L’Occupy Movement in piazza a Roma
L’attesa della partenza la mattina del 15 ottobre è distensione collettiva, si ride e ci si guarda ancora anestetizzati dal sonno. C’è solo un vento implacabile, preludio di un inverno forse vicino, a spazzare il cielo terso di Siena. Alcuni arrivano in ritardo, altri attendono nei bar, ma alla fine si parte.
Le pagine de “Il manifesto”, il discorso di Žižek riportato per intero da “Internazionale”, sono lo spartito su cui intreccio le mie speranze, le mie previsioni, i miei timori per la giornata che ci apprestiamo a vivere. Noi, gli indignati italiani, abbiamo deciso come i nostri omonimi europei, americani e latino-americani, (e dopo i nostri cugini arabi) di manifestare dissenso nei confronti di chi vuol farci pagare i costi della crisi, scatenata da un capitalismo globalizzato che per decenni si è spartito i profitti di speculazioni sul lavoro e sull’economia reale. Una piccola élite multiforme e frammentata che si unisce nella pratica mangereccia del socialismo dei profitti e nella esternalizzazione delle responsabilità delle perdite: il lavoro, i beni comuni (naturali e cognitivi), la mia generazione e forse altre, subiscono l’influenza bipolare di un sistema economico eccitato dall’edonismo reaganiano e poi castrato a colpi di austerity francescana. Vi ricordate la scena finale del primo immenso Fantozzi? Il povero ragioniere in estetica da manifestante post-sessantottino (eskimo e capelli a mezzo collo) condotto con la forza davanti al megadirettore, viene disilluso rapidamente su tutti gli stereotipi che le malelingue aziendali avevano costruito intorno al padrone. Il megadirettore decostruisce infatti la rappresentazione del potere fiorita intorno alla propria figura (la poltrona in pelle umana, l’acquario con i dipendenti, le segretarie in topless), facendo accomodare Fantozzi su un austero inginocchiatoio ed invitandolo a condividere l’umile pagnotta. Ma non appena il ragioniere, sedotto dall’inaspettata povertà ascetica del suo datore di lavoro, ne accetta l’invito al dialogo (memorabile l’ “Io ho tempo!” posto a soluzione delle grandi questioni generate dal conflitto sociale), il candore austero del contesto si rovescia nella ricomparsa degli stereotipi padronali, ed ecco materializzarsi la poltrona in pelle umana, seguita dall’acquario con i dipendenti, all’interno del quale Fantozzi chiede prontamente di essere reintegrato. L’invito al dialogo nel nome di un comune sentire, calvinista, umile e silenzioso teso a smorzare la forza delle rivendicazioni di chi è sfruttato nel lavoro, diventa uno strumento di riaffermazione di quella immagine prevaricatrice e privilegiata del capitalismo, che Fantozzi in versione “rivoluzionario” voleva combattere.
Questa reminiscenza cinematografica mi accompagna sin dall’inizio della crisi. Chi come me stava per concludere un percorso di studi lontano da casa e si accingeva ad entrare nel leggendario mondo del lavoro (l’educazione in un contesto piccolo borghese come il mio, “il club degli statali”, mi impone di pronunciare la parola “lavoro” con un tono fatale), si è trovato improvvisamente sullo stesso fantozziano inginocchiatoio a sentire sermoni sul bisogno collettivo di ridimensionare le proprie aspettative, di partecipare con alcuni sacrifici al risanamento del DEBITO. Forse è questo il motivo che mi ha portato sull’autobus diretto a Roma il 15 ottobre, forse non lo è, e dietro questi oziosi ragionamenti nascondo un disagio che riesce a produrre solo livore. Ma mentre mi sforzo di comprendere, cullato dal dondolio del sedile polveroso dell’autobus, c’è un passaggio del discorso di Žižek che mi colpisce: “Sì, siamo violenti, ma nel senso in cui era violento il Mahatma Gandhi. Siamo violenti perché vogliamo cambiare le cose, ma cos’è questa violenza puramente simbolica rispetto alla violenza che fa funzionare il sistema capitalistico globale?”. Sì mi dico, questa manifestazione sarà in un certo senso violenta, ma lo sarà perché vuole sollevare di peso dall’austero inginocchiatoio globale la dignità di chi subisce la crisi, anche in questo Paese che cambiamenti veri sembra non conoscerne. Poi la voce di una delle mie compagne di viaggio infrange l’aulica immagine della “violenza puramente simbolica”: – Se la polizia lancia i lacrimogeni non respirate e usate i limoni. – Segue pronta distribuzione di Maalox per combattere la nausea provocata dal cloroacetofenone.
