Una lettura di Filosofia dell’automatismo, Igor Pelgreffi.
Con Filosofia dell’automatismo (Orthotes 2018), Igor Pelgreffi porta in un crocevia alcune linee di ricerca inaugurate in lavori precedenti, dal dispiegamento delle esegesi nietzscheana e heideggeriana compiute da Jacques Derrida alla configurazione dell’intervista come oggetto d’interesse filosofico, nella misura in cui si scorga in essa più che un genere narrativo un (macro-)dispositivo tecnico. Ma forse il vertice conclusivo più interessante, precisamente quello su cui s’intende porre l’enfasi in questa recensione, è lo sviluppo di un programma che l’autore delineava in maniera preliminare tre anni fa e in cui preparava già la piattaforma di lancio per la proposta di un’etica della corporeità.
Il riferimento è al contributo di Pelgreffi incluso nella collettanea Il capitalismo della scommessa, a cura di Vincenzo Cuomo e Eleonora De Conciliis.1 Il nucleo teorico e pratico del lavoro concettuale svolto in Filosofia dell’automatismo è presente già in questo breve scritto, anche se solo in modo laterale: costruire insieme schemi di resistenza alla perenne autoriproduzione del capitalismo, la quale si esprime sotto forma di una temporalità che prima e dopo presenta l’assoggettamento del corpo come qualcosa di ineluttabile. Nello spazio dell’intera trattazione, dunque, la risposta alla domanda “come si impara un automatismo?” viene sempre bilanciata con un’ulteriore domanda, ovvero, “come si dis-impara un automatismo?” in vista dell’avvento di un «automatismo critico»; “critico”, giacché «noi siamo gli automatismi che ci formano; ma anche noi reversibilmente alteriamo i nostri automatismi, ristrutturando noi e loro simultaneamente in virtù del nostro essere organismi plasticamente orientati al movimento»(p. 47). Naturalmente, alla proliferazione dell’automatismo critico si oppone l’automatismo che sussiste ora solo in virtù dell’estrazione perenne di valore avviatasi con la finanziarizzazione del capitale globale.
Si dirà di più: la dialettica fra automatismo, resistenza e costruzione di un’etica fondata sull’apprendimento degli automatismi, dialettica che si articola attraverso i capitoli di Filosofia dell’automatismo, appare come lontana eco delle considerazioni sociosemiotiche che alla fine degli anni ’80 faceva Ugo Volli intorno al tema della moda 2e la necessità, già allora, di resistere all’omologazione di struttura del tempo e struttura del capitalismo che era implicita nella sua affermazione sociale. Trent’anni dopo, si sente lo stesso richiamo non più declinato in chiave sociologica ma adeguato al canone dell’antropologia filosofica, branca delle discipline di questo tipo che con diligenza di metodo si dedica alla ricostruzione, dopo la stagione post-strutturalista, di un polo semantico che sia naturale, ovvero, che sia natura per l’essere umano. Entrambi i poli all’opera, l’automatismo come natura umana e la moda come dispositivo funzionale alla costruzione sociale, costituiscono la trappola perfetta: i processi di soggettivazione in combutta con l’assuefazione condizionano l’essere umano quando esso rivolge la sua comprensione tanto all’esistenza individuale quanto a quella collettiva.
La trattazione del dott. Pelgreffi è occasione per tracciare un’interessante percorso concettuale, esemplare di ciò che fu il panorama intellettuale europeo a cavallo fra Ottocento e Novecento, quando l’erosione del determinismo [Maurizio Ferriani, “L’erosione del determinismo”, Intersezioni, XII (1992), pp. 145-164.] apriva la strada per modelli di rigore scientifico non più fondati su una visione meccanicistica del mondo e dei corpi che lo abitano. In questo senso, è un contributo notevole di questo libro il rintracciare l’origine del tema assunto a problema filosofico, l’automatismo, nel fecondo dialogo che si verifica sempre fra filosofia e una nascente disciplina scientifica, in questo caso la psicologia in area francofona. Oltre all’efficacia di collegare storia della filosofia e storia del pensiero scientifico, il lettore di Filosofia dell’automatismo potrà confrontarsi con una valida e competente esposizione dei capisaldi teorici del pensiero di Maurice Merleau-Ponty, in particolare con la nozione di schema corporeo, valorizzato in quanto intrinsecamente disponibile a modificarsi (p. 142).
