Riflessioni sull’oggi e sfide di domani
Fabrizia Petrei[*]
Nelle passate settimane si è assistito al sollevarsi di un polverone mediatico nazionale e internazionale tanto rumoroso quanto spesso impreciso (quando non superficiale), sulla sentenza espressa lo scorso 22 ottobre 2012 dal Tribunale dell’Aquila, che ha condannato a sei anni in primo grado i membri della ex Commissione Grandi Rischi per le rassicurazioni espresse in occasione della ormai famosa riunione del 31 marzo 2009, avvenuta pochi giorni prima della devastante scossa del 6 aprile.
Prescindendo, per mancanza di informazioni sulle motivazioni della sentenza e delle competenze necessarie, da ogni tipo di giudizio sulla sentenza stessa, quello che credo sia innegabile è che essa rappresenti, nella storia della comunicazione del rischio, un momento di passaggio molto rilevante. Per sgombrare subito il campo da fraintendimenti, occorre innanzitutto sottolineare che per comunicazione del rischio non si intende nè la previsione in maniera deterministica di eventi e catastrofi naturali – cosa che la letteratura scientifica internazionale, allo stato attuale, definisce impossibile – nè tantomeno il lanciare l’allarme del terremoto stesso. Con comunicazione del rischio si fa riferimento piuttosto – secondo una definizione del prof. Giancarlo Sturloni – a uno “scambio di informazioni tra esperti, istituzioni, cittadini e altri portatori di interesse (stakeholder) per favorire le decisioni rilevanti nella gestione del rischio”. In questa cornice risulta evidente come, nel caso aquilano, non sia affatto la scienza ad essere sotto processo, bensì gli effetti della comunicazione del rischio associato alle catastrofi naturali. Fa ancora scuola, ad esempio, quanto accadde nel 1986 con l’incidente di Chernobyl, quando il governo russo negò per oltre dieci giorni il pericolo di contaminazioni, determinando di fatto un vuoto informativo che si tradusse, anche se in maniera differente tra i vari Paesi europei, in informazioni lacunose, incerte e contradditorie, che generarono un enorme caos e un diffuso senso di insicurezza nelle comunità. Più recentemente, in occasione dell’incidente alla centrale nucleare di Fukushima a seguito del terremoto e dello tsunami dell’11 marzo 2011, il ritardo delle comunicazioni determinò un forte calo di fiducia della popolazione giapponese verso le Istituzioni (“Abbiamo bisogno di maggiori informazioni, più dettagli, tempi più rapidi di comunicazione”, Yukia Amano, direttore dell’AIEA, 15 marzo 2011; “Vorrei sapere cosa diavolo sta succedendo”, Naoto Kan, Primo Ministro, 15 marzo 2011).
Il richiamo a questi episodi sottolinea come, in presenza di un rischio, scegliere di non comunicare rapprensenti forse il peggior modo di comunicare. Non solo perchè al posto dell’Istituzione competente parlerà sicuramente qualcun’altro, ma anche e soprattutto perchè ciò determina una perdita di fiducia, elemento che invece risulta fondamentale e centrale durante la gestione della crisi. Negare l’esistenza del rischio in una situazione di incertezza risulta altrettanto inefficace. Sono ancora famose le immagini dell’allora ministro dell’agricoltura inglese John Gummer che, nel maggio 1990, si fece ritrarre dalle telecamere della BBC insieme a sua figlia, entrambi intenti a divorare un hamburger, allo scopo di rassicurare la popolazione inglese sulla non pericolosità della diffusione del virus dell’encefalopatia spongica bovina, meglio conosciuto come “mucca pazza” (salvo poi, a distanza di pochi anni, nel 1996, dover ammettere per voce di Stephen Dorrell, responsabile della Sanità, che le cose purtroppo stavano ben diversamente). La rivista British Medical Journal definì quelle immagini come il punto più basso della comunicazione del rischio in Gran Bretagna[1].
Gestire con trasparenza ed efficacia le situazioni di incertezza rappresenta quindi la più grande sfida della comunità scientifica e delle Istituzioni. Questo non significa chiedere agli esperti di essere oltre che dei bravi scienziati, indipendenti da qualsiasi tipo di pressione politica e/o economica, anche dei bravi comunicatori; significa invece che le Istituzioni e gli organi scientifici coinvolti non possano più prescindere dal dotarsi di strutture ad hoc e di risorse umane competenti che siano in grado di affiancare scienziati, politici e amministratori nel gestire la comunicazione delle informazioni che i cittadini hanno il diritto di conoscere, declinate secondo gli obiettivi, gli strumenti, i messaggi, i contenuti e i linguaggi più idonei al singolo caso. Si tratta quindi, a ben vedere, principalmente di una carenza di natura strutturale che va colmata con urgenza affinchè non si verifichino più situazioni simili a quella aquilana e si riesca piuttosto a trovare quel possibile equilibrio in grado di garantire il diritto del cittadino di essere informato: non solo durante la fase di emergenza ma in modo continuo, secondo una seria politica di prevenzione sul lungo periodo.
