Mi metto comodo e invece di aprire il libro che devo finire di leggere decido di guardare un film. Uno che mi ero perso sapendo che mi sarebbe piaciuto. E infatti mi è piaciuto. Le Concert di Radu Mihaileanu racconta di Andrei Filipov, un direttore d’orchestra (Maestro del Bolshoi), allontanato dal suo mestiere di artista per aver respinto, trenta anni prima, l’ordine di espellere musicisti ebrei dal suo ensemble.
Matteo Guerra
In questi giorni ho sostenuto un colloquio di lavoro per il quale i miei studi sono ovviamente ininfluenti, e mi hanno detto che oggi mi avrebbero fatto sapere. La sensazione è simile a quella che si prova dopo un esame scritto. Si aspetta pensando di aver fatto il massimo. Peccato che prima aspettavo trepidante un bel voto credendo che quell’esame mi avrebbe aperto un altro pertugio, nella galleria che conduce alla vita di quelli che seminano per poi raccogliere. Ora invece aspetto una risposta che mi riporterà esattamente al punto di partenza (le maledette scale del gioco dell’oca) e quel voto tanto atteso avrebbe potuto avere mille colori oppure nessuno, che a guardarlo sarò sempre e soltanto io.
In ogni caso mi metto comodo e invece di aprire il libro che devo finire di leggere decido di guardare un film. Uno che mi ero perso sapendo che mi sarebbe piaciuto. E infatti mi è piaciuto. Le Concert di Radu Mihaileanu racconta di Andrei Filipov, un direttore d’orchestra (Maestro del Bolshoi), allontanato dal suo mestiere di artista per aver respinto, trenta anni prima, l’ordine di espellere musicisti ebrei dal suo ensemble. Si ritrova quindi a fare l’uomo delle pulizie nel suo stesso teatro. In condizioni simili, anche i componenti della sua vecchia orchestra. Ognuno, lasciato lo strumento, ha intrapreso una nuova strada, senza applausi e senza clamori, nel silenzio di vite diverse alle prese con mestieri diversi. Tutto questo fino a quando Andrei, intercettato l’invito fatto all’orchestra Bolshoi per esibirsi allo Châtelet di Parigi, decide di ricostituire pezzo per pezzo la sua squadra, sostituirsi alla vera orchestra e presentarsi lì, a Parigi, per il riscatto di tutta una vita. Mihaileanu mette su un baraccone così raffinato che lo spettatore ne rimane necessariamente invischiato ed incantato, così come gli astanti del teatro Châtelet durante lo sviluppo del Concerto per violino e orchestra di Čajkovskij della scena finale. I colori dell’immagine del regista franco-rumeno, e i suoi continui giochi con la messa a fuoco che producono spesso quell’effetto sbrilluccicante caro a molti fotografi (bokeh) dipingono uno scenario fiabesco in continuo movimento. Si ha spesso la sensazione di toccare le punte impervie del grottesco, ma subito si vola nella commedia, per poi ripartire col dramma. Come tante paillettes (talvolta eleganti altre pacchiane) le immagini di Mihaileanu prolificano nei loro riflessi. Ma ognuno può vederci chiaramente l’importanza della lotta fianco a fianco. L’importanza del singolo nella collettività. Non si inizia a suonare se non ci sono tutti!
Sia chiaro, le intenzioni del film vanno tutte da un’altra parte e aprono a problematiche di grande spessore storico, ma mentre queste immagini mi scorrono di fronte, ecco che si palesa qualcosa di riconoscibile. Una realtà che si anima in un immaginario a me conosciuto. Quelle facce deluse di Andrei Filipov e dei suoi ex orchestrali diventano familiari. Mi ricordano qualcuno, senza dirmelo esplicitamente, ed è così perché non vogliono dirmelo, non è loro intenzione. Sono io che lo percepisco. Io stanco di essere messo da parte perché i posti sono già tutti occupati. Io deluso da aspettative ad oggi poco realizzabili. Io che faccio uno stage lavorando gratis per un domai. Io che faccio un lavoro che non mi piace e per il quale i sacrifici sono valsi a nulla. Io che ci voglio provare ma le condizioni sono sempre più difficili. Mille “me” si moltiplicano diventando quel “noi” che Mihaileanu così melodrammaticamente bene riesce a sottolineare.
Intanto mi viene in mente che la telefonata che aspettavo non è arrivata. Al negozio forse non mi vogliono?
Forse tornerò in quel ristorante a portare piatti e forchette… però sarebbe bello prendere un bel furgoncino (nel film, Filipov e il suo braccio destro vanno con un’ambulanza) e fare un giro, tornare a cercare quelle facce che ho riconosciuto nei personaggi degli ex orchestrali e che insieme a me condividono, o hanno condiviso, le proprie passioni e le proprie speranze, intendendo la cultura non come un passatempo, come pensa chi poca ne pratica, ma al contrario come una cosa semplice che può salvare la vita. Come coscienza di se stessi nel mondo. Qualcosa che sempre ci riguarda. Fare un giro, dicevo, e andare a prenderli tutti. E allora sì che riempirei il furgoncino di facce familiari. Ci entrerebbero tutti: precari dell’università, baristi, ristoratori, stagisti, bagnini, archivisti, benzinai, commessi, responsabili di iniziative no-profit (in tutti i sensi), traduttori sottopagati, facchini, commercialisti, impiegati, eccetera, eccetera. Tutti insieme correremmo sul palcoscenico e, per una volta, “per il tempo di un concerto”, suoneremmo insieme il nostro riscatto in faccia a chi ci ha rubato il futuro!