Infine Roma. È una di quelle giornate assolate, che ne lusingano la bellezza e ne esaltano le rovine. Il corteo è colorato e vivace, sembra un serpente affamato che si distende da piazza della Repubblica. Incontro compagni che non vedevo da tempo, lo striscione traforato del Partito comunista dei lavoratori, l’eleganza un po’ snob dei sostenitori di quello della lega dei socialisti, le spille del movimento per l’acqua, le facce rudi e certe degli operai della FIOM, la clessidra volante dei precari della scuola. Vedo un bambino incantato dal trombone che un signore paonazzo suona senza sosta, vedo migranti con le bandiere dei sindacati di base camminare fieri. Quindi via Cavour, sul lato destro della strada alcuni si staccano dal corteo per indossare i caschi, coprirsi il volto e sfoderare mazze di legno. La musica cessa, i discorsi s’interrompono, la gente in marcia verso piazza san Giovanni inizia a fischiare quello che si prospetta un epilogo già scritto. La fiducia nel corteo e il sole romano ci permettono di proseguire; i “compagni” in assetto da falange oplitica provano a forzare il cordone poliziesco dalle vie laterali ma ogni tanto ricompaiono, seguiti immediatamente dai fischi del resto del corteo. C’è chi inizia a sentire l’odore della delusione, della manifestazione sfumata, senza raduno finale, senza compimento.
Al Colosseo un signore accaldato ci ferma, dice che il servizio d’ordine della FIOM ha deviato verso piazza Vittorio, che più avanti, in via Labicana ci sono stati degli scontri. Ignoriamo gli inviti a proseguire per piazza Vittorio, buona parte del corteo arriva in via Labicana e intravede le prime barricate, mentre in fondo alla strada il fumo esce da una vecchia caserma della finanza, i pompieri sono già a lavoro. Seguono attimi di perplessità, molti si fermano all’incrocio con via Manzoni, fuggiamo come tessere del domino a due cariche della polizia avvenute un centinaio di metri più avanti, delle quali arriva solo un’eco psicologica. Per telefono mi viene comunicata la notizia degli scontri tra forze dell’ordine e alcuni manifestanti, delle conseguenze pagate da chi era pacificamente arrivato in piazza prima della baraonda, dell’apertura degli idranti. Non raggiungeremo mai piazza san Giovanni.
Sonnambulo, mi trascino tra una linea della metro e l’altra verso il bus che ci riporta a Siena, a ponte Mammolo (nome disneyano maternamente confortante). Passo il viaggio del ritorno a chiedermi perché non siamo riusciti a fare una manifestazione pacifica come quelle che si sono tenute nelle altre capitali europee, perché la politica nelle piazze di questo paese diventa il teatro di posa mediatico per le curve ultras di tifosi rossi o neri, della Lazio o della Roma (c’era anche una bandiera della Magica). Perché questa occasione per dar voce alla riscoperta di un sentimento vecchio, l’in-dignazione, motore della conquista dei diritti nel secolo scorso ed indispensabile risorsa contro tutti i fascismi, si sia consumata nell’eterna riproposizione degli anni Settanta.
Forse mancavano i leader, forse c’era qualche carenza nell’organizzazione, o forse forze dell’ordine e dubbi indignati (sicuramente in-cazzati, per i quali la radice fallica della definizione prevale sulla compenetrazione intellettiva dell’in), cercavano lo scontro sin dall’inizio e noi ne siamo solo stati testimoni. Non ho risposte a questi dubbi, quel che mi resta è una grossa confusione che il Maalox, credo, non curerà.

