L’Aquila, il 6 aprile

«Tornare a riflettere sull’evento sismico del 6 aprile 2009 non vuol essere un semplice atto commemorativo. Si tratta piuttosto di riannodare i fili della storia e quelli della memoria per provare a individuare e rielaborare, a fianco delle faglie che hanno irrimediabilmente trasformato il paesaggio urbano, le reazioni che le istituzioni, i media e i cittadini hanno utilizzato per …»

[Per il quarto anniversario del terremoto dell’Aquila, prendiamo alla lettera l’introduzione di Sismografie e pubblichiamo un estratto dal diario di campo di Fabio Carnelli, uno degli autori].

É il 5 Aprile 2012, quando torno all’Aquila per la settima volta. Arrivando in auto dal passo che unisce il Reatino all’Aquilano mi accoglie il solito traffico insensato, “tipico di una città terremotata”. Apparentemente simile al traffico di un qualsiasi hinterland nostrano, in realtà non sembra diretto verso nessun luogo preciso, è uno schizofrenico roteare di automobili attraverso spazi e percorsi confusi e appesantiti.

“Niente di nuovo”, dopo un po’ ti ci abitui ai puntellamenti, alle crepe, alle transenne, perfino alle macerie da schivare sulla strada, anche se i fiori e le foto appese alle transenne che fingono di riempire i vuoti dei palazzi sventrati fin nelle fondamenta ti tolgono sempre il fiato.

Piove, la neve sul Monte Ocre, una decina di gradi scarsi e gli unici mutamenti che noto sono il guard rail e l’asfalto appena rifatti del tornante che ti porta sulla statale per Pescara, sulla quale ti accompagnano, ormai punti di riferimento consolidati, il Progetto C.A.S.E. di S. Elia e quello imponente di Bazzano, prima di svoltare alla rotonda per Paganica. Faccio qualche chiamata, ma tutti sono indaffarati in piccole operazioni quotidiane, quelle che sembrano dare un senso e delle certezze alla giornata al di là di ogni dove e quando.

Arrivato a Paganica incontro Enrico che mi mostra, sotto la pioggia, il libro che ha appena pubblicato: una raccolta di racconti suoi, rigorosamente in dialetto paganichese; filo conduttore della raccolta sembra essere la vita al rione Colle tanti anni fa, con l’aggiunta di qualche testimonianza dal dopo sisma: mi racconterà che proprio il terremoto lo ha spinto a oggettivare tutto quel materiale, per fissare nella memoria vissuti che non torneranno mai più, “perché i luoghi di quei vissuti ora, dopo il terremoto, non ci sono più”.

Mi fermo poi “a Ciucci”, un bar di Pietralata rimasto in piedi, che ha accolto dopo il sisma anche clienti più giovani: incontro Alessandro, Gigi, Peppe e altri trentenni affaccendati nel loro perpetuo aperitivo: vino bianco, spritz, birra; si lamentano del fatto che quest’anno, per la prima volta nella storia di Paganica -che loro ricordano- non si è formato nessun comitato promotore della Pasqua paganichese, una Pasqua nota in tutto l’aquilano per la concomitanza con le feste patronali, che prolungano i festeggiamenti fino al martedì successivo alla “Risurrezione” di Cristo.

Chiedo anche se qualcuno andrà alla fiaccolata per la commemorazione del terzo anniversario del terremoto, o farà qualcosa stasera, ma qualcuno mi risponde che a Paganica non si è mai fatto niente per il 6 Aprile e che, in ogni caso -“Che domande faccio?!”-, loro in città -all’Aquila- non ci vanno; Gigi mi ribatte un po’ titubante: “Ma… intendi la fiaccolata del 5?” “Ehm, siamo diventati tutti un po’ atei dopo il terremoto!” Nell’apparente immobilismo di un giorno come gli altri, Alessandro aggiunge anche: “E’ il Giovedì di Pasqua e siamo qua a Ciucci come se niente fosse, prima stavamo in piazza, riunioni, manifesti, chi faceva questo, chi faceva quell’altro, festoni, luci, tutto addobbato, bisognava pensare a fare un sacco di cose, invece adesso niente, stiamo qua a Ciucci, non eravamo qua a Ciucci se non ci fosse stato il terremoto”.

