Dai quattro mesi del Teatro Valle Occupato al 15 ottobre: la piazza si fa strada

Riprendiamoci il Valle

Teatro Valle: Piazza Grande
Sono trascorsi centoventidue giorni da quando il Teatro Valle è stato restituito alla città di Roma. Centoventidue giorni durante i quali il tempo riconquistato e lo spazio riappropriato sono stati investiti da un’esplosione di corpi. Corpi che hanno agito matasse di connessioni tra esperienze dislocate per tutto il paese e che, incontrandosi, hanno progressivamente restituito a una realtà sempre più frammentata l’unità complessa che la caratterizza per natura.

Se non altro, questa è la considerazione che ha avuto la possibilità di trarre chi ha partecipato all’assemblea per gli Stati Generali della Cultura del 30 settembre dopo aver frequentato il teatro all’alba della sua occupazione.

Seppur continuando a percepirsi il rischio – fisiologicamente latente – di incantarsi all’infinito nella ripetizione dell’idea di cambiamento senza mai incarnala completamente, è altrettanto impossibile non realizzare come in quello spazio qualche cosa di veramente diverso stia accadendo. È sufficiente guardare al rapporto tra cose che generalmente siamo portati a pensare come separate e, soprattutto, che siamo stupidamente abituati a considerare collocate su piani di valore differente. Al Teatro Valle infatti, la demenziale verticalità che attribuisce a ciò che sta in alto un’importanza e a ciò che sta in basso un grado inferiore di legittimità, viene completamente polverizzata. Lì tutto accade e si incontra sullo stesso piano, che corre orizzontalmente: il corpo e il pensiero, l’io e la collettività, l’arte, il mestiere e la riflessione politica. Tutto è parte di un unico tempo che, nella presenza condivisa, diventa luogo: luogo di cambiamento.

Con il trascorrere dei mesi, l’occupazione di questo Teatro sta dando la possibilità di confrontarsi con il fatto che se si ha il coraggio di sottrarsi al ritmo sterile dalla configurazione dei processi formativi contemporanei e a quelli dell’intermittenza della vita professionale a cui siamo costretti, il tempo comincia a passare facendosi Storia. L’invecchiamento, che stiamo nascondendo dietro a facciate di plastica, in realtà è il prodotto di un rincorrere sfrenato un’idea di vita mentre (non) se ne vive un’altra, perdendo così la possibilità di una reale trasformazione.

L’esperienza dell’occupazione del Teatro Valle, che dura il tempo di cui ha bisogno per compiersi, dimostra quindi come, per smettere di invecchiare e cominciare a crescere, sia necessario e decisivo fermarsi e tornare ad occuparsi di sé: come soggetti e come comunità.

Mentre viene redatto un nuovo statuto per la gestione del Teatro, con l’aiuto dei giuristi Stefano Rodotà e Ugo Mattei [1], si ragiona a sipario aperto sulle responsabilità del sistema economico in cui viviamo che ha trasformato in merce i diritti dandoli in pasto alla finanza. Si analizza il percorso attraverso il quale si è prodotta una realtà nella quale o si galleggia – rischiando di affondare in ogni momento – o si annega, e si decide che bisogna ripartire dal perdere il senso della proprietà per ristabilire quello imprescindibile della responsabilità e della relazione. Mentre si occupa la scena con spettacoli e proiezioni, mentre si “costruisce” un’orchestra del Teatro che suoni una nuova musica, si fanno assemblee diurne e notturne in nome del diritto all’insolvenza e della riappropriazione delle forme di reddito. Si sviluppano proposte per un welfare che garantisca un reddito continuato a quelle categorie di lavoratori – ormai praticamente tutti – costretti ad un’intermittenza invalidante. Si ragiona sulla possibilità di agire forme di default controllato per sottrarsi al pagamento del debito per cui nessuno, nato dopo la metà degli anni settanta, non solo non avrà mai un lavoro fisso, ma soprattutto non avrà mai accesso a una pensione. Al Teatro Valle si lavora per imparare a tessere una narrazione comune indipendentemente da categorie e stato economico attraverso una testimonianza e una pratica di saperi. Lo si fa organizzando una rete sempre più massiccia di confronti e collaborazioni che va dagli eterogenei contributi serali offerti al pubblico di logge e platea, ai workshop pomeridiani – sempre rigorosamente gratuiti – di improvvisazione, drammaturgia, editoria, di tecnica del suono. Fino ad arrivare ai corsi che si stanno svolgendo in questi giorni a ridosso della grande manifestazione del 15, su l’uso dei social-media per “Produrre informazione e produrre azione” e sulla narrazione del presente (in collaborazione con Federica Giardini, docente di filosofia politica all’Università di Roma tre).

