Mia madre di Nanni Moretti

Un film sul lavoro.

Non sono solita scrivere di film appena visti, senza lasciare che pensieri e sensazioni sedimentino prima di tentare di dar loro una forma, una forma scritta. Non sono abituata neppure a usare così, in modo esplicito, la prima persona. In questo caso, però, è il film di cui mi trovo a scrivere, l’ultimo film di Nanni Moretti, Mia madre, a chiedermelo.

È l’invocazione che una regista (interpretata nel film da Margherita Buy) rivolge ai suoi attori: stare dentro al personaggio e contemporaneamente accanto a esso, nascondersi dietro i suoi gesti e le sue fattezze, senza perdersi del tutto e riservando per sé un margine di discreta visibilità, in modo che lo spettatore possa guardare sempre i due insieme.

Un’invocazione, quella della regista, che assume, proprio all’orecchio di quello stesso spettatore, i toni dell’esortazione a una presa di posizione nei confronti di ciò che sta guardando. La stessa situazione di chi, come me in questo momento, deve scegliere dove stare rispetto all’oggetto di cui parla e al modo in cui decide di farlo, dovendo star dentro le cose che scrive, ma anche al di qua e al di là di esse.

Sul set di un film nel film, si gira la sequenza della protesta di un gruppo di operai che chiedono più lavoro per tutti. La polizia attacca e la manifestazione si trasforma in una rissa. Uno degli operatori riprende la scena da vicino, troppo vicino, secondo la regista, che stoppa l’azione e si chiede se la vicinanza fisica dell’operatore alla violenza dei manganelli non nasconda una certa fascinazione, una qualche ambiguità di posizione di tipo etico. Da che parte sta lui in quella rissa, con coloro che picchiano o con quelli che sono picchiati?

E dal momento che il film, i due film – quello di Moretti regista e quello di Margherita (si chiama così il personaggio interpretato dalla Buy) – chiedono al loro spettatore di chiarire sin da subito la propria posizione, immediatamente espliciterò la mia: credo che Mia madre sia anzitutto un film sul lavoro e che la questione che ruota attorno al rapporto fra una madre in punto di morte e i suoi figli sia solo quel di più che rimane “accanto” al primo dei due temi, al quale fra l’altro profondamente è legato, nel modo che cercherò di mostrare. Che insomma, in un raffinato meccanismo metacinematografico (molto più raffinato di quanto possa sembrare a un primo sguardo) Mia madre sia il film che resta “accanto” a quello di cui esso mostra la messa in scena; e che la figura del Moretti regista vada rintracciata “accanto” a quella di Margherita Buy, non solo interprete ma regista del set su cui siamo condotti.

Ma se questo è vero, Moretti sceglie per sé, questa volta, una posizione di lateralità, fugando, se ce ne fosse bisogno, ogni possibile, rinnovata accusa di ego-centrismo. Ed è da questa posizione laterale che Moretti riesce a dominare, molto meglio di quanto non avesse fatto ne La stanza del figlio, una materia come la perdita, lì di un figlio, qui di una madre. È da questa posizione che riesce a trasformare il sentimento informe e scomposto (come sono i sentimenti) della perdita, in un vero e proprio lavoro del lutto.

Già, un lavoro: quello richiesto dalla elaborazione di una scomparsa, affidato a un altro lavoro, quello della messa in scena e del cinema, strumento magico che consente di far tornare indietro il tempo e poi di riportarlo avanti, facendo rivivere il passato. È in questo passaggio, mostrato nel film addirittura senza far ricorso a forme possibili di mediazione, fra il presente e un passato che non c’è più, che risiede il lavoro del lutto. Un lavoro che radicalmente si distingue dalla semplice rimozione di ciò che è andato perduto e del dolore che ogni perdita provoca in chi la subisce.

Mi pare sia questo il senso di una delle sequenze più belle e oniriche del film. Una lunga, interminabile coda di spettatori aspetta, davanti al cinema Capranichetta di Roma, la proiezione de Il cielo sopra Berlino. Margerita la percorre a ritroso. Incontra prima sua madre, poi suo fratello, infine rivede la ragazza che era, riascolta una sua conversazione con il compagno di allora. Come in ogni vero lavoro del lutto, il ritorno al passato è funzionale qui alla sua riappropriazione, attraverso il processo di trasfigurazione in una forma che sola può garantire una sua proficua riammissione nella dimensione temporale presente e un nuovo reinvestimento emotivo su di esso.

È forse per questa ragione, perché il lavoro cinematografico assurge in Mia madre a vero e proprio lavoro del lutto, che il film sembra l’esito di un controllo severo e a volte doloroso operato dal regista su ciascuna delle scelte formali a lui assegnate: dalla costruzione dei dialoghi a quella delle singole inquadrature, fino all’uso del montaggio.

Ciò che unisce la questione della perdita a quella del lavoro (fin qui inteso ancora come lavoro del lutto e del cinema) è la possibilità che in entrambi si scovi il luogo in cui pensare a qualcosa come un’eredità, un lascito che evidentemente trascende i confini del rapporto di un genitore con i suoi figli.

Il lavoro è il nome di questa possibilità, per questo il film ha inizio con una rivendicazione operaia, che chiede più lavoro per tutti. Perché il lavoro inscrive la possibilità del futuro e dunque anche, retrospettivamente, quella di un passato da lasciare in consegna a qualcuno.

È chiaro come tutto ciò avvenga quando il lavoro a cui si pensa è quello del regista, o anche quello dell’attore. Ma le cose non cambiano se il lavoro di cui si parla è quello di un operaio, di una infermiera o infine quello di un’insegnante. E un’insegnate è la madre di cui il film racconta la scomparsa, una donna che impariamo a conoscere più che come madre, come lavoratrice. È a quel lavoro, svolto con passione per anni, che è affidata la sua storia, l’unica che il film abbia la pretesa di raccontare, non tanto attraverso le parole dei suoi figli, ma degli studenti venuti a salutarla, e di una nipote a cui la donna regala i segreti di una professione, che è anche, forse soprattutto, passione.

Allo stesso modo, sono le pause dal lavoro quelle che vengono a interrompere idealmente una narrazione, forse solo per rafforzarla in seguito. Pause che nell’immaginario morettiano coincidono variamente con una scena di ballo, capace di spezzare il tempo lineare del lavoro, per ricomporlo immediatamente dopo.

Così balla l’intera troupe del film che Margherita sta girando: balla per ritrovarsi o trovarsi davvero per la prima volta. E ballava la madre di Margherita, con i suoi studenti in gita. In quel ballo sta forse il senso di un’intera esistenza. Dentro e fuori e fuori i confini di un lavoro che contribuisce a scrivere la storia di ciascuno, individuale e collettiva allo stesso tempo.

Per tutte queste ragioni, in un momento di difficoltà, quando il film di cui è regista sembra non riuscire a vedere una conclusione, Margherita pensa a sua madre e al suo lavoro. “Che fine faranno tutte quelle ore di lavoro?”, dice pensando alla donna che tutti i giorni, e per moltissimi anni, è stata per sé e per gli altri, compresi i suoi figli, un’insegnante.

È in relazione a questo esser stato che si configura anche la possibilità di un futuro che saranno altri a vivere, ed è così che – al di là di ogni retorica – assume un senso il riferimento a un domani anche solo immaginato, con cui il film si chiude.

Perché ogni chiusura non può che essere l’orizzonte in cui si inscrivono nuove aperture. Proprio come in un film convivono sempre, uno “accanto” all’altro almeno due film, quello concluso e quello ancora da farsi.

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