Dopo l’attacco alla redazione parigina di Charlie Hebdo in pochi, tra i media, hanno dato risalto alla rivendicazione dell’attentato diffusa dal ramo yemenita di al Qaeda. Ma quel documento è importante per capire origini e orizzonti della violenza fondamentalista.
Questo post appartiene a un dossier di approfondimento sulla strage alla redazione di «Charlie Hebdo». A questo link potete leggere lo Storify #CharlieHebdo: l’ordine del discorso.
Un mese dopo l’attacco alla redazione di Charlie Hebdo, l’onda degli eventi che hanno schiaffeggiato duramente la Francia ha lasciato posto alla risacca delle riflessioni e delle conseguenze. Sulla spiaggia restano, confuse e contraddittorie, le tracce dello sconquasso.
In tutta Europa risuonano i ritmi dei tamburi ed echeggiano i corni di guerra. Ancora una volta a riattivarsi è il frame, verrebbe da dire abusato, ma non lo è, dello Scontro di Civiltà.
E fateci caso: ogni volta si riparte da capo.
L’11 settembre 2001 tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».
Quando fu colpita la metropolitana di Madrid, tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».
Quando fu colpita la metropolitana di Londra, tutti i commentatori dissero: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».
Dopo la strage nella sede di Charlie Hebdo, tutti i commentatori hanno detto: «Da oggi, abbiamo la guerra in casa».
Wu Ming, Terrorismo, migranti, foibe, marò, fascismo… Appunti sul vittimismo italiano
Dall’11 Settembre al 7 gennaio
E come ogni volta che questo frame si riattiva, anche questa volta facciamo una fatica enorme, noi cittadini della democrazia elettronica occidentale, a dichiararci renitenti alla coscrizione cognitiva che la gestione mediatica dell’evento induce in noi.
L’11 Settembre 2001, la cornice mediatica con cui l’evento entrò nelle nostre vite fu l’emergere di una serie di tendenze della rappresentazione visiva che, come un fiume carsico, correvano da tempo sotto la superficie della nostra cultura. La convinzione di vivere in un mondo in cui ogni evento “pivotale” sarebbe stato trasmesso in tempo reale, nella proliferazione dei punti di vista. Una trasparenza universale che avrebbe finalmente svelato la nudità del Re, anche ai più ciechi.
Ma contrariamente a quanto prevedevano i più ottimisti, l’emergere tumultuoso di queste correnti ebbe proprio l’effetto opposto. La ripetizione incessante di quelle immagini, sui teleschermi di tutto il mondo, impedì l’elaborazione del trauma e incanalò le reazioni in un’unica sceneggiatura possibile, la sola a cui ci avevano abituati a pensare: la guerra. La ripetizione incessante delle immagini dello schianto degli aerei sulle Torri Gemelle divenne il passo di marcia con cui l’Occidente s’incamminò verso la (prima?) Guerra al Terrore.
Un conflitto, se è legittimo definirlo tale, il cui ciclo storico è andato chiudendosi negli ultimi tre anni. Anni segnati dall’uccisione di Bin Laden nel compound di Abbottabad, dall’intensificarsi della strategia degli omicidi mirati, portata avanti con nuovi strumenti tecnologici, e dalla fine della missione ISAF, che alle sue spalle lascia un Afghanistan forse ancor più diviso, settario e violento di come l’aveva trovato.
L’analisi della reazione collettiva al raid di Parigi dimostra che siamo ancora molto indifesi di fronte allo shock determinato da eventi di tale portata traumatica. E questo a dispetto dei cambiamenti rapidi e profondi che il nostro ecosistema culturale ha vissuto negli ultimi quattordici anni.
Solo dieci anni fa, nel 2005, il sociologo americano Brian Massumi poteva dichiarare che per quanto la televisione avesse perso, a vantaggio di Internet, il ruolo di principale fonte d’intrattenimento, non era stata intaccata la sua importanza come segnalatore e strumento di accesso privilegiato per la modulazione degli affetti e degli stati d’animo da parte del Potere. Oggi che la nostra cultura è pienamente digitale il sorpasso della rete sulla televisione è totale.
