Quanto durano cinque giorni? Le risposte semplici a tale semplice domanda non sono più a nostra disposizione dopo aver attraversato il libro di Andrea Ravenda Alì fuori dalla legge. Migrazione, biopolitica e stato di eccezione in Italia, pubblicato da ombre corte nel 2011. Cinque giorni sono il tempo che un “immigrato clandestino” ha per allontanarsi dal nostro paese dopo aver ricevuto un decreto di espulsione.
Tommaso Sbriccoli
Cinque giorni sono anche lo spazio paradossale che ospita un’illegalità legale, una presenza che è già altrove, un corpo assente. Potremmo forse spingerci persino a dire che il bel libro di Andrea Ravenda, che copre vent’anni di storia e sei anni di etnografia della migrazione straniera in Italia, e principalmente in Puglia, non fa che scavare un buco nel tempo, il cui diametro misura esattamente cinque giorni, e ne affronta quindi l’analisi antropologica. Questo tempo divenuto spazio, della ricerca ed anche esistenziale (può qui tornare utile una frase di Gramsci riportata nell’esergo all’ultimo capitolo, “il tempo mi appare come una cosa corpulenta, da quando lo spazio non esiste più per me”) è ciò che rimane ad Alì, personaggio/informatore/uomo centrale nella costruzione del testo, rinchiuso (ma non esattamente) nel CPT Regina Pacis dopo una vita trascorsa a migrare. Dal di dentro di questo tempo corpulento, giocando con i suoi confini per mezzo del racconto di sè come una contemporanea Sherazade, Alì riesce a dilatarlo, e farlo esplodere, e nel fare ciò permette di intravedere i meccanismi attraverso cui la nostra società produce l’altro illegale: non tanto per mezzo di semplici e lineari strategie dell’esclusione, ma piuttosto per mezzo di dispositivi complessi che hanno bisogno tanto del continuo sforzo generativo di tutti gli attori coinvolti, quanto delle pratiche degli stessi soggetti catturati in questi dispositivi. Sono questi ultimi, infatti, i migranti, che nonostante tutto dimostrano di avere spazi di manovra e negoziazione e, allo stesso tempo, proprio per mezzo del proprio agire, offrono al dispositivo in cui sono inseriti ulteriori appigli affinchè esso continui nel suo processo di assoggetamento, in direzione sia dell’esclusione che di un’inclusione “controllata”. Negoziazione, un termine che ricorre spesso nel libro come strumento centrale per la comprensione degli effetti risultanti dalle interazioni in un campo sociale complesso, assume qui un sapore piuttosto diverso da quello che ha nei testi classici del transazionalismo antropologico. Non è tanto, o non è solo, la strategia differenziale degli attori di un gioco sociale le cui regole sono piu o meno condivise, quanto più precisamente “la regola stessa del gioco”: negoziare significa produrre sè e gli altri attraverso la riproduzione stessa del dispositivo che ci mette in relazione, del campo che ci lega in quanto soggetti differentemente collocati e in diseguali posizioni di potere.
I cinque giorni di Alì divengono così mesi, in cui egli continua a vivere nel CPT Regina Pacis sebbene i tempi legali del suo trattenimento siano scaduti. La sua posizione liminale nel sistema giuridico italiano si prolunga, e così facendo dilata i confini del lecito e dell’illecito, del legale e dell’illegale. Alì inizia ad uscire dal centro durante il giorno per qualche lavoro in nero. Quindi si stabilisce a San Foca, la cittadina in cui si trova il Regina Pacis, in un appartamento affittato assieme ad altri migranti. L’ultima immagine che abbiamo di Alì è il suo incontro con l’antropologo a Firenze. Qui Alì offre a quest’ultimo aperitivo e pranzo perchè, come ammette alla fine dell’incontro abbracciando l’amico e ricercatore, “Non pensare male di me, ma quando ho saputo che venivi ho fatto un piccolo furto, ho rubato un portafogli, così da poter passare una bella giornata assieme. Io non sono una persona cattiva”. Alcuni mesi dopo, Alì telefona all’antropologo dicendo che deve scappare in Algeria. Il libro si chiude quindi con la definitiva partenza dell’uomo, del cui destino non sappiamo più nulla. Sebbene la storia di Alì rappresenti solo uno dei tanti filoni del libro, essa attraversa gran parte del testo e soprattutto illumina grazie alla sua “esemplarità” anche il resto dell’analisi, fornendo la chiave per affrontare la complessità dei