Riflessioni sparse attorno a “Del comune o della rivoluzione nel XXI secolo” del filosofo Pierre Dardot e del sociologo Christian Laval (DeriveApprodi, 2015), in occasione della tavola rotonda che si terrà oggi alle 16.30 all’Ex-Asilo Filangeri di Napoli*.
«Viviamo uno strano momento, disperante ed inquietante in cui niente sembra possibile»: un incipt che potrebbe sembrare a dir poco pessimista, in stridente contrasto col titolo del libro – Del Comune o della rivoluzione nel XXI secolo – che scomoda orizzonti tanto ambiziosi da apparire, quanto meno tatticamente, a dir poco anacronistici. Invece Pierre Dardot e Christian Laval non vendono fumo né tantomeno cercano di imbonire un pubblico di potenziali lettori affamati di speranze impronunciabili. Al contrario, mettono subito le cose in chiaro sottolineando una cruciale contraddizione del tempo presente: da una parte esso si annuncia come quello delle infinite possibilità, dall’altra espunge dal loro ventaglio quella basilare di cambiare la forma di governo e il sistema economico in cui queste possibilità sono date. La potenza della promessa democratica pare affievolirsi in questo cortocircuito, e anche così si spiega il successo editoriale dei tanti volumi (Ranciere, Crouch, Rosanvallon, Ferrara e molti altri) che frequentano il topos di una crisi della democrazia che appare paradossale al tempo del suo trionfo; una vittoria, sia chiaro, solo “teorica”, per cui, in larga parte del pianeta, nessun altra forma di governo può presentarsi come legittima.
L’altro pezzo del titolo elegge il campo teorico, quel “Comune” descritto da Negri e Hardt, molto usato nella semantica delle lotte sociali. Anche qui però il titolo può trarre in inganno: Dardot e Laval vanno in un’altra direzione. Certo riconoscono che quella elaborazione del “divenir comune” ha svolto un ruolo fondamentale nel costituire una matrice di senso comune, appunto, a battaglie segmentate e diacronicamente spezzate, pur rispettando le loro singolarità eccedenti, al netto del problema della loro natura extra- o infra-governamentale. Pagato, con poco, questo debito di riconoscenza l’obiettivo dichiarato è quello «rifondare il concetto, in modo rigoroso» (p. 18). Si comprende così la malcelata polemica sorta tra i quattro autori.
Se la prospettiva sarà in grado di riscrivere davvero la categoria è tutto da verificare (si veda in proposito il recente dibattito su Alfabeta 2 e il puntuale intervento di Marco Bascetta, «il manifesto» del 9 giugno). Fatto sta che essa sia oggi al centro di numerosi incontri all’interno di spazi sociali e culturali importanti. La ragione va al di là dell’enorme lavoro di diffusione svolto dalla casa editrice (DeriveApprodi) e dagli instancabili giovani curatori dell’edizione italiana (Antonello Ciervo, Lorenzo Coccoli e Federico Zappino). Il testo è letto perché coglie una stringente attualità, come evidenziato da Roberto Esposito gli autori hanno accettato la sfida di giocare all’altezza del potere, «anziché guardare alle spalle, [il testo] raccoglie la sfida della società liberale sul suo stesso terreno — quello del governo del corpo e della mente degli uomini» («la Repubblica», 1 giugno). Il ruolo del diritto nel sistema neoliberale è quello su cui si possono leggere le linee di frattura teorica forse meno evidenti, ma più profonde. Questo segna lo scarto col dibattito teorico-giuridico sui “beni comuni”, percepito da Negri come un «recinto», trascendente e cristallizzante.