A questo proposito è interessante ascoltare l’opinione di chi lavora quotidianamente nel campo dell’informazione e della comunicazione pubblica e si è trovato ad operare in una situazione di emergenza nei momenti immediatamente successivi alle forti scosse di terremoto che nel maggio scorso hanno sconvolto la pianura emiliana. Nel caso emiliano, complice la diffusa percezione di vivere in un territorio a rischio sismico non elevato, unita a una memoria storica debole, quindi incapace di tramandare di generazione in generazione saperi e comportamenti ancestrali, la sete di informazioni e di indicazioni da parte della cittadinanza che si verificò a seguito dei forti terremoti del 20 e 29 maggio 2012 fu infatti senza dubbio di notevole rilevanza. Ho colto l’occasione per parlarne con Luca Zanelli, dello staff Iperbole – Comune di Bologna, soffermandomi in modo particolare sul ruolo dei social media.
Fabrizia Petrei: Vuoi raccontarci cosa accadde e come i canali del Comune di Bologna hanno cercato di rispondere alle richieste di informazioni che pervenivano?
Luca Zanelli: Ricordo molto bene la mattina del 20 maggio. Appena qualche minuto dopo la scossa la timeline di twitter era già un susseguirsi di richieste d’informazioni, ricerca spasmodica di conferme, che sì era avvenuto davvero un forte terremoto (conferma che arrivò quasi subito con USGS Earthquake e poi INGV). E ben presto ci furono i primi cittadini che su twitter chiesero come avrebbero dovuto comportarsi, se fosse meglio lasciare gli edifici e andare in piazza o meno. Postai su twitter il depliant della Protezione Civile Emilia Romagna “Come comportarsi in caso di terremoto” che fu condiviso da molti cittadini così come dai media e da altre Pubbliche Amministrazioni presenti su twitter. L’episodio del 29 maggio fu molto diverso perché le scosse furono più d’una e soprattutto in un giorno feriale, con uffici e scuole aperte. In quel caso fu chiaro subito che c’era stata un’altra scossa di terremoto. In un primo tempo l’impegno fu nel ricevere, verificare e dare le informazioni: pochi tweet, ma chiari e precisi. Cos’è successo, cosa occorre fare, quali numeri usare e come in quei primi minuti poter aiutare, per es. aprendo le reti wireless per facilitare le comunicazioni. Il tweet di Twiperbole che invitava a usare le reti telefoniche solo in caso di reale necessità fu retwittato più di 1700 volte! Quando poi la situazione si “normalizzò” l’impegno comunicativo fu rivolto soprattutto a informare sulle decisioni assunte dall’amministrazione per l’immediato: la chiusura delle scuole, le verifiche degli edifici, i parchi aperti, ecc..
F. P.: Con quali fonti comunicative presenti sui social hai potuto creare delle sinergie costruttive?
L. Z.: Con i cittadini da una parte e con alcuni canali della Pubblica Amministrazione che furono molto attivi in quelle settimane dall’altra (dalla Provincia di Bologna alla stessa Regione Emilia Romagna alle città di Reggio Emilia e Modena). In particolar modo con l’account twitter diTurismo Emilia Romagna riuscimmo a creare un flusso molto positivo d’informazioni sull’immediato dopo-sisma: richieste e raccolte di aiuti materiali, prime iniziative solidali e di organizzazione degli aiuti dal basso. Prima ho citato i cittadini e intendo riferirmi a un episodio molto istruttivo circa le potenzialità dei social network: all’indomani del sisma del 29 maggio si stavano diffondendo voci sul pericolo imminente di nuove scosse, quando su twitter due persone ne chiesero l’effettiva attendibilità, dal momento che, in piazza Cavour a Bologna, erano stati fatti evacuare i lavoratori della filiale di Banca d’Italia. Potete immaginare il nostro stato d’animo! Constatato che effettivamente il “panico” si stava diffondendo (anche con telefonate al call center comunale), dopo aver verificato le fonti e contattato la Protezione Civile regionale, uscirono in contemporanea un comunicato dalla stessa Protezione Civile nazionale e i tweet dal feed ufficiale della Regione Emilia Romagna, della Provincia di Bologna e naturalmente dal Comune. L’ansia rientrò subito e colgo quest’occasione per ringraziare quei due cittadini che ci informarono di quanto stava accadendo in piazza Cavour.
F.P.: Sapresti indicarci un punto di forza e un punto di debolezza del flusso informativo che si è creato in quei giorni? Cosa hai imparato da questa esperienza?
L. Z.: La debolezza sta, paradossalmente, in uno dei punti di forza dei social media (in particolare twitter): la facilità del mezzo rende in questi casi il flusso informativo caotico e troppo “personalizzato”: prevalgono le richieste di sapere se l’amico o il collega sta bene, se il terremoto è stato avvertito e cosa fanno le autorità. Così per es. su twitter gli hashtag diventano ben presto inservibili e occorre continuamente rincorrerli e cambiarli, raddoppiando gli sforzi. Senz’altro positivo è stato il crearsi di una rete, per es. con le associazioni, che ancora adesso fa circolare iniziative e progetti per la ricostruzione dei paesi colpiti così come, mi piace ricordare qui, le ragazze e i ragazzi dell’hackathon terremoto di Bologna. L’esperienza mi ha insegnato che c’è ancora molto da fare per riuscire a veicolare positivamente le giuste informazioni in casi d’emergenza e soprattutto che questo lavoro va fatto giorno per giorno in tempo di pace. Come dice Carvin “Don’t wait until a disaster happens to start your social media/community-building activities. Have them in place in advance #pubcamp”.