Come mostrato con straordinaria efficacia nel primo episodio della prima stagione della serie britannica Black Mirror, Internet è oggi il luogo in cui è possibile effettuare il tuning degli affetti e degli stati d’animo della popolazione. E questo a dispetto della sua effettiva diffusione, perché di fatto la rete è diventata una delle fonti principali, nonché l’habitat naturale, di chi, professionisti o citizen journalist è lo stesso, fa informazione. Perciò oggi sembra esistere solo quanto accade in rete. È per lo stesso motivo che i politici scelgono soprattutto il web come mezzo di comunicazione e terreno di scontro politico, perché sanno che è lì che si crea il consenso e l’influenza, anche quando la maggior parte della popolazione non ha accesso alla rete.
Il modo in cui la strage nella redazione di «Charlie Hebdo» ha attraversato i social media digitali ha riproposto schemi molto simili a quelli che abbiamo visto all’opera l’11 settembre. Nell’hashtag #JeSuisCharlie e in tutte le sue ulteriori forme si è sublimato un corpo sociale all’interno del quale si sono annullate tutte le differenze, i distinguo e le critiche possibili. Così come l’11 Settembre siamo stati costretti a essere tutti americani, il 7 gennaio dichiararsi qualcosa di diverso e di distante da Charlie Hebdo veniva visto non solo come una mancanza di rispetto ma anche come una dichiarazione di vicinanza alle ragioni dei terroristi e una sorta di complicità, morale o ideale, con le loro azioni.
Una sospensione collettiva del senso critico che ha come immagine esemplare il cordone di capi di Stato che apriva la marcia per la libertà d’espressione, svoltasi a Parigi la domenica successiva all’attacco terroristico. Un vero e proprio distillato d’ipocrisia, al cui interno figuravano personaggi davvero imbarazzanti in quel contesto.
L’argomento della libertà d’espressione, sebbene in molti lo abbiano giudicato sconveniente da trattare, perché ritenuto irrispettoso o fuori tema rispetto alla strage, è invece una delle chiavi di lettura attraverso cui capire quanto è successo.
Perché, tra i tanti possibili obiettivi, colpire proprio la redazione di «Charlie Hebdo»? E che differenza c’è tra questa e le Torri Gemelle? Al netto della portata spettacolare dell’11 settembre, entrambi gli obiettivi avevano un forte valore simbolico. Il World Trade Center rappresentava un simbolo riconoscibile della potenza americana, che dopo la fine della Guerra Fredda si era eretta a faro di un mondo che alcuni credevano essere stato liberato dalla Storia. Charlie Hebdo, il settimanale satirico dalla storica indole anarchica, è stato invece indicato come il simbolo della libertà d’espressione, ovvero di uno dei pilastri della società europea, bianca e occidentale, nata dalla lezione dell’Illuminismo e tempratasi nelle tragedie delle Guerre di Religione e nella sopravvivenza al Nazifascismo.
L’attacco è stato perciò ridotto a una sorta di invidia del pene, un odio cieco per la libertà di cui dispone una società laica e avanzata, portato alle estreme conseguenze dalla visione violenta di una minoranza di fondamentalisti, che diventa così predominante da dover pretendere, da parte della maggioranza dei musulmani europei e mondiali, una costante dissociazione e presa di distanza.
Ma le cose sono davvero così semplici? Amedy Coulibaly, i fratelli Kouachi e soprattutto chi li ha innescati avevano davvero solo l’intenzione di vendicare l’onore del Profeta macchiato dalle vignette satiriche pubblicate dal settimanale francese?
Lo scacco di al Qaeda
Per provare a trovare una risposta a queste domande, può essere utile partire dalla rivendicazione dell’attentato che una fonte interna al ramo yemenita di al Qaeda (AQAP, al Qaeda in the Arabian Peninsula) ha consegnato al giornalista Jeremy Scahill e che il reporter ha pubblicato su The Intercept, il progetto di giornalismo d’inchiesta nato dalla sinergia tra l’imprenditore Pierre Omidyar e il giornalista Glenn Greenwald.