Cambio bar, questa volta ai margini della Piazza, in un container, poco spazio e due o tre persone che conosco, i soliti clienti di sempre -il mio “sempre” post-sismico-, che mi offrono un bicchiere di vino e iniziano la conversazione lamentandosi anch’essi dei mancati festeggiamenti pasquali “Peccato che sei capitato proprio quest’anno, quando non ci sarà niente per Pasqua”. Finisco poi a casa di uno dei clienti del container, un amico che si è costruito da solo una casa a blocchetti, ampliando un garage che aveva al Colle, perché proprio non ce la faceva ad andarsene da lì, perché “lì ci è nato”, nonostante la sua casa sia appena stata demolita perché inagibile e ai margini della Zona Rossa.

Prolunghiamo l’aperitivo con un po’ della finocchiona di Ferraiolo che gli ho portato e prima di congedarmi mi offro di accompagnare i padroni di “casa” alla consegna del loro nuovo M.A.P., perché il Comune consegnerà loro una nuova “casetta di legno” proprio domani, il 6 Aprile e anche lui, alla fin fine, per il freddo, la mancanza di soldi per completare i lavori di auto-costruzione e la quasi totale assenza di compaesani al Colle, ha accettato di andarsene dal centro storico.

Riesco poi ad organizzarmi con Antonio, un magazziniere paganichese quarantenne per andare alla fiaccolata, insieme a due suoi amici: un paio di birre al bar del centro commerciale “Carrefour” verso le 23 e poi da soli sulla navetta che ci porta poco sopra lo stadio; arriviamo a piedi alla Fontana Luminosa (dove inizia -o finisce- “il Corso” dell’Aquila, una delle poche vie riaperte nel centro storico del capoluogo, a cui fanno da quinte transenne e puntelli di ogni forma, dimensione e grandezza) verso mezzanotte, quando la fiaccolata è appena partita.

L’atmosfera è più rilassata dello scorso anno, si chiacchiera, si commentano le quinte del corteo, fra le macchie di bianco della grandine del pomeriggio che non vuole sciogliersi e la presenza dei rappresentanti delle istituzioni: riconosco il Sindaco a braccetto con un Ministro, il Commissario per la ricostruzione e qualche Onorevole, circondati da agenti in borghese, riconoscibili invece per il loro essere perennemente in stato di allerta; “quando fai politica davvero, la vita non t’appartiene” sfugge ad un’Onorevole animata da un’accesa conversazione, proprio poco prima che Antonio e Chiara mi avessero risposto che loro sono qui stasera perché questa commemorazione “t’appartiene… siamo qui, per una specie di senso di appartenenza”; incontriamo qualche altro ragazzo di Paganica –i giovani, fra i venti e i trent’anni, sono forse la maggioranza stasera- prima di una pausa-birra (l’ennesima) e di constatare che l’affluenza è decisamente minore rispetto alle due commemorazioni precedenti.

Dopo più di due ore di corteo, che cinge la Zona Rossa sfiorandola, si entra nel centro storico passando per “la Villa”, mentre un piccolo gruppo di persone, seguito da alcuni giornalisti, prende via XX Settembre: davanti alla Casa dello Studente irrompono il silenzio e la commozione, illuminati solamente dai fari delle telecamere nel semicerchio che si forma nella “Piazzetta 6 Aprile 2009”-e che, allo stesso tempo, in quel momento, la forma- fra le transenne e il piccolo monumento commemorativo di quelle vittime, riempito di oggetti d’uso quotidiano cari a quegli studenti e contraltare della voragine lì di fronte, attraverso il display di quella quotidianità sommersa, il cui legame ha bisogno ora di essere reso pubblico e oggettivato.

In Piazza Duomo, alle 3 e 32, la corale interrompe il requiem cantato per la lettura dei 309 nomi delle vittime, accompagnato ognuno dal rintocco delle campane del Duomo, in una piazza che diviene il contenitore dell’essere-in-relazione di una memoria privata: non ci sono gruppi o crocicchi, ma ognuno è in silenzio, non interagisce con nessun altro, né con lo sguardo né con il corpo, solo con sé stesso e la propria storia individuale o stretto a un proprio familiare o intimo; si muovono solo le telecamere televisive, facendosi largo fra le persone immobili, ruotandoci attorno, per trasmettere e “far luce” (sole, con i propri faretti) su “ogni” dettaglio, dell’ennesimo anniversario dell’ennesimo terremoto della storia mediatica del nostro Paese.

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