È interessante soffermarsi sulle sue ultime parole che richiamano alla necessità di un lavoro costruito quotidiamente e, soprattutto, aggiungo, ad opera di professionisti specificamente formati e a tale scopo dedicati, in grado di garantire tempestività e appropriatezza delle informazioni. Se il caso dell’Aquila può essere considerato un esempio di “cattiva comunicazione” è infatti anche per l’assenza di una pianificazione della stessa. Per far sì che si attivino quelle sinergie positive, quella rete costruttiva che, come abbiamo appena visto, è possibile, la comunicazione non può essere improvvisata, ma dovrebbe configurarsi come una componente strutturale del processo.
Di un processo che deve essere permanente e che, in primis, ha l’obiettivo di formare, in situazioni di non emergenza, i singoli cittadini: una forma di comunicazione che abbandona quindi definitivamente, anche grazie alle opportunità rappresentate dai media sociali, le caratteristiche unidirezionali tipiche della comunicazione di massa, per mettere invece al centro l’individuo, attore protagonista e detentore di proprie capacità di scelta. Ecco perchè quando si parla di comunicazione di crisi riferendosi a tutte quelle azioni in grado di “rendere consapevoli le persone esposte a un rischio per favorire comportamenti responsabili di autoprotezione e salvaguardare la loro sicurezza in una situazione di emergenza” (Sturloni), si concretizza un concetto moderno di responsabilizzazione edempowerment del cittadino, che non aspetta più dall’alto paternalistiche indicazioni salvifiche ma che possiede già gli strumenti per decidere consapevolmente di se stesso, frutto di un partenariato e di un’alleanza con l’Istituzione costruita nel tempo. Alla luce di queste riflessioni, quanto recentemente affermato dal Dipartimento della Protezione Civile a seguito della sentenza aquilana:
il rischio è che si regredisca a oltre vent’anni fa, quando la Protezione civile era solo soccorso e assistenza a emergenza avvenuta. Oppure che chi è incaricato di valutare finisca per alzare l’allerta al massimo livello ogni qualvolta i modelli previsionali forniscano scenari diversificati, generando una crescita esponenziale di allarmi che provocheranno assoluta sfiducia nei confronti di chi li emette o situazioni di panico diffuso tra la popolazione.
Appare come il risultato di un’analisi forse troppo affrettata che non ha preso in considerazione le enormi potenzialità dello scenario che invece potrebbe aprirsi a livello di prevenzione ed educazione della cittadinanza se solo venisse accettata con competenza e indipendenza questa sfida così complessa che non può che basarsi su un costruttivo sistema di alleanze tra istituzioni scientifiche, Protezione Civile, amministrazioni locali, mass media e cittadini. Per mettere in campo una simile comunicazione non si può prescindere dal rispetto di alcuni principi, così sintetizzati da Sturloni: costruire una comunicazione credibile, quindi chiara, trasparente ed efficace, di conseguenza tempestiva e in grado di fornire delle contromisure di riduzione e/o gestione del rischio e della crisi; tenere conto di credenze, esperienze, conoscenze e valori dei soggetti destinatari; scegliere i canali comunicativi più adatti e sforzarsi di creare alleanze sinergiche con gli operatori massmediali (troppo spesso ingabbiati inagende che rispondono più a logiche produttive che a un’etica di informazione pubblica); adottare un atteggiamento aperto e dialogico, prestando ascolto a tutti gli interlocutori; rispettare le legittime preoccupazioni dei cittadini; valorizzare i diversi saperi e sostenere ogni azione che possa favorire il coinvolgimento attivo di tutte le parti in causa. Infine, ma non da ultimo, avere anche il coraggio, se necessario, di affermare “non lo so”: solo in questo modo si potrà concretizzare un tipo di comunicazione in grado, probabilmente, anche di salvare vite umane.
Note
[*] Fabrizia Petrei, aquilana, dott.ssa in comunicazione pubblica, sociale e politica, collabora con Urban Center Bologna curandone le attività di comunicazione. Alcuni dei contenuti e degli spunti contenuti nell’articolo sono frutto della mia partecipazione al Workshop “Comunicare il rischio: dal nucleare ai terremoti” svoltosi il 5, 6 e 7 ottobre 2012 c/o Università di Ferrara nell’ambito del Festival Internazionale, tenuto dal prof. Giancarlo Sturloni che ringrazio. Un ringraziamento va anche a Luca Zanelli del Comune di Bologna per la disponibilità e la competenza.
[1] G. Sturloni, Le mele di Chernobyl sono buone. Mezzo secolo di rischio tecnologico, Sironi Editore, 2006, p.110.