La guerra amministrativa a immigrati, rom e occupanti. Il censimento proposto da Salvini non serve a identificare le persone per riconoscere i loro diritti, ma a schedare le categorie “indesiderate” e “pericolose” della popolazione, isolando chi ne fa parte.
Il 18 giugno del 2018, nel corso di un’intervista a TeleLombardia, Matteo Salvini si è detto intenzionato a realizzare un «censimento» dei “nomadi”, proponendo addirittura di istituirne «un’anagrafe». A distanza di qualche giorno, ospite del programma televisivo Agorà, il ministro dell’interno ha presentato i suoi obiettivi come pienamente legittimi: «Chiedere a chi vive nei campi rom, nome e cognome, indirizzo, codice fiscale, carta di identità, quanti figli ha e quante tasse paga è normale o no? Noi siamo censiti, perché non dovrebbe esserlo chi vive da nomade? Se non mandi i figli a scuola, io i figli te li tolgo, perché la legge dice questo. Non è che se tu sei un rom ti puoi permettere di far vivere i tuoi figli nella schifezza».
Poche settimane dopo, il 1 settembre, il ministero dell’interno ha diffuso una circolare – firmata dal capo di gabinetto del ministro, Matteo Piantedosi – volta a dare istruzioni sulla gestione delle occupazioni «arbitrarie» di immobili. Il documento, al di là della sua veste tecnica, contiene chiare e nette indicazioni politiche, fornendo una robusta copertura istituzionale alle azioni di sgombero. Ai prefetti, chiamati a tradurre in pratica i provvedimenti di allontanamento emanati dalle autorità giudiziarie, è attribuito il compito di individuare «una scala di priorità che tenga conto della “tutela delle famiglie in situazioni di disagio economico o sociale”», acquisendo tutte le informazioni necessarie sulle persone presenti negli stabili oggetto di sgombero. A questo scopo, la circolare indica come unica soluzione possibile un «censimento degli occupanti». Il monitoraggio delle persone presenti nell’occupazione, recita il documento, «dovrà essere finalizzato alla possibile identificazione degli occupanti e della composizione dei nuclei familiari, con particolare riguardo alla presenza all’interno degli stessi di minori o altre persone in condizioni di fragilità, oltre alla verifica della situazione reddituale e della condizione di regolarità di accesso e permanenza sul territorio nazionale». Le difficoltà che gli operatori potrebbero incontrare devono essere affrontate «sfruttando, ove possibile, le risultanze dei registri di anagrafe, o anche dei dati in possesso di altre pubbliche amministrazioni, nonché degli stessi Servizi sociali per quegli occupanti che già beneficiano di eventuali prestazioni assistenziali».
Tra le dichiarazioni sui “rom” e l’emanazione della circolare sugli sgomberi, Salvini ha calato sul tavolo dell’attacco alle categorie “marginali” della popolazione un’altra carta pesante: il 23 agosto, il quotidiano Il sole 24 ore ha pubblicato l’anteprima di un imminente pacchetto sicurezza sull’immigrazione[1]. Tra i nove punti contenuti nel provvedimento, figura la soppressione del diritto all’iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo e, contemporaneamente, l’istituzione di un documento di identità specifico per queste persone.
Le iniziative del ministro hanno un elemento in comune: l’attenzione per gli strumenti demografici, presentati come dispositivi finalizzati alla conoscenza e all’integrazione di specifici gruppi di individui. Salvini, infatti, giustifica e legittima le sue azioni con il pretesto del controllo del territorio e dell’inclusione di soggetti svantaggiati, dichiarando esplicitamente di non voler realizzare una “schedatura” di parti della popolazione. Con riferimento ai “rom”, il ministro si dichiara intenzionato a «tutelare prima di tutto migliaia di bambini ai quali non è permesso frequentare la scuola regolarmente perché si preferisce introdurli alla delinquenza». Quanto agli sgomberi, la circolare attribuisce alla ricognizione degli occupanti il ruolo di strumento utile a decidere quanti, tra coloro che occupano, rientrano in categorie “fragili” e, dunque, sono “meritevoli” di una sistemazione alternativa.
Invocando l’uso degli strumenti demografici, Salvini mette in luce – seppur del tutto involontariamente – le potenzialità e le ambiguità di questi dispositivi, spesso sconosciuti all’opinione pubblica e trascurati dal mondo della ricerca, nonostante costituiscano un oggetto di studio assolutamente interessante sul piano scientifico e strategico sul piano politico. I censimenti e le anagrafi rispondono infatti a una delle principali esigenze degli stati moderni: monitorare gli spazi statali e le persone che vivono al loro interno, organizzando di conseguenza la vita e le attività sociali in un ambiente, urbanistico e sociale, plasmabile e organizzabile sulla base delle esigenze pubbliche.
