Verso il doppio sguardo

Cinema e immigrazione in Italia.

Nel saggio Nella terra di mezzo. Cinema e immigrazione in Italia 1990-2010 (Meltemi,  2018) Giancarla Vanoli analizza la produzione cinematografica nazionale relativa alla questione dell’immigrazione individuandola come «il più macroscopico fenomeno socio-culturale dell’Italia contemporanea», fenomeno che proprio nei due decenni indagati ha manifestato caratteristiche specifiche repentinamente e profondamente mutate dopo il 2010.

Nell’operare un’analisi comparata delle principali opere di fiction italiane relative al tema dell’immigrazione, la studiosa si preoccupa di collocare le evidenze emerse all’interno del contesto  economico-produttivo e socio-culturale in cui sono state prodotte preoccupandosi di accostare in rapporto dialettico l’immigrazione e la condizione del cinema nei due decenni analizzati. «In questa relazione, il fenomeno migratorio e il meccanismo cinematografico si contengono e si rinforzano a vicenda, sul modello del rapporto d’ibridazione tra “reale” e “immaginario” nella cultura di massa illustrato dalle teorie di Edgar Morin» (p. 10).

Se in generale si può affermare che le opere cinematografiche, indipendentemente dalle intenzioni degli autori e delle inevitabili deformazioni, rispecchiano una società e la sua cultura, a questo riflesso i film sull’immigrazione, sostiene Vanoli, ne aggiungono un secondo determinato dalla relazione con l’“estraneo” immigrato: «questi film rimandano al soggetto/spettatore una diversa visione del mondo e di se stesso e grazie al confronto rivelano, nel bene e nel male, le caratteristiche della società di arrivo» (p. 11).Per certi versi, continua la studiosa,

immigrazione e cinema rappresentano […] sia l’oggetto della ricerca, sia lo strumento in grado di mettere a fuoco gli atteggiamenti, le attitudini e anche i limiti culturali dell’Italia nella fase di passaggio tra i due secoli. Non sembra dunque inappropriato parlare di mise en abîme – collocazione nel precipizio dell’infinito – come concetto chiave per restituire il senso profondo del meccanismo che il cinema della migrazione ha messo in atto nel corso del ventennio considerato, e che si riverbera in modo trasversale su molti snodi cruciali sia del cinema che della società (p. 11).

Il volume risulta suddiviso in tre capitoli contenenti altrettanti casi di studio in cui l’autrice si concentra su alcune produzioni italiane concernenti, in un modo o nell’altro, il fenomeno dell’immigrazione.

Il primo capitolo offre una panoramica generale volta a

chiarire relazioni complesse, come ad esempio quella tra le scelte politiche del periodo e l’industria delle comunicazioni di massa. L’analisi ragionata dei dati di quegli anni permette di evidenziare sia l’ambiguità delle letture ufficiali, peraltro condizionate […] dall’influenza della Lega Nord, […] dall’attivismo della chiesa cattolica e dalla sempre più determinante presenza dell’Europa, sia di mettere a fuoco l’impreparazione strutturale e organizzativa, prima ancora che culturale, dell’industria cinematografica italiana (p. 12).

Trova spazio in questa sezione anche un ampio excursus dedicato alla televisione italiana che, in maniera molto maggiore rispetto ad altri paesi, ha esercitato nel periodo indagato un’influenza importante tanto sugli aspetti economici e linguistici del cinema quanto sull’immaginario collettivo nazionale. 

In Italia, l’avvento delle televisioni private si connota infatti come lo strumento che sembra dar voce al “popolo”, in contrasto con la cultura elitaria e paternalistica della Rai e, sulle prime, soprattutto al “popolo padano” in antitesi alla Rai romano-centrica. Ne deriva che la televisione è la via attraverso cui è favorita l’elaborazione delle istanze locali poi riflesse dal cinema e l’incubatore di quei modelli di relazione che, dalla contrapposizione nord/sud, vengono poi applicati alla contrapposizione italiano/“extra-comunitario” (p. 12).