La direttrice che parte dagli esordi della psicologia in Francia, fra Henri Bergson e Pierre Janet, dunque passa per l’indispensabile Fenomenologia della percezione e infine, naturalmente, permette all’autore di individuare una «grande analogia» (p. 168) fra schematismo corporeo e habitus, nell’accezione ormai celebre che questa nozione acquisì nella sociologia di Pierre Bourdieu; potrebbe persino argomentarsi che l’oikos di riferimento, ogni volta che l’autore accenna alle implicazioni ecologiche della trattazione, corrisponde al campo (inteso in senso bourdieusiano) e all’esservi esposto. Il fulcro di questo movimento, il modulo di questa direttrice dunque è il corpo, la sua passività ma anche il suo ruolo attivo nella “presa di forma”, relativa tanto al soggetto quanto alle istituzioni: « Tutto sta nel cogliere, ancora una volta, la complessità irrisolta di questo verbo: prendere. Esso indica l’assumere (passivamente) istituzione sociale, ma anche produrre (attivamente) istituzione, forme sociali» (p. 161). Ponendo quindi la corporeità alla base di una riflessione etica (che sussume il momento ecologico), diventa evidente come il tema dell’istituzione nell’odierna società di massa sia profondamente collegato al tema della ripetizione atomica di automatismi nell’individuo consumatore: il corpo subisce e propaga, il corpo è vittima ma anche detta le mode.
In questo modo, l’esergo merleaupontyano del quarto capitolo di Filosofia dell’automatismo è da individuarsi come architrave dell’intera trattazione dell’autore: «Io sono una struttura psicologica e storica» (pp. 133, 140, 177, 178). Si tratta di conservare una separazione fra oggetti naturali da una parte e oggetti storici (sociali e culturali) dall’altra per poi postulare la corporeità come soluzione sintetica ed originaria allo stesso tempo: più che la loro sequenza seriale, interessa la disposizione di questi oggetti nello spazio. Rompendo con la struttura del tempo (costituita dai dispositivi di autoriproduzione), si rompe anche con la struttura del capitale (che a sua volta poggia su una temporalità lineale). Aprirsi alla molteplicità delle disposizioni nello spazio infine è la prerogativa dell’automatismo critico: l’alienazione del tempo che permette di sottrarsi all’alienazione negativa, per riprendere le espressioni del testo del 2015.3
Certamente, l’autore riconosce, confrontandosi con Merleau-Ponty, che «il lavoro del corpo è un baricentro instabile ma necessario di attività e passività» (p. 47) ma comunque bisogna sempre tentare i primi passi, avviare «una riflessione propedeutica intorno ai suoi presupposti filosofici [dell’automatismo]»(p. 218). Per sopperire a ciò, nel terzo capitolo di questo lavoro, intitolato Figure dell’automatismo, il dott. Pelgreffi prende come campione d’analisi il ruolo svolto dalla corporeità nel gesto del performer: «il lavoro dell’attore è quanto consente all’attore di tenere assieme i propri automatismi dimenticati e quelli appresi»(Ivi, p. 92.). Le considerazioni si estendono fino al dominio dei musicisti, più specificamente gli strumentisti e il loro divenire automatici (pp. 117-118. In particolare, n.73.), rischiando però di provocare una perplessità nel lettore: è veramente così determinante (deterministica) l’impiego del paragone fra automa e performer musicale? (p. 119).
Se non fossero dinamiche della corporeità quelle in cui avviene la “coesistenza” fra differenza e ripetizione? Se invece nel musicista-automa fosse comunque il tempo la sola polarità da inseguire, e lo spazio fosse sempre da ridurre al tempo? Anche volendo ridurre la questione ai soli strumentisti, la rilevanza della disposizione nello spazio finisce ben prima della performance, mentre la fisicità del suono (che è spaziale e ha a che fare con l’agogica dell’esecutore) passa a secondo piano quando si stabiliscono le dinamiche (che invece hanno a che fare con la materialità e in ultima istanza rispondono esclusivamente al tempo): a nessun musicista, per quanto bravo interprete sia, piace suonare da solo, né può scoprirsi un musicista migliore (un migliore interprete) suonando da solo e non mettendosi in gioco con altri musicisti, che siano strumentisti o persino coreografi, che anche non suonando percepiscono lo scandire del tempo, il pulso, la suddivisione della battuta, la gestione degli accenti.4 La meraviglia che desta l’improvvisazione è proporzionale alla centralità che voglia conferirsi alla musica scritta rispetto a quella non scritta.5
Ma osservazioni tecniche come queste non possono che confermare la fecondità degli spunti presenti in Filosofia dell’automatismo. Nel creare l’occasione per discutere di questi argomenti nel contesto di un impegno preciso, quello di delineare la gestione critica degli automatismi, Pelgreffi rammenta che la bussola dell’attività filosofica è sempre il costituirsi come una pedagogia della resistenza, che prepari il lettore a confrontarsi con la contraddittorietà in modo tale da poter distinguerla dalla semplice contrarietà.
Note
- Igor Pelgreffi, “Il tempo della scommessa”, in Vincenzo Cuomo e Eleonora de Conciliis, Il capitalismo della scommessa, Mimesis, Milano e Udine, 2015.
- Ugo Volli, Contro la moda, Feltrinelli, Milano, 1988.
- Cfr. Id. “Il tempo della scommessa”, cit., pp. 153-158.
- Cfr. Sergiu Celibidache, La musique n’est rien. Textes et entretiens pour une phénoménologie de la musique, Actes Sud, Arles, 2012.
- Cfr. Roberto Leydi, L’altra musica. Etnomusicologia, Casa Ricordi, Lucca, 2008.