Dal punto di vista tecnico, riprendendo le parole dell’Istat, il censimento «coglie gli elementi demografici nella loro attualità», mentre l’anagrafe li cattura «nella loro continuità»[2]. Detto diversamente, se i censimenti sono paragonabili «a vere e proprie fotografie di un determinato istante», le anagrafi possono essere accomunate a «una serie di fotografie di vari istanti, le quali ci consentono di conoscere gli elementi demografici nella loro continuità, cioè di osservare il fatto demografico nella sua cinematica».
Il primo tipo di rilevazione, più in dettaglio, entra in funzione in un dato momento del tempo, di solito a intervalli regolari, interessa l’intero spazio statale e ha come oggetto le persone – residenti in maniera stabile o presenti in modo temporaneo – e i luoghi in cui queste vivono e lavorano. Il secondo è attivo in maniera continua, è unitario a livello nazionale pur essendo articolato a livello comunale, e si concretizza nella registrazione degli individui che dimorano abitualmente nei singoli Comuni e di diverse loro caratteristiche.
Censimento e anagrafe sono strumenti amministrativi tramite cui è possibile stabilire un nesso tra il territorio e le persone che lo abitano, consentendo di conoscere chi è effettivamente presente in ogni porzione dello spazio e di raccogliere informazioni sui movimenti di individui e famiglie, così da garantire la piena corrispondenza tra la popolazione di fatto e la popolazione di diritto.
Il controllo consentito da questi dispositivi, come anticipato, non ha come obiettivo soltanto le persone, ma anche l’ambiente fisico in cui vivono. Il Regolamento anagrafico, ad esempio, contiene un insieme piuttosto articolato di istruzioni indirizzate agli uffici anagrafici, che prescrivono di sviluppare un piano topografico, di attribuire un nome in maniera chiara e visibile a ogni spazio di circolazione, di numerare ogni porta, cancello o via d’accesso, ecc.
Le istruzioni impartite ai singoli comuni sono l’espressione di un bisogno di conoscenza e controllo più ampio, che caratterizza gli apparati di sicurezza statali sin dall’età moderna, e sono riconducibili a un sapere fortemente incentrato sull’identificazione e sulla classificazione di spazi e persone, che affonda le sue radici nel percorso storico da cui hanno avuto origine le polizie moderne.
I dati sulle presenze individuali e sulle migrazioni interne contenuti nei registri dell’anagrafe non rispondono soltanto a finalità di controllo, ma consentono anche alle autorità di espletare alcune funzioni fondamentali. La distribuzione delle risorse economiche territoriali avviene sulla base del numero di persone residenti nell’area comunale, della loro età, della composizione dei nuclei familiari, della concentrazione abitativa, etc. Questa distribuzione si traduce poi nella possibilità di esercitare concretamente diritti individuali di importanza fondamentale, come l’iscrizione al servizio sanitario nazionale; la fruizione dell’assegno per il nucleo familiare; l’accesso alle prestazioni socio-assistenziali; l’esercizio del diritto di voto, ecc.
Non a caso, negli ultimi anni numerosi Comuni hanno attuato strategie più o meno esplicite e dirette, del tutto illegittime sul piano giuridico, per negare l’iscrizione anagrafica a individui che, sulla base delle leggi statali, ne avrebbero diritto. In questo modo, le amministrazioni locali hanno impedito l’esercizio effettivo di diritti fondamentali[3].
Il rifiuto della residenza costituisce un dispositivo di selezione della popolazione, orientato a scegliere chi è “meritevole” di essere riconosciuto come cittadino locale e di avere accesso a benefici e prestazioni. Un dispositivo di questo genere, però, è in contrasto, giuridicamente e materialmente, con la funzione di monitoraggio che competerebbe all’anagrafe. Nel momento in cui si decide di non registrare come residenti individui presenti nello spazio comunale, la corrispondenza tra la popolazione di fatto e la popolazione di diritto non è più garantita.
I registri anagrafici sono dunque uno strumento di controllo sociale che può rispondere a obiettivi diversi e tra loro contrapposti. Dalla prospettiva degli apparati statali incaricati di monitorare il territorio, lo scopo dei registri è individuare le persone presenti nello spazio statale e attribuire a ciascuna di esse un’identità amministrativa. Dalla prospettiva delle amministrazioni comunali che li impiegano in maniera distorta, sono un mezzo per difendere i confini simbolici e materiali della comunità locale, individuando i gruppi sociali considerati indesiderati e immeritevoli e negando loro un riconoscimento formale.
