Una recensione all’ultimo libro di Pietro Montani “Tecnologie della sensibilità. Estetica ed immaginazione interattiva” (Cortina, 2014).
«Non era mai accaduto prima, nella storia dell’umanità, che un così grande numero di immagini fosse reso accessibile a un numero altrettanto grande di persone dotate della competenza sufficiente per raggiungerle, scaricarle, condividerle, archiviarle ma anche – e questo aspetto è ancora più importante – per produrle, manipolarle e caricarle in rete»
Inizia così l’ultimo libro di Pietro Montani, Tecnologie della sensibilità. Estetica ed immaginazione interattiva (Cortina, 2014). A quattro anni di distanza dal precedente testo L’immaginazione intermediale (Laterza, 2010), Montani torna su un tema centrale della riflessione filosofica che lo vede impegnato ormai da molti anni (dalla pubblicazione, cioè, di Bioestetica) nell’indagine del rapporto tra estetica e nuove tecnologie. Il tema è quello del potenziale elaborativo dell’immagine, ovvero della capacità dell’immagine di essere occasione di un’elaborazione (singolare o collettiva) dei vissuti traumatici, dei pensieri e delle emozioni ad essi collegati. Tecnologie della sensibilità muove dal riconoscimento dei cambiamenti che si sono prodotti negli ultimi anni – vale a dire negli anni di diffusione planetaria della cultura partecipativa e interattiva della rete: per la prima volta nella storia dell’umanità un grande numero di persone ha a disposizione i mezzi tecnici per la produzione, manipolazione e condivisione di immagini, e con esse di pensieri, sentimenti ed emozioni che necessitano di essere elaborati. È possibile che tali innovazioni tecnologiche possano essere orientate esattamente nella direzione di quel potenziale elaborativo proprio dell’immagine? E se sì, a quali condizioni? Che queste condizioni – si chiede Montani nell’introduzione – siano le stesse che definiscono lo statuto della nostra immaginazione? Per rispondere a tali domande, il filosofo romano rimette nuovamente sotto analisi la categoria dell’immaginazione, ingaggiando un’interlocuzione serrata e articolata con il pensiero critico kantiano, che lo porterà a mettere in chiaro il carattere eminentemente interattivo dell’immaginazione.
La premessa necessaria a una teoria dell’immaginazione interattiva è il riconoscimento del suo “essenziale radicamento nella sensibilità umana” la quale si caratterizza per la sua illimitata apertura allo stimolo, vale a dire per la completa apertura alla contingenza e all’esperienza. Laddove le macchine e gli animali non umani attivano automaticamente o istintivamente operazioni di filtraggio dei dati recepiti, la sensibilità umana risulta ampiamente ricettiva proprio rispetto a quella differenziatezza, imprevedibilità e contingenza dell’esperienza.
La tesi è molto forte e allo stesso tempo stabilmente radicata nella filosofia critica di Kant. Montani fa riferimento al IV paragrafo dell’Introduzione alla Critica della Facoltà di Giudizio in cui Kant discute la differenza tra la facoltà determinante di giudizio (sussumere il caso particolare sotto una regola già data, cioè ricondurla a una categoria dell’intelletto) e la facoltà riflettente di giudizio (ovvero sussumere il caso particolare sotto una regola che non è già data, ma va creativamente trovata). Il carattere interattivo dell’immaginazione va rintracciato esattamente in questo schematismo della facoltà riflettente di giudizio, cioè nel libero gioco di immaginazione e intelletto – o più precisamente nell’originaria attitudine alla sintesi per cui il dato sensibile viene ricondotto a qualcos’altro. Si tratta di un punto di grande importanza per le tesi che verrano esposte in seguito. Senza l’incontro tra la concettualizzazione delle intuizioni e la sensibilizzazione dei concetti (vale dire senza lo schema) non vi potrebbe essere alcun tipo di intelligibilità del mondo, non vi potrebbe essere esperienza. Il problema, però, è che questa relazione tra l’intuizione e il concetto (ovvero tra il dato sensibile e il suo referente concettuale e quindi linguistico) trova fondamento in una più originale disposizione, cioè proprio in quello schematismo libero, che – scrive l’autore – «indugia in una preliminare e indeterminata perlustrazione di tutte le pertinenze che potrebbero rendersi disponibili senza determinarsi ancora per nessuna di esse […] una sorta di creatività istitutiva di regole possibili» (pp. 28-29).