Il suo tentativo di aprirlo attraverso il superamento del diritto pubblico e privato verso un «diritto del comune», alle volte appoggiandosi al post-funzionalismo di Teubner altre al formalismo marxista di Pašukanis, è un’operazione interessante, ma al contempo opaca: innumerevoli difatti sono i settori della vita per cui i diritti hanno senso solo se e in quanto iscritti nel diritto pubblico e privato, per cui non si può pensare né di fare a meno di questi né di non eleggerli a campi di rivendicazione e stress conflittuale. Una battaglia di posizioni dunque, tra pubblico privato e comune che vede un fronte centrale nel campo giuridico, tema che Dardot e Laval dichiarano esplicitamente: «il comune è innanzitutto un problema giuridico, dunque di determinazione del dover essere. La posta in gioco è far emergere un nuovo diritto che neutralizzi le pretese di quello vecchio» (p. 183). La capacità effettiva di declinare il tema è però, anche per loro, in una fase embrionale, che forse può trovare qualche riscontro in alcune delle nove proposte politiche che concludono il lavoro: la preminenza del diritto di uso su quello di proprietà, la consuetudine come luogo di conflitto, la ridefinizione della gorvernance dei servizi pubblici in chiave partecipativa.
In questa prospettiva colgono un punto di intersezione importante con la grammatica che alcune reti di movimento hanno praticato dopo i lavori della commissione Rodotà e la vittoria referendaria del 2012. Quella di porre al centro del loro antagonismo il problema del diritto, non nel senso di strategia di difesa penale, ma come campo di sperimentazione e legittimazione della loro pratica di autogoverno. Si pensi ad esempio alla riarticolazione dal basso di categorie giuridiche operata nelle esperienze dei teatri occupati. Il proprium di questi esperimenti, come molti altri tra quelli che si richiamano variamente alla democrazia partecipativa, condividono il tentativo di fondo di creare nuove istituzioni popolari agite direttamente dai cittadini. Una simile pretesa di un nuovo spazio pubblico comune è una delle cifre caratteristiche dell’altermondialismo degli ultimi vent’anni, di cui i momenti di protesta oceanica o i riot evenemenziali rappresentano solo le parti visibili, e per certi versi meno interessanti, di un patchwork di forme, azioni collettive, modelli di riappropriazione diretta di beni e mezzi di produzione.
In quest’ottica gli autori francesi fanno largo uso del lavoro di Elinor Ostrom, premio nobel per l’economia nel 2009, che col suo gruppo di ricerca ha mappato centinaia di esperienze di gestione collettiva delle risorse naturali. Malgrado numerose parti critiche sulla sua impostazione prettamente liberale ed economicamente orientata a un più efficace sfruttamento delle risorse, il testo fornisce una lettura da sinistra del neo-istituzionalismo di Ostrom che ha pochi precedenti.
Il tema delle nuove istituzioni del comune è centrale, ma corre il rischio di essere equivocato. Non si tratta di “istituzionalizzare il comune”, per renderlo compatibile con il quadro del diritto esistente o peggio per addomesticare il conflitto in pratiche concertative e di mediazione. Si tratta invece di contrastare uno dei punti deboli, spesso drammatici, dei movimenti: il respiro tachicardico della loro azione, che si espande e puntualmente si arresta condannando allo sforzo di Sisifo di dover ricominciare ogni volta da capo. Lungi dall’essere un dispositivo di cattura, questo istituzionalismo bottom up potrebbe essere lo stratagemma per oltrepassare la soglia della contingenza, affinando le pratiche di sperimentazioni che possono durare anni. Riuscire a fondare simili istituzioni significa allontanarsi dai modelli di democrazia consultiva: comunità di gestione, assemblee deliberanti, fondazioni di partecipazione popolare, nuovi usi civici o altre forme di auto-organizzazione civica inserite nel quadro del diritto pubblico vigente, possono erodere spazi di decisione amministrativi, sottraendoli sia al mercato che alla sfera istituzionale tradizionale. Rendere tali modelli riconoscibili attraverso regole scritte dal basso significa innanzitutto renderli più facilmente ibridabili e perfettibili, perché tradotti in formule permanenti di aggregazione e non più consegnati alla memoria di questa o quella esperienza locale. Il passo del riconoscimento giuridico effettivo è logicamente e anche politicamente, secondario. La cosa più importante sarebbe riuscire a conquistare degli spazi di partecipazione diretta che aprano la strada a un arcipelago di microrivoluzioni permanenti, nel senso letterale del termine.