Il cuore della rivendicazione è proprio nel concetto di libertà d’espressione: Freedom of Speech.
Freedom of speech! Journalist! Newspaper! It is a war on freedom of speech. It is a war on journalism. These words kept belching out of many mouths. All are well aware of what this magazine published. “It was just satirical,” some argued. I find it funny how this type of people think. “It is a crime for a journalist to be killed,” they claim … I would like to pose some questions to them: Was it a crime to kill Sheikh Anwar Al-’Awlaki for his da’wah? Was it a crime to kill Samir Khan for being a member of Inspire Team? Was it a crime to kill Fuad Al-Hadhrami, the brother who accompanied journalists in S.Yemen? Charlie Hebdo’s editor-in-chief Gerard Biard remarked he didn’t “understand how people can attack a newspaper with heavy weapons. A newspaper is not a weapon of war.” Isn’t Inspire a magazine? Are we to conclude that drones and missiles aren’t heavy weapons? Where are your values in that regard? The Charlie magazine team deserved what they got. Many warnings have been given before, but they were persistent. They had the freedom to use cartoons in their magazine, and we have the freedom to use bullets from our magazines. As the ‘Wanted List’ stated: A bullet a day, keeps the kaffir away. Yes, Charb is no more. The lions of Jihad have stood. The followers of Muhammad – peace be upon him – have never forgotten. As Sheikh Anwar Rahimahullah put it: The Dust Will Never Settle Down. Do not look for links or affiliation with Jihadi fronts. It is enough they are Muslims. They are Mujahideen. This is the Jihad of the Ummah. So France, are you ready for more attacks; Weren’t you asked by Inspire Magazine immediately after the Wanted List: So, why is France so thick in learning from its past mistakes? Is it leaving Paris undefended once again? Woe upon you from tens of Muhammad Merah! You come third in the target list, after US and Britain. If I were the latter, I would rather pull my sleeves up.
Per capire a fondo questo documento è bene cominciare prima facendo un po’ di chiarezza su alcuni nomi che ai più possono risultare oscuri. Che cos’è Inspire? E chi sono Sheikh Anwar Al-‘Awlaki e Samir Kahn.
Inspire è il mensile digitale in inglese di AQAP. L’organizzazione terroristica ha iniziato a pubblicarlo nel 2010 e, a dicembre 2014, ne erano usciti tredici numeri. Dal punto di vista dei contenuti, il magazine tratta soprattutto i temi legati alla jihad, con un taglio molto severo per quanto riguarda l’aderenza ai principi religiosi, ma, allo stesso tempo, con la consapevolezza della contemporaneità in cui operano le moderne organizzazioni terroristiche. Oltre agli incitamenti alla guerra santa e alle giustificazioni teologiche della stessa, Inspire pubblicava editoriali di analisi geopolitica, appelli individuali all’impegno contro gli americani e un filone di articoli definito Open Source Jihad. Ovvero una raccolta di strategie e tecniche per organizzare attacchi e attentati anche senza il supporto di un’organizzazione strutturata, nonché liste di obiettivi da colpire.
Ciò che caratterizzava il magazine era la cura editoriale del prodotto. Grafica, qualità delle immagini, impaginazione ed editing, ogni dettaglio della pubblicazione era curato per renderlo molto distante dal classico stile delle pubblicazioni fondamentaliste e molto più vicino alla qualità dei consueti prodotti giornalistici. La cura nel confezionare il prodotto, la linea editoriale e la lingua in cui era diffuso ne facevano un efficace strumento di informazione e propaganda presso i musulmani che vivono in Occidente, e questo è di certo un dettaglio da tenere a mente.
