Eyal Weizman, Il male minore [Pubblichiamo alcuni estratti del libro di Eyal Weizman, Il male minore (Nottetempo, Roma, 2009) relativi all’operazione israeliana Piombo Fuso del 2008-2009, nel tentativo di comprendere le logiche sottostanti quell’operazione e le continuità con l’attacco alla Striscia di Gaza degli ultimi giorni – la cosiddetta operazione “Pilastro di difesa”. Nella speranza che questi estratti possano aiutare a contestualizzare meglio le retoriche dell’“autodifesa”, della “proporzionalità” e gli altri dispositivi discorsivi che stanno ancora una volta offuscando una comprensione più profonda delle radici della violenza esercitata su Gaza e sulla sua popolazione].
Israele ha rifiutato di cooperare e i suoi ufficiali hanno descritto l’attacco come un atto di “autodifesa” e hanno sostenuto che gli ingenti danni inflitti alla popolazione civile non sono, in sé e per sé, una prova della violazione delle leggi di guerra. Il governo israeliano ha successivamente lanciato una campagna internazionale per sostenere la sua posizione legale: Hamas ha utilizzato i cittadini di Gaza come scudi umani e ha sparato indistintamente contro le città e i centri urbani israeliani. Il governo vorrebbe convincere la comunità internazionale che le operazioni militari israeliane e gli altri meccanismi del suo assedio e della sua occupazione siano istituzioni legali, nel senso che essi sarebbero definiti dal diritto umanitario internazionale. Allo stesso tempo, e significativamente, i censori di Israele hanno iniziato a cancellare i nomi presenti nei rapporti scritti, e a nascondere i volti nelle fotografie del personale militare impegnato nell’attacco.
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Il DUI [Diritto Umanitario Internazionale] – il corpo di leggi a cui il termine “crimini di guerra” si riferisce – è fatto di consuetudini e convenzioni che mirano a ridurre la sofferenza umana causata dalla guerra e a proteggere i civili dagli attacchi. Esso costituisce un regime giuridico restrittivo, che mira a contenere la tendenza della violenza a estendersi verso limiti estremi. All’interno del caos e dell’orrore della guerra, esso cerca di definire chi può essere o non essere attaccato, e in che modo. La sua funzione è quella di ridurre, piuttosto che sradicare, la sofferenza. In quanto tale, potrebbe essere interpretato come il linguaggio legale del principio del male minore.
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Affermando di proteggere i deboli mentre rafforzava i piú forti, l’ordine normativo del diritto ha permesso di legittimare la violenza coloniale, condannando la resistenza indigena, tecnologicamente meno sofisticata, anche nei casi in cui quest’ultima causava effettivamente meno vittime civili.
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Perciò, il diritto internazionale non può essere pensato come un corpo statico di regole, ma piuttosto come un diagramma modellato da una serie infinita di conflitti di confine diffusi. La questione non è quella della giusta interpretazione, ma di chi abbia l’influenza politica, l’autorità culturale o il potere militare per costringere la sua interpretazione a divenire autorevole.
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Uno degli ufficiali dell’unità di diritto internazionale dell’esercito israeliano ha spiegato [durante l’operazione Piombo Fuso del 2008-2009] che il loro obiettivo “non era quello di incatenare l’esercito, ma di fornirgli gli strumenti per vincere in maniera legale”.
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I portavoce dell’esercito israeliano sono anche sembrati preparati a spiegare l’operazione con il linguaggio del diritto internazionale. Essi hanno regolarmente usato termini legali come “distinzione” (tra civili e combattenti) e “proporzionalità” (tra civili uccisi e obiettivi militari), descrivendo cosí gli obiettivi come “legittimi” e le morti civili come “involontarie” o “collaterali”.
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Sembrava anche che l’aggettivo “umanitario” fosse divenuto l’aggettivo chiave nella spiegazione dei vari aspetti dell’attacco. Ai classici “corridoi umanitari” (nello spazio) e ai “cessate il fuoco umanitari” (nel tempo) erano stati aggiunti “le munizioni umanitarie” (si tratta di esplosivi dal quoziente di uccisione ridotto che consentono alle forze armate di utilizzarli in aree densamente popolate, causando un numero di morti maggiore) e un “ministro degli Affari Umanitari”, designato recentemente, che operava dall’“ufficio per il coordinamento umanitario” in una base militare di Tel Aviv.
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Questo attacco sembra essere il primo, nella storia della guerra, in cui ai civili è stata negata la possibilità di diventare rifugiati.
