Oltre l’ostacolo

La riappropriazione dell’ex Colorificio toscano: un nuovo laboratorio per i beni comuni

Nel ricco dibattito sui beni comuni che ha caratterizzato molte delle analisi e delle pratiche politiche recenti, è stata spesso sottolineata la necessità di andare oltre la dicotomia pubblico/privato per giungere a una definizione non banale del concetto di bene comune. L’opportunità di non restare vincolati a una simile alternativa era del resto emersa già nel progetto di modifica del codice civile in materia di beni pubblici elaborato dalla commissione Rodotà nel 2007, il quale, come ricorda una tra i più importanti studiosi dei beni comuni, Maria Rosaria Marella, «ha chiarito che i beni comuni sono quei beni che, a prescindere dall’appartenenza pubblica o privata, si caratterizzano per un vincolo di destinazione essendo funzionali alla realizzazione dei diritti fondamentali di tutte e tutti» (M.R. Marella, Oltre il pubblico e il privato: gli spazi sociali al tempo della crisi, in Rebelpainting. Beni comuni e spazi sociali: una creazione collettiva, pp. 14-15).La dissennata gestione dei beni pubblici da parte di una classe politica allo sbando, l’utilizzo privatistico di denaro, luoghi e istituzioni pubbliche di cui gli ultimi episodi di cronaca hanno mostrato l’endemicità rendono ancora più urgente ribadire come non sia tanto la proprietà di un bene a definirne il valore sociale, quanto invece – così recita d’altra parte l’articolo 42 della Costituzione – la funzione che esso svolge o dovrebbe svolgere nella società. È in questa direzione che vanno dunque lette le riflessioni ora raccolte in Rebelpainting. Beni comuni e spazi sociali: una creazione collettiva, il libro bianco curato dal Progetto Rebeldía di Pisa il cui cuore è la ricostruzione della vicenda, particolarmente significativa, dell’ex Colorificio toscano.

Fondato nel 1924 da un chimico inglese, Alfred Houlston Morgan, che, innamoratosi della Toscana, decide di aprire a Pisa uno stabilimento di vernici, il Colorificio viene rilevato nel 1995 dalla J Colors, un’azienda che fa parte della multinazionale Junionfin, holding finanziaria guidata dalla famiglia Goebel Junghanns. Nel 2009, dopo aver acquisito tutti i brevetti che nel corso di un secolo il Colorifico Toscano aveva prodotto, J Colors chiude lo stabilimento, licenzia gli ultimi operai rimasti, e si trasferisce in Cina, completando così quel processo di saccheggiamento del territorio che è prassi corrente delle multinazionali (su questi temi e per una ricostruzione della storia del Colorificio e delle vicende della J Colors si vedano i saggi raccolti nella seconda parte del libro – «J Colors: anatomia di un modello predatorio» – e nella terza – «Dal globale al locale: le conseguenze sui territori»). L’edificio, con un’estensione di circa 12000 metri quadri, rimane vuoto, divenuto privo di interesse produttivo per l’azienda che, non a caso, dal 2010 lo toglie dal bilancio: «Si tratta della vittima di un processo di ristrutturazione guidato da una multinazionale delle vernici industriali –J Colors – che agisce appropriandosi dei marchi per usarli a proprio piacimento sui mercati, speculando sulla trasformazione di quello che un tempo era un luogo di lavoro, produzione e vita – la fabbrica – in uno spazio da distruggere e ricostruire con palazzine ad uso abitativo, seguendo solo la logica delle colate di grigio cemento che già sta soffocando Pisa come altre città in Italia» (Progetto Rebeldía, La “città contro la crisi” si fa spazio: un nuovo laboratorio per la partecipazione, in Rebelpainting, p. 8).

Attorno a questo spazio, e soprattutto all’idea di ciò che esso potrebbe diventare nel desolante panorama pisano, si viene così a creare negli ultimi mesi un percorso comune che coinvolge il Progetto Rebeldía, da un anno e mezzo senza una sede, molte importanti associazioni attive sul territorio, tra cui la Casa della donna e l’Unione inquilini, cittadini, ex operai e studenti, culminando nella fondazione di un nuovo soggetto politico, il Municipio dei beni comuni. Sceso in piazza il 13 ottobre scorso, con una Commonstreet coloratissima – a cui fa da contraltare un massiccio e insensato spiegamento delle forze dell’ordine in assetto antisommossa – per rivendicare pubblicamente il diritto di usare quello spazio abbandonato, il Municipio dei beni comuni ha compiuto oggi, 20 ottobre, prendendo possesso fisicamente dell’ex Colorificio, il primo passo nella direzione auspicata nelle pagine iniziali di Rebelpainting: restituire alla città uno spazio sociale che rappresenti «il segno tangibile e vissuto da migliaia di persone di una direzione alternativa, non legata ad un’idea aprioristica di sviluppo, bensì capace di rispondere a un piano urbano, finalmente centrato sull’ecologia, sulla valorizzazione dell’esistente, sui bisogni dei cittadini» (p. 10).