Il richiamo fatto da Salvini ai censimenti e alle anagrafi appare allora, oltre che insostenibile giuridicamente e inaccettabile politicamente, ambivalente sul piano degli obiettivi perseguiti. L’esponente leghista sembra infatti richiamare il primo tipo di obiettivo, pur mirando di fatto al secondo. Inoltre, se i censimenti e le anagrafi hanno come oggetto l’intera popolazione, le “schedature” proposte da Salvini – e, prima di lui, da Maroni – sono focalizzate su specifici gruppi, con l’intento di sottolinearne la distanza rispetto al resto della società. Si tratta perciò di dispositivi che tendono a individuare le componenti della comunità ritenute devianti e che, per differenza, sanciscono la distinzione tra la popolazione e il popolo, costituito dai “bravi” cittadini, come tali esonerati dalle pratiche straordinarie di monitoraggio. La parte “sana” della comunità, continuamente evocata nelle retoriche e nei discorsi dell’attuale titolare del Viminale – così come delle forze politiche al governo negli ultimi vent’anni –, viene quindi rassicurata e, al contempo, rinforzata per opposizione rispetto alla sua parte eccedente, esclusa o al massimo inclusa in maniera differenziale.
Con la scusa del censimento, pertanto, Salvini porta avanti una specifica visione della società e difende interessi di parte. Dalla sua prospettiva, vivere in maniera “indecorosa”, ossia in baracche o in strada anziché in case “normali”, non è il frutto di politiche, ma è una scelta personale, inaccettabile e da sanzionare. Altrettanto sanzionabile è il conflitto sociale, al quale è negato ogni margine di legittimità: quando l’agire politico si fa illegale, sparisce qualunque spazio per la negoziazione e rimane solo la repressione. Soprattutto se a essere a rischio sono i beni e le risorse economiche della parte “buona” della comunità. La circolare sulle occupazioni, al riguardo, è piuttosto chiara: «nel contemperamento dei diversi interessi che vengono in rilievo in relazione agli sgomberi, il diritto di proprietà [in neretto nell’originale] receda limitatamente ed esclusivamente a fronte di quelle situazioni che possono pregiudicare l’esercizio da parte degli occupanti degli impellenti e irrinunciabili bisogni primari per la loro esistenza, collegati a una particolare condizione di vulnerabilità». In altre parole, fatto salvo il rispetto dello stato di necessità delle persone “vulnerabili” – stabilito discrezionalmente dalle prefetture e dai soggetti del privato sociale a cui la circolare delega il compito valutativo –, la proprietà privata detiene un valore maggiore rispetto all’autodeterminazione e al benessere di individui e gruppi.
Con buona pace della retorica della sicurezza e del decoro, incentrata sulla pretesa di difendere semplicemente una convivenza ordinata e pacifica, rappresentata come neutrale sul piano dei valori, visioni come questa esprimono una netta preferenza per un preciso assetto valoriale. A essere promosso è un ordine pubblico ideale, non materiale[8], che rimanda a un modello di società rigidamente stratificato, al cui interno lo spazio di azione per soggetti considerati marginali o pericolosi è estremamente ridotto. Un’idea di questo genere, in un paese veramente democratico e costituzionalmente orientato, dovrebbe essere considerata una minaccia per una vita collettiva realmente “ordinata” e “pacifica”. Nell’Italia di Salvini, e prima ancora di Minniti, di Maroni e di Amato, la minaccia non sembra però apparire come tale.
[1] Istituto Nazionale di Statistica (Istat) (1992). Anagrafe della popolazione, legge e regolamento anagrafico. Avvertenze, note illustrative e normativa AIRE, «Metodi e norme», serie B, 29, p. 7.
[2] Su questo punto si rimanda a E. Gargiulo La residenza come campo di tensioni. I conflitti sull’iscrizione anagrafica e la loro rilevanza per lo studio delle migrazioni interne, in Fornasin A. et al. Per una storia della popolazione italiana del ‘900, Udine, Forum Editrice, 2016 e Dalla popolazione residente al popolo dei residenti le ordinanze e la costruzione dell’alterità, in «Rassegna italiana di sociologia», n. 1, 2015.
[3] Per questa distinzione si rimanda a http://www.lavoroculturale.org/mantenere-ordine-feticci-liberali-e-principi-etici-nella-gestione-della-sicurezza-pubblica/.