Il caso di studio indagato nel capitolo riguarda la serie televisiva di fine anni Novanta finanziata da Raidue Un altro paese nei miei occhi” ideata del regista Roberto Giannarelli e dalla sceneggiatrice Renata Crea composta da quattro film: Di cielo in cielo (1997) di Roberto Giannarelli ; L’appartamento (1997) di Francesca Pirani; L’albero dei destini sospesi (1997) di Rachid Benhadj; Torino Boys (1997) dei Manetti Bros (i fratelli Marco e Antonio Manetti).

Nel secondo capitolo vengono passati in rassegna diversi film sull’immigrazione. Dall’analisi di una categoria dai confini piuttosto incerti come questa la studiosa individua

il peso di un canone consolidato, poiché il nuovo filone tematico sembra ripercorrere esattamente i passaggi della tradizione, che conducono dal neorealismo alla commedia come unico modello retorico-stilistico disponibile, sebbene adattabile con difficoltà per chi voglia cimentarsi con un soggetto del tutto nuovo, privo di riferimenti e fino ad allora ignorato dal racconto nazionale qual è il rapporto con lo straniero (p. 13).

I due decenni di cinema italiano analizzati palesano la scarsa dimestichezza col tema migratorio, il ricambio generazionale e i mutamenti tecnologici che, semplificando e allargando la produzione e la diffusione delle opere, permettono inedite possibilità di «riproduzione/rappresentazione di temi legati all’attualità e dunque […] di testimoniare con immediatezza la realtà di cui il fenomeno migratorio è una parte così preponderante» (p. 14).
Il caso di studio di questo capitolo è costituito da tre opere: Terra di mezzo (1997) di Matteo Garrone; nuovamente Torino Boys (1997) dei Manetti Bros; Bell’amico (2002) di Luca D’Ascanio.

Nel terzo capitolo si passano in rassegna film della generazione più giovane di registi approfondendo attraverso essi le questioni psico-relazionali, estetiche e stilistiche, legate al concetto di “visualità”. Dall’analisi emerge come in un momento storico in cui si intensifica la presenza di immigrati nei film, come nella società, il sistema produttivo, interessato soprattutto agli incassi, tenda a privilegiare la commedia, pur declinata in tutte le sue sfaccettature. Nonostante il ricorso ad un genere che caratterizza la cinematografia nazionale dal secondo dopoguerra fino agli anni Settanta, le nuove produzioni, sostiene Vanoli, non mancano di palesare importanti mutamenti rispetto al passato. Soprattutto nelle pellicole “di qualità” «risulta chiaramente come le differenze generazionali siano anche differenze culturali profonde, che si esprimono nella diversa attitudine complessiva rispetto all’Altro».

Il caso di studio su cui si focalizza questo capitolo è costituito da tre opere: Le ferie di Licu (2007) di Vittorio Moroni; Il vento fa il suo giro (2005) di Giorgio Diritti; La nostra vita (2010) di Daniele Luchetti.

Nell’insieme, il ventennio che coincide con la trasformazione del paese da terra di emigranti a meta d’immigrazione, si configura come una fase di transizione sotto tutti i profili, in cui un mutamento della società che può definirsi antropologico si accompagna a quello dei sistemi di produzione e di trasmissione della cosiddetta cultura di massa, divenuta ora glocal e pop. Una vera terra di mezzo, il cui attraversamento è stato condizionato in modo profondo dal fenomeno migratorio e definito, sia all’inizio che alla fine, da cambiamenti traumatici del contesto politico e sociale. Il periodo chiuso nella parentesi di questi bruschi mutamenti, nonostante l’impressione di stasi che la definizione sommaria di “ventennio berlusconiano” sembra suggerire, vede mettersi faticosamente in moto un processo profondo e sotterraneo, di cui il cinema dell’immigrazione fornisce testimonianza documentando l’emergere di riflessioni fino ad allora semplicemente ignorate dalla società, come quella sul razzismo, sul ruolo sociale delle élite culturali, sul concetto di diversità come risorsa e non come debolezza, tutte questioni oggi quantomeno apertamente esplicitate, sebbene i relativi esiti rimangano tuttora oscuri e forse, per certi versi, inquietanti (p. 16).