fenomeni presentati. All’interno di una solida, quanto intrigante, costruzione teorica del proprio oggetto di ricerca – che spazia dai recenti dibattiti sulla “forma campo” come paradigma della politica contemporanea, alla problematizzazione della relazione tra questo, il campo come luogo centrale di produzione del sapere in antropologia, e il concetto di campo in Pierre Bourdieu, per arrivare infine a testare gli strumenti dell’antropologia medica nell’analisi del rapporto tra corpo, violenza, narrazione e politica – Andrea Ravenda ci offre un’avvincente etnografia del sistema di accoglienza/trattenimento/espulsione in Puglia. Il testo si presenta come sapiente composizione di una incredibile varietà di materiali. Interviste, articoli di giornale, pagine di diari di campo, casi etnografici, brani di dépliant di presentazione, sentenze, testi di legge, citazioni, tutto ciò collabora nel fornire una ricca e viva immagine della rete di relazioni, persone, oggetti, discorsi e pratiche che producono, e sono a loro volta prodotti da, il campo di forze oggetto della ricerca. La pratica di questa “multivocalità etnografica”, tuttavia, non si esaurisce in sé o nella supposta natura a-problematica e auto-esplicativa di un testo che si vuole costruito con frammenti di “realtà”. Piuttosto, essa diviene il punto di partenza per una produttiva problematizzazione della posizione dell’etnografo, delle condizioni di possibilità nella costruzione di un sapere in questo contesto, e della dimensione politica di tale impegno scientifico ed umano. I due CPT pugliesi al centro della ricerca di Andrea Ravenda, Restinco e Ragina Pacis, divengono poco alla volta personaggi essi stessi dell’intricata rete di persone, fatti e storie che costituisce il campo di studio. Il primo centro, chiuso completamente verso l’esterno, è analizzato proprio nelle pratiche specifiche messe in atto dalle istituzioni e dagli attori sociali al fine di impedire ogni accesso. L’istituzione totale, il centro/campo, e la sua ermeticità, sono il prodotto di un continuo sforzo generativo dei soggetti che ne fanno parte e lo costituiscono. All’antropologo non rimane così che seguirne il perimetro e osservare sulla propria pelle l’effetto di questo dispositivo di inclusione/esclusione. Il sapere prodotto non può che essere qui il residuo filtrato tra le maglie di una fitta rete di protezione. Nonostante ciò, l’utilità del resoconto etnografico rimane alta per quel che riesce a mostrare in filigrana: la stretta compenetrazione tra logica di “gestione della migrazione”, produzione di un know how specifico e spendibile in altri campi del processo di “privatizzazione del terziario”, rapporto con il territorio, pratiche simboliche e materiali di esclusione dell’altro, e produzione dell’illegalità. Nell’altro caso, quello del Regina Pacis, il ricercatore ottiene invece l’accesso al centro. Ciò che potrebbe apparire da principio come il successo di una classica strategia etnografica – riuscire finalmente a piantare la tenda al centro del villaggio di ricerca e da lì gettare uno sguardo oggettivo sulla realtà della vita sociale che ci circonda – diventa invece il punto di partenza di un complesso lavorio teorico e metodologico. Come districare i fili del sapere prodotto da quelli della matassa intricata che intreccia le vite dei trattenuti nel CPT in quanto oggetti di conoscenza al centro delle continue operazioni di una rete di poteri che li afferra? Semplicemente – ed è questa una lezione che ho imparato anch’io facendo ricerca in un contesto simile – ciò non è possibile. Come Andrea Ravenda dimostra in modo preciso e lucido, non possiamo che farci carico della nostra posizione e riflettere accuratamente su come essa si produca e sui suoi effetti. Allo stesso tempo, considerando il “campo” come la rete di relazioni che lo produce, e non solo come un dispositivo di controllo e assoggettamento, è possibile trovare vie di fuga verso l’identificazione di pratiche di resistenza possibili, negoziazioni multiple dei vari posizionamenti, rotture nel tessuto discorsivo che lo produce.
In questo modo, possiamo finalmente toccare la “corposità” di un tempo che si fa spazio e, dentro questo tempo materico, provare a far esplodere cinque giorni nel progetto di una società migliore e più giusta.