Il cinema di Nanni Moretti

Le immagini del nostro presente.

Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente di Roberto De Gaetano è una delle monografie più complete e articolate sul regista e sul suo cinema. Da meno di un mese, l’editore Pellegrini ha pubblicato una nuova edizione aggiornata del volume, accompagnata da un nuovo capitolo dedicato a Mia madre (2015).

Per Roberto De Gaetano, professore di filmologia all’Università della Calabria e curatore del Lessico del cinema italiano (Mimesis, 2014), il cinema di Moretti può essere letto e analizzato attraverso una duplice direttrice. La prima è definita già dal sottotitolo del volume: lo smarrimento del presente. Da Io sono un autarchico (1976) a Mia Madre (2015), il regista ha saputo «leggere il presente, percepirne gli smarrimenti, rappresentarne le fratture, riconsegnarcene le maschere […] che lo hanno attraversato e per molti versi composto» (p. 9). Un’ampia e complessa galleria di personaggi e di maschere si sussegue nelle pellicole di Moretti per dar forma allo smarrimento della presenza e a un presente spesso privo di spessore, incapace di confrontarsi con il passato e di immaginare un futuro.

Personaggi e maschere affetti da patologie fin troppo esibite, dall’utilizzo smodato di cliché linguistici e comportamentali: le nevrosi grottesche di Michele Apicella – alter-ego del regista romano nei film realizzati tra il 1976 e il 1989, l’anno di Palombella rossa, in cui Michele è affetto da amnesia –, la rigidità morale di Don Giulio ne La messa è finita (1985), la parodia di un regista che non riesce a realizzare il proprio film in Caro Diario (1993), l’incapacità di creare un nuovo linguaggio per la sinistra che non riesce a trovare le parole per intessere un dialogo con gli immigrati di origine albanese sbarcati sulle coste pugliesi in Aprile (1998).

E ancora: il padre de La stanza del figlio (2001) – ultima tappa di un «romanzo di formazione» (p. 22) iniziato con l’autarchia e informato da un modello comico-grottesco che, in età adulta, sfocia nel tragico – tormentato dalla colpa e afflitto da un dolore insostenibile per la morte del proprio figlio; le maschere indossate per ri-costruire la faccia di Berlusconi e con essa trent’anni di politica italiana ne Il Caimano (2006); lo smarrimento del neo-eletto papa, interpretato da Michel Piccoli, il cardinale Melville. Infine, le inquietudini della regista Margherita in Mia madre, interpretata da Margherita Buy, che come Madame Bovary per Flaubert, è un intercessore di Moretti (p. 223) capace di elaborare la crisi profonda che attraversa il mondo del lavoro e delle sue tutele e le difficoltà familiari costituite dall’aggravarsi delle condizioni di salute della propria madre.

Queste maschere, questi personaggi e gli attori che a essi prestano corpo e volto spesso coincidono con lo stesso Moretti e con le sue ossessioni. Ma sarebbe un errore considerare questo processo di immedesimazione solo come un articolato “gioco” perché, scrive De Gaetano:

Di fatto, dietro l’esposizione dell’io, dietro la sua teatralità narcisistica, si nasconde la sua irreperibilità, il suo smarrimento, il suo glissare fra realtà e finzione (Caro diario), reale e onirico (Sogni d’oro), passato e presente (Palombella rossa), privato e pubblico (Aprile), persona e maschera (Ecce bombo), maschera e personaggio (La messa è finita), maschera singola e plurale (Il caimano), personaggio e figura (La stanza del figlio) ecc.
Il cinema di Moretti, dietro la sua apparente autarchia, o forse proprio per questa, è attraversato da un’apertura che ne mette in questione l’identità. (p. 25)

L’essere sempre in scena di Moretti, al pari dell’utilizzo di maschere e personaggi che fungono da intercessori paradossalmente incapaci di occultare la personalità del loro artefice, sono due strategie attraverso le quali il regista-autore prova, attraverso gli strumenti del cinema, a costruire un’immagine del presente che sfugge da ogni parte ma che al contempo richiede scelte etiche e risposte politiche.

E spesso, la ricerca sul presente, tra le maglie della cronaca e la fitta schiera di personaggi pubblici e politici, costringe i film a “riflettere” sulle caratteristiche del linguaggio e sulla storia delle forme cinematografiche. Il giro in vespa tra i quartieri di Roma in Caro diario richiama nel presente l’erranza dei personaggi cari al neorealismo, come il vagabondaggio di Mario e Bruno in Ladri di Bicilette (De Sica, 1946), o il girovagare di Edmund tra le vie di Berlino affollate dalle macerie del secondo dopoguerra in Germania anno zero (Rossellini, 1948), e reintroduce quello sguardo veggente, libero da precise finalità e da legami senso-motori, che aveva segnato la nascita della modernità cinematografica.

L’erranza in vespa sulle note del The Köln Concert di Keith Jarrett si conclude a Ostia, davanti al monumento dedicato alla morte di Pasolini, con un lento movimento della macchina da presa che stringe il campo visivo fino al primo piano, come per fissare meglio e più a lungo la memoria di quell’evento. In Aprile, alle immagini finzionali che raccontano il mancato sbarco degli immigrati nel Canale di Otranto seguono delle immagini dalla grana televisiva, saturate dalla massa informe che fatica a raggiungere le coste italiane. Attraverso questa strategia che monta e compara immagini e forme discorsive differenti, lo spettatore acquisisce la possibilità di tornare a riflettere sui regimi di visibilità in cui è relegato il migrante.