Se i cambiamenti che hanno toccato l’Italia nei due decenni presi in esame da Nella terra di mezzo non sembrano essere stati percepiti all’epoca nella loro profonda portata, nel racconto dell’immigrazione offerto dal cinema è oggi possibile cogliere l’avviarsi di importanti trasformazioni culturali che soltanto ora si palesano in maniera più evidente. Quel cinema ha molto da dirci sull’oggi, nonostante nell’attuale contesto molte delle vicende affrontate da quei film appaiono inattuali; basti pensare che il tema del razzismo è stato spesso assente dal dibattito socio-culturale dell’epoca e «sostanzialmente negato nei film, come estraneo al carattere italiano che, al fondo, si auto-rappresenta come accomodante e generoso». Se l’attuale contesti socio-politico sembra rendere lontane diverse vicende trattate dai film di quei decenni, «è per il loro tramite che passa la corrente sotterranea delle grandi questioni uscite allo scoperto negli anni successivi, relative ai temi fondamentali […] quali il razzismo, il ruolo delle élite intellettuali e delle fonti tradizionali d’informazione nei nuovi contesti di diffusione delle notizie, la rivalutazione del concetto di diversità nel rapporto tra piccole patrie locali e interesse nazionale, per finire con i temi delle discriminazioni di genere/gender e dei diritti civili» (pp. 281-282).

Secondo Vanoli il cinema italiano realizzato attorno al cambio di Millennio ha dato conto di un paese sostanzialmente sconosciuto a se stesso, mettendolo a confronto con una realtà esterna e ignota. Interrogarsi sull’identità italiana però, sottolinea la studiosa, significa anche fare i conti una volte per tutte con la politica coloniale degli “italiani brava gente” avendo il coraggio di superare anche quel consolatorio «assunto di fratellanza e uguaglianza tra popolazioni costrette dallo stato di necessità» (p. 283). su cui lo stesso Gianni Amelio ha strutturato il suo film Lamerica (1994).

Dunque se da un lato l’approccio critico dei “grandi vecchi”, con l’eccezione del cattolico Olmi, si è rivelato impraticabile per eccesso di paternalismo, […] nemmeno l’impostazione storico-umanistica e neorealista di cui Lamerica è il modello risulta efficace». I registi della generazione di mezzo, nel tentativo di restituire «una lettura politicamente corretta dell’attitudine italiana di fronte al fenomeno migratorio», al di là delle intenzioni, hanno finito per presentare una visione ideologica e buonista. «Ne consegue che nei film il rapporto con l’Altro si esprime in misura diversa a partire dai pregiudizi che l’autore mette in campo, frutto delle sue convinzioni, ma forse ancor più della sua biografia ed educazione. Per questo motivo l’evoluzione qui descritta è soprattutto legata alle differenze generazionali anche, banalmente, per la maggiore familiarità dei nuovi registi con lo straniero e le lingue straniere, oltre che con le tecnologie digitali, a conferma del fatto che, nell’approccio al tema, l’esperienza biografica è determinante quanto il contesto storico-sociale. La dimensione storica del rapporto con l’immigrato viene abbandonata dai registi “novissimi”, rappresentanti di “una generazione che non ha nulla da perdere, molto diseredata culturalmente”, per venire sostituita dalla visione della diversità in senso orizzontale e sincronico (pp. 283-284).

Questi autori sembrano riuscire ad instaurare con l’Altro una relazione maggiormente simmetrica riuscendo anche, in taluni casi, a fornire «quel doppio sguardo sulla realtà che giustifica per il cinema dell’immigrazione la definizione di meta-genere, e che caratterizza il registro narrativo e linguistico della cinematografia cosiddetta postmoderna» (p. 285).

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