In quattro mesi si sono dunque definiti strutturalmente dei passaggi politici importanti che forse avranno la forza di creare, anche in termini metodologici, un precedente: la riappropriazione fisica di un luogo emblematico e la coabitazione organizzata attraverso la cura costante dello spazio, sono diventati in un primo momento la platea all’interno della quale sono stati messi a fuoco i punti critici di una condizione di vita -sia privata che professionale- invivibile. Nella fase successiva, concluso il processo di decostruzione e individuazione, si è cominciato a lavorare sulla riconfigurazione dei significati necessari in base a una priorità di diritti fondamentali. Il bene comune, in termine di relazione condivisa diretta responsabile e partecipata con una data cosa, ha fatto da vettore per tale processo. Ora, mentre si conclude l’elaborazione di un atto giuridico, economicamente sostenibile, relativo alla gestione futura dello spazio occupato, parallelamente alle assemblee pomeridiane di riflessione condivisa, si organizzano corsi di formazione. In ultima, si tessono relazioni con le altre realtà che, collocate lungo il resto della penisola, stanno ragionando sulle medesime tematiche e saranno, le une accanto alle altre, in piazza il 15 ottobre.

La rete prende corpo
Quelle che scenderanno in piazza sabato saranno una rete di realtà che si sono intessute tra loro attraverso l’utilizzo dei socialnetwork e del web. Seguendo l’evoluzione degli avvenimenti di “piazza” dell’ultimo anno/anno e mezzo [2], si ha modo di assistere a una progressiva orizzontalizzazione dell’asse -fino a questo momento verticale- dell’autorità nel campo delle comunicazioni. Orizzontalizzazione che si esprime attraverso la rimaterializzazione delle relazioni tra i corpi-le parole-le cose.

I giornali nazionali, in ritardo sulla miriade di cittadini e gruppi di persone, hanno cominciato solo negli ultimi anni ad aprire blog e siti delle proprie testate. Per i primi tempi, nell’economia del loro investimento editoriale complessivo, la realtà online ha giocato un ruolo molto periferico. Oggi invece assistiamo a uno spostamento di questo investimento. Ne sono chiara espressione le evoluzioni strutturali e contenutistiche proposte sulle pagine web dei maggiori quotidiani e il fioccare inarrestabile di pubblicità.

Il web fa il mercato che la carta non fa più.

Ma soprattutto, è stato il web -inestricabile matassa di persone in rete- ad imporre questo slittamento. Se vuoi stare sulla notizia, se vuoi esistere tra chi le informazioni le produce e le diffonde, se vuoi essere letto, sapere e farti sapere, commentare e essere riconosciuto, devi stare online. Ne è chiara dimostrazione il fatto che le notizie su cui noi oggi creiamo la nostra informazione le troviamo prima sul web che al telegiornale o sulla carta stampata.

Senza dubbio gli avvenimenti nordafricani dell’inverno e della primavera scorsa, hanno giocato un ruolo decisivo nella compressione dei tempi e nella conseguente esplosione di questa affermazione. Ma quel che importa, al di là della facile sintesi che ho suggerito per dare lettura di un fenomeno molto più complesso e contraddittorio, è un dato tanto decisivo quanto paradossale: attraverso l’immaterialità della rete, le persone stanno riuscendo a ricostituire il corpo della propria comunità. E, sempre restando nel paradosso, il collante più dirompente si sta dimostrando l’insieme degli effetti negativi di un sistema economico e politico al collassato.

È come se la società civile stesse trovando il modo di colmare il vuoto di rappresentanza che si è creato -come una voragine- attorno alle esigenze reali e alle necessità fondamentali.

La Piazza che si farà strada per Roma il 15 ottobre, sarà il corpo di queste esigenze e di queste necessità.

L’immaginazione e il desiderio imprescindibili per la costruzione di un nuovo modo che si faccia mondo, partono domani da un corteo che rivendica il diritto legittimo a non pagare il prezzo di una crisi che non ha prodotto, affermando la volontà di partecipazione alla costruzione del proprio destino.
Links utili:
http://15october.net/
http://15ottobre.wordpress.com/
http://www.unicommon.org/index.php
http://occupiamobankitalia.wordpress.com/
http://www.scioperoprecario.org/category/15-ottobre/
http://www.teatrovalleoccupato.it/

Note

[1] Lo statuto verrà presentato pubblicamente il 20 ottobre in conferenza stampa al Teatro Valle Occupato.

[2] Dalla manifestazione del Popolo Viola, a quella del 14 dicembre a Roma. Dal movimento no-Tav, all’occupazione del Teatro Valle e dell’ex Cinema Palazzo -Sala Vittorio Arrigoni-, fino ad arrivare all’assemblea pubblica di fronte alla Biblioteca Nazionale di Roma e a #occupiamobankitalia

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