Questa è la sfida che, con una buona dose di interpretazione personale, in alcune parti del testo ci pare scorgere, anche se non è affatto ricco di esempi di simili pratiche. L’esperienza di ripubblicizzazione della società idrica partenopea è uno dei casi virtuosi citati: se essa saprà essere oltre che uno dei pochissimi casi di attuazione della vittoria referendaria – il che non è né scontato né poco – quello di «un governo dei commons affidato alla popolazione» (p. 413), è ancora tutto da vedersi…
Forse un’occasione proficua di arricchimento delle pratiche sarà offerto dalla sede in cui sabato sarà presentato il libro a Napoli. L’Asilo (www.exasilofilangieri.it) è un’esperienza che ha una straordinaria, e inaspettata, consonanza con la strada eletta dai due autori. In questo immobile del Seicento, situato nel ventre di Napoli, dopo un’iniziale occupazione da parte di un collettivo di lavoratori dell’arte, dello spettacolo e della cultura oggi sorge un centro di produzione artistica “interdipendente”. Il collettivo si è sciolto e ha adottato una pratica molto articolata di democrazia decisionale, la cui struttura è affidata a una convenzione di uso civico urbano: una forma di regolamento di uso – frutto di una riflessione teorica nata tutta al suo interno – già parzialmente riconosciuta, per cui ai cittadini non sono conferiti solo diritti di accesso al bene, ma veri e propri poteri di autogoverno sull’uso e la cura degli spazi. Un terreno che appare interessante anche per i riflessi sul piano del rapporto con un’amministrazione pubblica che si dichiara “amica” dei beni comuni. Da questo punto di vista vedremo quali atti amministrativi seguiranno, certo potrebbe essere l’occasione per aprire un terreno comune di azione, rispettoso delle reciproche sfere di autodeterminazione, ma strettamente connesso al recepimento non intrusivo delle pratiche di azione dei movimenti. Una cosa che vale molto di più del semplice ed episodico recepimento di alcune delle loro istanze.
[Su quest’ultimo profilo si innesta uno dei punti del lungo testo di Dardot e Laval che lasciano insoddisfatti: la scarsa attenzione all’individuazione delle soggettività politiche reali, capaci di costruire queste forme di istituzionalità partecipativa.
Il campo è quanto mai complesso, perché è la governance neoliberale con il suo costante attacco al settore pubblico a favorire, indirettamente, anche l’emersione di simili istanze partecipative estranee alla tradizione della burocrazia continentale. Ma questo piano è assai scivoloso perché agito da forze che, se in senso tecnico possono considerarsi anch’esse dal basso, hanno un colore ben diverso: imprese, consorzi e fondazioni bancarie spingono l’arretramento dello Stato per acquisire la gestione predatoria di beni pubblici e servizi. Un modello di uso del diritto che trasforma la verticalità statuale in un’orizzontalità tutt’altro che paritaria: si pensi al diritto del lavoro ai tempi di Marchionne, ai reparto confino di Nola e alla rideterminazione dei rapporti di potere nelle relazioni industriali operata dalla Fiat Chrysler. La debolezza del discorso di Dardot e Laval è forse situata nel terreno stesso del modello istituzionale, che è per definizione neutrale, e questo mal si concilia con una necessaria soggettivazione politica del comune. Sarà un nodo da affrontare, con la tranquilla consapevolezza che l’incontro si svolgerà nella stessa sala dove la settimana scorsa il comitato dei licenziati politici di Pomigliano d’Arco ha svolto la sua assemblea: non tutte le istituzioni sono uguali.]
* Alla tavola rotonda parteciperanno: Ilenia Caleo (Fondazione Teatro Valle Bene Comune), Antonello Ciervo, Lorenzo Coccoli, Federico Zappino (curatori dell’edizione italiana) Chiara Colasurdo (giuslavorista), Adriano Cozzolino (L’Orientale di Napoli), Eleonora de Majo (Mezzocannone Occupato), Daniela Festa (EHESS, Università di Perugia), Francesco Festa (Euronomade), Fabrizio Greco (Attac Napoli), Maria Rosaria Marella (Università di Perugia)
Sergio Marotta (Università Suor Orsola Benincasa di Napoli), Giuseppe Micciarelli (Università di Salerno), Esc Atelier Autogestito (Roma).