuovi colori, il Centre Pompidou ha messo “tutta l’arte moderna e contemporanea su internet”, ovvero ha messo in linea un catalogo di più di settantacinquemila riproduzioni di opere accessibili gratuitamente ed ha elaborato una piattaforma attraverso la quale gli utenti del sito sono invitati a creare nuovi percorsi nel patrimonio storico-artistico.
Il Centre Pompidou Virtuel si dichiara interessato a valorizzare i processi di intelligenza collettiva, ma l’operazione non sembra aver convinto proprio tutti e su alcuni blog francesi si è sviluppato un dibattito sull’effettivo orientamento politico ed economico di un’operazione culturale come questa. Come è stato notato, non sembrano infatti esser ben chiare (o volutamente oscure) le modalità di trattamento e di appropriazione da parte del Centro dei contenuti immessi volontariamente e gratuitamente dagli utenti.
La struttura sembrerebbe dunque “aperta”, nel senso che si può entrare dappertutto e implementare gli spazi. A restare tuttavia chiusa sarebbe invece la “stanza dei bottoni” dove tali implementazioni sono processate e messe a profitto secondo criteri stabiliti dall’istituzione stessa. Ciò che sembra open è molto spesso soltanto user generated content[1].
Il restyling web tiene dunque fede a quella visione che negli anni Settanta portò il presidente della Repubblica francese Georges Pompidou a progettare nel centro della città di Parigi uno spazio in cui l’“alta cultura” e la “cultura popolare” potessero incontrarsi senza perdere di vista la dimensione commerciale?
Si tratta di una traduzione web dell’ideologia costitutiva del Centro (fedele nel riprodurne anche i limiti) o di una deriva? Trasformando la filosofia dell’open in una strategia di marketing, il Pompidou si sta trasformando nelle nuove Halles? O si tratta forse di un primo tentativo per sviluppare la dimensione social nel campo delle arti visive?
Rossellini posò uno sguardo severo sul progetto culturale nato dalle macerie del Beaubourg e le istituzioni francesi risposero con il mancato apprezzamento del film: invero non ancora portato a termine quando il maestro morì nel giugno del 1977 a Roma.
Forse, però, neppure lo sguardo veggente di Rossellini – che nel suo Beaubourg, centre d’art et de culture Georges Pompidou sembrava voler segnalare il rischio di una deriva della fruizione artistica nel mormorio anonimo della folla che si muove nelle sale del nuovo museo – aveva saputo cogliere la portata problematica di quanto sarebbe avvenuto trentacinque anni dopo: un orizzonte di visitatori e di utenti, alfabetizzato al sistema delle immagini e alle dinamiche {social}, è capace di prestare attenzione alle licenze legali che inquadrano i termini della sua partecipazione al processo di intelligenza collettiva e dibatte, riflette criticamente, sulle forme di salvaguardia del proprio contributo e della sua condivisibilità.
Quale che sia l’effettiva “apertura” e l’effettiva portata del progetto Virtuel, l’operazione ha dunque il merito di suscitare dibattito e far circolare una serie di riflessioni critiche sul rapporto tra il patrimonio storico artistico e le forme di elaborazione e condivisione dei saperi offerte dalla rete.
In Italia, nel frattempo, senza Rossellini e senza un Centro Pompidou che sia, si fanno passerelle di moda dentro i musei, ci si accapiglia sulla guida politica del MAXXI e, d’altro canto, si ricade in una concezione statica del patrimonio e della storia delle arti.
E intanto, mentre tutto si muove, il nostro dibattito rischia di scivolare nei termini di una vecchia retorica: apocalittici o integrati?
Note
[1] La redazione di il lavoro culturale sta testando la piattaforma con il fine di sondarne i limiti e renderà presto conto dei risultati di questa ricerca “sul campo”.