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La logica dell’attacco israeliano su Gaza può essere compresa attraverso un confronto con l’attacco israeliano sul Libano del luglio-agosto 2006. È stato proprio in Libano che Israele ha compreso di non poter piú affrontare militarmente le guerriglie, o fermare il loro lancio di missili o basarsi su nessuna delle tattiche tradizionali che i militari amano definire “controinsurrezione”. Questa lezione si riflette sulla dottrina militare israeliana di oggi (cosí come è stata delineata dall’Institute for National Security Studies), che si basa sul punire il lancio di razzi con “un bombardamento sproporzionato nel cuore del punto debole del nemico, in cui gli sforzi per colpire la capacità di lancio sono secondari”. Nelle parole del capo del commando settentrionale, Gadi Eisenkot: “Eserciteremo un potere sproporzionato contro ogni villaggio da cui vengono sparati colpi su Israele, e causeremo danni e distruzioni immense… Questa non è una proposta. Questo è un piano che è già stato autorizzato”.
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La logica di questo approccio – cosí spesso articolata nel linguaggio da marketing dello “stabilire un prezzo di etichetta”, o della psicologia del “marcare a fuoco le coscienze” dei palestinesi – mira a esercitare una tale paura sugli abitanti di Gaza (come quelli del Libano nel 2006) da costringerli a esercitare pressione politica su Hamas.
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L’argomentazione di Israele secondo cui la distruzione e le morti causate a Gaza sono state spiacevoli effetti collaterali dei tentativi militari di colpire bersagli militanti – depositi di munizioni, “infrastrutture a doppio uso” (per esempio “infrastrutture civili”), basi dei combattenti – va attaccata alla sua radice. La distruzione di città e di campi di rifugiati, gli ospedali strapieni e la paura generale sono stati concepiti come parte dei propositi dell’attacco, piuttosto che come suoi sottoprodotti collaterali.
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Cosí un certo grado di contenimento è parte della logica di una qualsiasi operazione militare convenzionale: per quanto cattivi possano sembrare gli attacchi militari, essi possono sempre trasformarsi in qualcosa di peggio. Nel momento in cui questo varco tra l’applicazione possibile ed effettiva della forza si chiude, la guerra non è piú un linguaggio, la violenza si spoglia della semiotica e mira semplicemente a far sparire il nemico in quanto soggetto.
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Cercando di combinare politica legale e giustificazioni morali, nel 2003 le forze armate israeliane hanno invitato Asa Kasher, un illustre professore di Etica all’Università di Tel Aviv e vincitore del Premio Israeliano per la Filosofia, a proporre un codice etico sistematico per le nuove tattiche della guerra contro i palestinesi.
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Il rapporto di morte è uno dei modi raccapriccianti in cui questa economia del rischio viene calcolata e gestita. Essa presenta anche i suoi effetti collaterali: nel 2002, in un incontro tenutosi in una base israeliana, un gruppo di esperti di diritto e di etica militare è stato incaricato di esaminare la relazione tra leggi di guerra e convinzioni morali. Questo gruppo comprendeva ufficiali militari piú anziani, oltre al comandante della divisione legale delle forze armate israeliane, Daniel Reisner, e al prof. Asa Kasher. A ciascuno di questi membri è stato chiesto quale rapporto di “morte civile collaterale” avrebbe considerato legittimo, nel contesto dell’uccisione di un militante armato. La quota a cui si è arrivati era di 3,14 – molto approssimativamente la costante matematica il cui valore è il rapporto tra una circonferenza e il suo diametro nello spazio euclideo… Il calcolo e la misurazione di morte e distruzione sono stati affrontati come se si trattasse di un algoritmo o di un problema computazionale; ma quando l’etica viene pensata in termini economici e tradotta in numeri, questi possono essere cambiati e stravolti all’infinito.
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I 20.000 soldati, 200 carri armati e 100 bulldozer che hanno invaso Gaza sono avanzati in modo lento, con centinaia di piattaforme aeree che hanno creato prima di loro ciò che l’esercito chiama “una cortina di fuoco avvolgente” che ha spianato ampie zone dei campi di rifugiati, dei villaggi, dei sobborghi e di parti di città ancor prima che i soldati e i bulldozer vi entrassero. Uccidendo e distruggendo l’ambiente costruito di fronte a loro, il rischio di imboscate è stato presumibilmente ridotto. I chiari modelli geometrici della distruzione sono la testimonianza di ciò, di come essa è stata premeditata e pianificata a tavolino, piuttosto che dettata dalle contingenze della battaglia. La distruzione premeditata dell’habitat del rifugiato mira a disfarsi del rifugiato in quanto categoria politica e, dunque, del suo diritto al ritorno – un diritto, cosí crede Israele, che è mantenuto dall’apparato spaziale del campo e dalla temporaneità che esso comunica nello spazio.