Si tratta di una sfida decisiva per chiunque desideri costruire, partendo dal basso, un modello alternativo di sviluppo economico e sociale, un modello che risponda alla crisi che stiamo vivendo ripartendo dal lavoro, dal territorio e dalla società civile, e non affidandosi a sedicenti tecnici, alieni e volutamente distanti dai bisogni reali delle persone. È una sfida che richiede di mettere in pratica davvero la riflessione sui beni comuni e sulla necessità di oltrepassare quella distinzione tra pubblico e privato sopra ricordata, dando vita a un’esperienza politica innovativa che usi questo libro bianco non come «un elenco di parole» ma come «una guida pratica» per trasformare l’ex Colorificio Toscano in «una fabbrica da colorare di nuovo, tutti insieme, per il bene comune» (p. 10).

Estratto dal saggio Una città industriale. La parabola del Colorificio Toscano di Pisa nel corso del ‘900, di Bruno Settis e Stefano Gallo, in Rebelpainting, pp. 105-115.

All’inizio degli anni ’70 il Colorificio occupava ancora 200 dipendenti circa, e l’area dove sorgeva rappresentava il terzo polo industriale del territorio comunale, dopo quello dei Navicelli e di Bocca d’Arno: nella zona che gravitava intorno al Viale delle Cascine si contavano 800 addetti alle attività industriali, di cui la metà concentrati negli attigui stabilimenti del Colorificio Toscano e della Vetreria Scientifica Kimble. La crisi industriale pisana non risparmiò una tra le medie aziende più antiche della città: nonostante gli investimenti effettuati dalla direzione nelle linee produttive, che nel corso degli anni ’80 furono completamente automatizzate (uno tra i primi stabilimenti in Europa nel settore delle vernici), gli anni ’90 furono un periodo di progressiva crisi. Alla metà del decennio fu la multinazionale J Colors a rilevare un’azienda con un marchio storico e conosciuto, che si dibatteva da anni con continui problemi di bilancio e vendite.

Gli stabilimenti di Viale delle Cascine furono progressivamente svuotati di ogni tipo di produzione dal nuovo padrone, così come viene raccontato in altri contributi di questo libro, lasciando senza attività un complesso storico, così come era successo e continuava a succedere a molte altre fabbriche cittadine. La memoria della Pisa industriale veniva cancellata e rimossa grazie al crescente degrado in cui furono condannati quegli stessi luoghi che erano stati i principali teatri delle sue fatiche e dei suoi conflitti. Il recente interesse per l’archeologia industriale e per il recupero degli edifici abbandonati ha restituito alla città alcuni dei suoi luoghi storici, come nel caso degli stabilimenti Marzotto, trasformati nel principale polo universitario (Geofor, Architettura della grande industria nel territorio pisano, a cura di Federico Bracaloni, Pacini, 2001); il polo dei Navicelli, invece, si sta trasformando grazie a una partita di scambio con la Saint-Gobain, in cui la multinazionale francese ha barattato la propria permanenza con il permesso di svolgere una vasta operazione immobiliare nelle aree prospicienti a cui se ne sono aggiunte altre.

L’area di Viale delle Cascine, che fino a poco tempo fa ospitava il terzo polo industriale di Pisa, invece, non è stato ancora interessata né da operazioni di carattere speculativo né ha attirato l’attenzione dei grandi operatori pubblici presenti in città. Contro l’oblio, è possibile però immaginare ulteriori modelli di recupero del patrimonio archeologico industriale, basati su un intervento dal basso, orientato alle attività sociali e culturali senza fini di lucro. La produzione immateriale di socialità e cultura, fondamentale in tempo di crisi, dovrebbe essere anche alla base del recupero di una memoria troppo a lungo rimossa, quella del lavoro e della produzione materiale, nella costruzione di una reciproca integrazione, a partire dalla dimensione cittadina. Potrebbe essere l’occasione per far sì che Pisa non sia più una «smemorata Macondo», ma una città consapevole della propria storia, di quando era «un mondo senza confini e sempre in movimento», in cui «convivevano il salariato e il campagnolo in cerca di fortuna, per il quale un lavoro valeva l’altro, il mezzadro e quel misero esercito di braccia sottopagate ch’erano le giovani donne, i ragazzi, i bimbi e le bambine del popolo» (Athos Bigongiali, Una città proletaria, Sellerio 1989, pp. 129 e 19-20).

Rebelpainting. Beni comuni e spazi sociali: una creazione collettiva può essere scaricato qui.

Print Friendly, PDF & Email
Close