Lo stile di Inspire si deve al lavoro di Samir Kahn che ne è stato redattore ed editore. Kahn è un pakistano americano, nato il 25 dicembre del 1985. Prima di diventare editor di Inspire, su cui aveva scritto un *column* in cui si dichiarava “fiero di essere un traditore degli Stati Uniti d’America”, Kahn aveva gestito il blog estremista Inshallah Shaheed. Insieme a lui operava un altro americano Anwar al-Awlaki, militante islamico, terrorista e imam, nato nel 1971. Definito da molti il “Bin Laden di Internet” al-Awlaki aveva contribuito a mettere in piedi la strategia di distribuzione di *Inspire* in rete, sfruttando le possibilità offerte dai social media.
Il 30 settembre del 2011 le due menti di Inspire vengono uccise, in un attacco condotto da un drone sul territorio yemenita. Negli USA l’uccisione suscita un certo numero di polemiche. Infatti mai prima di allora il Governo Federale aveva assassinato un cittadino americano, senza prima garantire per lui lo svolgimento di un processo. Il bombardamento dei due editor americani di Inspire era avvenuto in aperta contraddizione con il Quinto Emendamento della Costituzione Americana, creando un precedente giudicato pericoloso da molti analisti.
Che sia stato premeditato, o che nasca opportunisticamente sull’onda degli eventi, il comunicato di al Qaeda dimostra quanto l’organizzazione terroristica conosca bene la nostra antropologia; molto più di quanto noi conosciamo la loro. Infatti ha gioco facile a inserirsi come un cuneo nelle contraddizioni occidentali, per acuirle e allargarle.
Al Qaeda si chiede, a conti fatti, quale sia la differenza tra l’attacco a «Charlie Hebdo» e il bombardamento che ha azzerato i vertici di Inspire. E chiede conto del perché in un caso si parli di “attacco alla libertà d’espressione” e nell’altro questa libertà venga negata? E ancora perché agli occidentali è concesso insultare il profeta o fare proclami bellicosi a mezzo stampa, mentre ai musulmani non è concesso fare altrettanto sulle loro testate?
Il ragionamento è pretestuoso, facilmente decostruibile da chi abbia i mezzi culturali per farlo, ma chi è il vero destinatario di questa rivendicazione? Pensare di essere noi, europei bianchi e occidentali, non è solo un sintomo di arroganza e dell’incapacità di relativizzare il nostro punto di vista, sottraendolo all’eurocentrismo che lo caratterizza, ma è anche una grave sottovalutazione della capacità comunicativa di al Qaeda.
Non ci sono i mezzi per affermarlo con certezza matematica, ma ci sono buone possibilità che questa rivendicazione parli molto più ai musulmani europei e d’occidente, che a noi. Ovvero a un vasto gruppo sociale che oggi ha nella religione tanto uno stigma, che attira su di esso un odio sempre più palpabile, quanto l’unica prospettiva politica di riscatto sociale. A loro al Qaeda sta mostrando che i diritti e i valori che le società europee e occidentali chiedono di abbracciare, in nome di una pacifica convivenza, non sono altro che vuota retorica, manipolabile a seconda degli interessi del momento. Perché, sembra domandare al Qaeda, dovete prendere le distanze dai vostri fratelli oppressi, in nome di valori che, coloro che vi opprimono, non applicano se non con una discezionalità partigiana?
La domanda apre un colossale abisso di senso, lo stesso da cui è scaturita la violenza di tre ragazzi parigini, cresciuti ai margini della grande e ricca città, contro un simbolo della loro stessa cittadinanza. Questo vuoto non si colma sublimando le nostre contraddizioni e nascondendole sotto un hashtag. Questo vuoto non si colma riattivando i simulacri dell’identità e le logiche duali dello conflitto di culture. Se si colma, questo vuoto, è solo affrontando le nostre contraddizioni, riconoscendo che i nostri valori non sono monoliti assoluti, bensì concetti che vanno rinegoziati, difesi e riaffermati ogni giorno, tutti i giorni. Rifiuto della violenza, senza obliterare il diritto di critica sono le armi migliori che abbiamo in questa battaglia. Impariamo a non riporle mai.