E poi il tema del lavoro in Mia madre: un tema messo in scena attraverso un film da farsi – quello della regista Margherita – che aderisce al presente del precariato e delle lotte per la tutela dei lavoratori ma anche e parallelamente il lavoro del lutto – la perdita della madre –, in quanto appropriazione e rielaborazione del passato. Infine, ma si tratta di un esempio al quale ne potrebbero seguire altri, il racconto della presa del potere da parte di Silvio Berlusconi. Nella sequenza finale de Il Caimano è Moretti a prestare la sua faccia a un Berlusconi che in tribunale si dichiara un «cittadino un po’ più uguale degli altri», autodesignandosi al di là e al di fuori dell’ordinamento costituzionale.

L’impegno nel trovare le immagini e le parole per raccontare il presente è attraversato da forme e modelli le cui radici si trovano nella tradizione cinematografica italiana. È questa la seconda linea di indagine che, al pari della prima, attraversa per intero la struttura di Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente e sulla quale De Gaetano ritorna ricorsivamente per sottoporre entrambe le direttrici alla prova delle analisi filmiche. Nella filmografia di Moretti ricorrono e si intrecciano due grandi tradizioni: quella della commedia all’italiana e quella del neorealismo.

Partendo da una riattualizzazione originale delle forme della nostra commedia, Moretti le ha innestate con un modo di concepire il cinema e la narrazione che affonda le sue radici nella tradizione del neorealismo, concepita non in termini contenutistici […], ma come modo di pensare la rappresentazione e l’immagine cinematografica, non solo da un punto di vista estetico, ma anche sotto il profilo di una spinta etica.
È chiaro che un regista che ha colto in forma moderna l’attualità di un sentire, di un percepire, di un pensare, non può operare che attraverso una metabolizzazione profonda delle forme della tradizione, che esclude qualsiasi forma di citazionismo, o di riferimento esplicito (p. 113).

Proprio perché consapevole dell’importanza della tradizione commedica, Moretti ne ha sempre dichiarato una distanza (il famoso «Te lo meriti, Alberto Sordi», pronunciato in Ecce Bombo, fino allo scontro televisivo con Mario Monicelli che esplicitava i debiti di Moretti nei confronti della commedia all’italiana) per poi operarne una profonda rilettura.

Dalla tradizione neorealista e da quella commedica sono estratti e rielaborati tre modelli principali. In primo luogo, si tratta dei modelli e delle forme ascrivibili alla commedia all’italiana degli anni Sessanta che, per raccontare gli anni del boom, della rapida trasformazione dei costumi e rincorsa verso un benessere inevitabilmente illusorio, ha utilizzato il filtro deformante del grottesco. Il grottesco, anche per Moretti, diventa lo strumento per aderire al presente senza scadere nel cronachistico bensì esagerandolo. Alle maschere della commedia e al suo eccesso moralistico, il cinema di Moretti affianca «le forme dell’immagine neorealista, dell’erranza, della veggenza e dell’imperativo etico» (p. 17). Infine, le forme del tragico e del melodramma. Se i primi due modelli si rincorrono in tutta la filmografia, l’ultimo si trova concentrato soprattutto ne La stanza del figlio e in Mia madre.

Linea neorealista e linea commedica permettono a Moretti di rileggere sia la modernità del cinema sia le profonde crisi che attraversano il soggetto contemporaneo. Alla realtà dispersiva, ellittica, errabonda, raccontata dal neorealismo, ai suoi personaggi che non agiscono in base a degli scopi, non reagiscono in base a situazioni ma diventano spettatori, si accavallano la maschera grottesca comica e fallimentare, moralista e attraversata da nevrosi:

L’azione impedita determina le forme dell’erranza, della veggenza, della stasi (da Ecce bombo a Caro diario ad Aprile), l’azione fallita le forme del fallimento comico e della costruzione della maschera (nevrotica) come unica modalità di sopravvivenza e di rapporto con il mondo (la maschera di Michele Apicella). Oltre lo spazio dell’azione impedita e dell’azione fallita c’è l’azione raccontata dai mass media, che la riducono ad un collage di cliché e luoghi comuni (da Io sono un autarchico ad Aprile) (p. 114).

Impegno e riflessione sul nostro presente, dialogo e confronto con i modelli della nostra tradizione cinematografica: sono queste le piste a partire dalla quali De Gaetano indaga e attraversa la filmografia di Moretti facendo emergere la complessità stilistica di questo regista.

Se «il nostro è un cinema senza uniforme e senza bandiera, è un cinema radicato pienamente nella vita di un Paese» (Lessico del cinema italiano, p. 9) che ha spesso mostrato la sua vicinanza alla vita, allora il cinema di Moretti ne fa pienamente parte.

Il cinema di Moretti non si è mai confrontato con il patrimonio del cinema italiano attraverso modelli conservativi e citazioni pedisseque, non ha mai restituito un’immagine cristallizzata di questa tradizione. Al contrario, per mezzo di un dialogo tra i cliché e le maschere capaci di “indossarli”, tra il registro comico-grottesco, quello commedico e quello tragico, tra le forme della vita e quelle delle rappresentazione, Moretti e il suo cinema hanno ripensato questo patrimonio culturale come un giacimento grazie al quale è possibile provare a raccontare il nostro presente.

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