Appunti su “Ana Arabia”, in concorso alla 70. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica
L’ultimo film di Amos Gitai, presentato in concorso a Venezia, è forse l’opera più contemporanea tra quelle viste fin’ora. Dotata di un leggerezza volteggiante, pervasa allo stesso tempo da uno sguardo visivamente estremo, Ana Arabia espone soprattutto la visione politica dell’autore sul conflitto arabo-israeliano.
Gitai entra con la macchina da presa in un villaggio tra Jaffa e Bat Yam, poco fuori Tel Aviv, dove convivono pacificamente ebrei e arabi all’interno della stessa comunità. Il villaggio si delinea subito come luogo di confine, che non appena varcato dalla protagonista femminile si trasforma in uno spazio geografico dove il tempo si fissa sulla pellicola.
La vicenda ruota attorno a Yael (Yuval Scharf), una giornalista che ha il compito di ricostruire la storia personale di una donna ebrea polacca, sopravvissuta ad Auschwitz e trasferitasi dopo la Shoah in Israele, in quello stesso villaggio, dove sposa un arabo e si converte all’Islam, diventando così per tutti Ana Arabia (letteralmente “io, l’araba”). La donna-oggetto-di-ricerca unisce in un’unica persona due culture e due mondi che all’interno del villaggio non sembrano fare così fatica a dialogare tra loro.
Ma Ana Arabia, allo stesso tempo, non si vede mai: non sappiamo se è viva o morta, e non possiamo fare altro che assumerla come elemento immaginario e utopico. Yael lascia parlare soprattutto gli anziani e le donne che abitano questo piccolo villaggio, prendendo appunti sul suo bloc notes ma finendo per perdere se stessa all’interno dei loro racconti. Varcando la soglia di questo luogo etereo, sembra quasi un’aliena di una bellezza ultra-terrena, che arriva in un mondo che non conosce e non può fare altro che ascoltare, vivendo così la stessa condizione cui è sottoposto lo spettatore. Gli abitanti non vedono l’ora di essere ascoltati, e come segno di riconoscenza le preparano quasi tutti un thè, ma paradossalmente nessuno le offre una sedia su cui sedersi: a differenza dello spettatore, infatti, Yael rimane un’ora e venti sempre in piedi, attenta a non invadere mai il territorio che non le appartiene.
Il villaggio viene reso un luogo senza tempo soprattutto attraverso l’utilizzo di un espediente cinematografico: un unico piano sequenza di ottantuno minuti, vero protagonista del film grazie al quale il tempo filmico finisce per corrispondere al tempo della vita reale. A dir la verità, la tecnica viene utilizzata spesso da Gitai nei suoi film precedenti, ma solo per pochi minuti. Qui la scelta è radicale ed ha pochissimi precedenti nella storia del cinema – tra tutti non si può non citare il capolavoro di Aleksander Sokurov Arca Russa (2002), con cui Ana Arabia dialoga da lontano, in bilico tra arte cinematografica e teatrale.
Più che fare un film teorico sul cinema, l’obiettivo dell’autore sembra soprattutto politico. Il regista israeliano vuole infatti raccontare le contraddizioni e le frammentazioni della sua terra di origine, unendo le microstorie di arabi ed ebrei che abitano il villaggio attraverso un unico flusso cinematografico, che tenta così di ricomporre la complessità di un conflitto mai sopito. L’assenza del montaggio nega il taglio della pellicola, alla base dell’essenza del cinema, ma soprattutto cura idealmente le ferite di due popoli in una perenne condizione conflittuale e precaria.
Ana Arabia sembra quasi un documentario su una baraccopoli alla periferia di Tel Aviv, città metropolitana che si scorge nel finale, in lontananza, con i suoi palazzoni mostruosi, quasi a ricordarci che siamo sulla terra, mentre il cinema nell’ultima scena prende il volo. Nel villaggio la natura imperversa: dalla grossa corteccia con cui comincia e finisce il viaggio di Yael, agli alberi di limoni che circondano lo spazio circostante, sovrastando l’agglomerato di case e vigilando vitali sugli abitanti. In questo contesto, la macchina si muove sinuosamente tra la quotidianità di ebrei e musulmani, considerati infine com un unico popolo dal destino inevitabilmente intrecciato: ognuno con le proprie tradizioni, ma entrambi, come ci suggerisce sempre l’apertura finale, sotto lo stesso cielo.
La riflessione sullo spazio e sul territorio si afferma come assolutamente centrale, in particolare in una zona sempre di confine come questa. Il piano sequenza di Gitai è una violenta invettiva contro tutti i nazionalismi, e annulla qualsiasi rivendicazione territoriale immaginabile. Il cielo è lo stesso per tutti, il territorio è unico, ma i popoli sono due, e non c’è altra strada che la coesistenza pacifica, come del resto avviene quotidianamente in diversi territori israeliani e palestinesi. Proprio per questo Ana Arabia è un racconto corale, ma soprattutto orale, che riconduce passati comuni e diversi alla stessa unica radice dell’umano. L’idea alla base non è infatti quella di eliminare le diversità, ma recuperare le tradizioni del passato alla luce di un percorso comune nel futuro, la proiezione finale verso il cielo, che torna ancora una volta.
Attraverso un unico piano sequenza, girato per dieci volte fino ad arrivare alla scelta quasi “naturale” dell’ultima ripresa, Amos Gitai ritorna a un cinema totale tramite una straordinaria capacità di saper raccontare il presente con una rara leggerezza metaforica. Dopo la visione rimane stampata nella mente l’aliena-Yael, che soltanto attraverso la sua presenza dà voce agli emarginati, ai subalterni, ai dimenticati dalla società e dalla storia. Per questo si perdona una narrazione a tratti un po’ pesante, anche se volutamente frammentaria, talvolta difficile da seguire e assecondare. Gitai, infatti, rifiuta per scelta l’empatia tra gli spettatori e i personaggi, rimanendo sempre a debita distanza dalla messa in scena. Ugualmente, il suo occhio così freddo e distaccato richiede un piccolo sforzo da parte dello spettatore, cui si chiede soprattutto di lasciarsi andare agli ellittici movimenti di macchina.
Ana Arabia è un film-testimonianza che parla soprattutto al cuore, ma che costringe allo stesso tempo a immaginare un ipotetico/utopico esito del scontro di civiltà, in cui i destini di arabi ed ebrei si intrecciano virtuosamente. Ma è davvero impossibile sperare che la ricomposizione del conflitto possa andare oltre un unico piano sequenza?