Ora, per poter comprendere il rapporto che sussiste tra questo originario carattere interattivo della nostra immaginazione e l’attuale dispiegamento planetario di pratiche e protocolli interattivi reso possibile dalle tecnologie digitali, è necessario risalire alla relazione che si instaura tra immaginazione interattiva, tecnica e sensibilità. Da un lato, infatti, la capacità tipicamente umana di lavorare creativamente alla realizzazione di artefatti tecnici – e naturalmente di quelli artistici – è da ricondurre proprio a quella perlustrazione indeterminata del libero schematismo, in cui immaginazione e intelletto si accordano liberamente; d’altro canto la sensibilità umana – su cui, come abbiamo già detto, si radica questo lavoro dell’immaginazione – è naturalmente predisposta, proprio in virtù dell’intonazione tecnica dell’immaginazione, a organizzarsi, prolungarsi e delocalizzarsi in protesi tecniche. «Parlare di esperienza estetica, per il genere umano, significa coessenzialmente riferirsi ad una tecno-estetica» (p. 39). Tuttavia la progressiva istituzionalizzazione dell’esperienza estetica – ciò che Gadamer nomina come differenziazione estetica e che arriva fino all’Artworld teorizzato da Danto – produce un occultamento di questo rapporto essenziale tra esperienza estetica e tecnica e quindi anche di quello tra arte e tecnica. Per usare le parole di Montani: «l’arte abdica, almeno tendenzialmente, ad una delle sue funzioni più caratteristiche: la capacità di esplorare criticamente le risorse delle innovazioni tecniche» (p. 57).
Ed è proprio sul terreno di questa originarietà rimossa del rapporto tra arte e tecnica che Montani riaggancia il problema del potenziale elaborativo delle immagini (e quindi anche della reciprocità tra etica ed estetica), ricorrendo ad alcune tesi benjaminiane. Come è noto, nel saggio sull’opera d’arte Benjamin sosteneva il carattere storico dell’aisthesis, ovvero il fatto che le modalità di organizzazione del sentire sono determinate non solo naturalmente, ma anche storicamente e variano, quindi, con il variare delle condizioni mediali. L’arte riflette queste trasformazioni, che la porteranno nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e massificata a perdere il proprio carattere auratico in favore di una funzione espositiva, a partire dalla quale è possibile pensare una politicizzazione dell’arte da opporre a un’estetizzazione della politica. È sullo sfondo di questa tesi che Montani propone un’operazione interpretativa molto netta: ovvero l’accostamento dell’artista politico del saggio sull’opera d’arte con la figura dello storico materialista, che attraverso un lavoro molto simile a quello del montaggio può trasformare un’immagine del passato in un’immagine dialettica, capace cioè di testimoniare il passato non nell’ambito di una ricostruzione lineare di esso, ma nella forma di discontinua tensione con il presente.
È chiaro, allora, qual è l’esito e allo stesso tempo la posta in gioco della riflessione di Montani: l’evoluzione tecnologica ci ha resi tutti, che lo vogliamo o meno, potenziali artisti politici (o storici materialisti), poiché tutti siamo in grado di produrre, manipolare e condividere immagini; qualsiasi utente può “spazzolare la storia contropleo”, attraverso facili operazioni di montaggio, attingendo all’enorme archivio della rete. Tuttavia le pratiche e i protocolli dell’interattività – e a questo Montani dedica l’ultimo capitolo del volume – sono ancora strettamente legati a procedure standardizzate e limitate, a un’interattività che assomiglia ancora molto a quelle forme di cooperazione interpretativa previste, in fondo, da qualsiasi opera. Il risultato di una efficace creatività interattiva (quella che l’autore definisce Rule Making Creativity) non è più l’opera in senso estetico tradizionale, ma quello che nei termini di G. Simondon Montani chiama ambiente associato, ovvero l’insieme di «forme di vita tecnica capace di trasformarsi in mondo non programmabile, benché conforme a regole» (p. 77.).
Le domande poste in apertura dall’autore hanno certamente trovato risposta: perché si attivi il potenziale elaborativo delle immagini dovremo certamente ritornare alle condizioni che definiscono lo statuto della nostra immaginazione interattiva. Ciò significa che si dovrà lavorare affinché i dispositivi interattivi – e Montani ha in mente dispositivi di grande potenziale quali, ad esempio, Google Glass o più in generale quelli dell’Augmented Reality – più che andare nella direzione dell’ottimizzazione e pre-selezione del molteplice, riescano a restituire, nella modalità condivisa tipica della rete, l’esperienza della contingenza, adeguandosi e modificandosi di volta in volta in base ad essa. Quella che ha in mente Montani – e discute alcuni esempi della sfera online come Wikipedia, e del mondo dell’arte come l’installazione per il “Museo della Mente” di Roma di Studio Azzuro – è un’accezione forte del concetto di interattività, intesa come quel processo tecno-estetico aperto, in cui si delocalizza la sensibilità senza però perdere la sua imprevedibile apertura al molteplice dell’esperienza. Questo può essere il nuovo terreno di incontro tra arte e tecnica ma soprattutto è su questo terreno che si gioca la partita, sempre aperta, della rete e delle tecnologie digitali a essa connesse. Imboccheremo la strada della stupidità, ovvero dell’anestetizzazione e dell’emotività inelaborata, o quella dell’intelligenza, intesa come sviluppo di nuove forme creative capace di far lavorare la nostra immaginazione interattiva?