Appunti su “La Jalousie” di Philippe Garrel, in concorso alla 70. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.
Il cinema di Philippe Garrel è sempre un ritorno al passato. Alla settantesima edizione della Mostra del cinema di Venezia, il regista francese presenta in concorso un film piccolo, intimo e familiare, su una vicenda biografica che lo vede coinvolto in prima persona. La jalousie è, infatti, soprattutto un’opera sul suo rapporto col padre, scomparso qualche mese prima delle riprese. La figura del regista da bambino è traslata nella figlia del protagonista, Louis Garrel, figlio di Philippe che interpreta però suo nonno Maurice. Stavolta si aggiunge alla pattuglia famigliare anche l’altra figlia del regista, Esther, che interpreta la sorella di Louis, come nella realtà. Già dai presupposti, quindi, il cinema e i legami famigliari intersecano i loro piani narrativi.
Come in molte altre sue opere, Garrel sceglie un bianco e nero sporcato da una vistosa grana, fino a rendere il bianco della fotografia molto più vicino un grigio scuro. Il film è diviso in due capitoli, entrambi introdotti da un titolo. “Ho accudito gli angeli”, il primo, fa riferimento soprattutto ai due amori nella vita di Louis, la figlia e la compagna Claudia (Anna Mouglalis), due angeli di cui prendersi cura. Il capitolo è però anticipato da una premessa di rilievo, dove l’occhio del regista coincide da subito con quello della bambina, che osserva dallo spioncino della serratura, come fosse una macchina da presa, i genitori che si lasciano. Il film, da subito, si sviluppa come una storia idilliaca tra Louis e Claudia, che sembrano vivere una dimensione eterna e felice in cui si amano “definitivamente”. Ma l’espressione del sentimento sincero non è mai ricambiata nell’immediato, in un vortice di ambiguità e doppi sensi che risulterà fatale. Dichiarare il proprio amore non è altro che un ricatto morale, che mina la stabilità della coppia, perché è sempre impossibile rispondere sinceramente e sentitamente a un semplice “ti amo”. Anche il rapporto con l’altro angelo, la figlia, rende Louis un tenero papà, simpatico e disponibile, che ogni bambino vorrebbe avere. La bambina però non vive il trauma della fine dell’amore tra i genitori, anzi, sembra raccogliere ancora più affetto da entrambi separatamentea.
La gelosia del titolo ha però un ruolo marginale, e sembra soprattutto fare da sfondo alla vicenda. Louis, ad esempio, chiede a Claudia se vorrebbe essere informata di un suo eventuale tradimento, ma lei risponde che le basterebbe sapere che si amano con tutti loro stessi, mentre lui annuisce. Proprio qui si apre il secondo capitolo, intitolato esplicitamente “Dare fuoco alle polveri”. Da questo momento in poi, i punti di vista del racconto cominciano a essere sempre più intercambiabili, figli di una scrittura collettiva per mano di ben quattro sceneggiatori, tra cui il regista stesso, equamente distribuiti per genere. In virtù di un film scritto ottimamente, Garrel propone un cinema poetico d’altri tempi, che lentamente scompare nel presente. La sua è una ricerca indirizzata al recupero di una forma classica post-Nouvelle Vague, in un mondo contemporaneo dove il caos iconografico dei colori imperversa e confonde.
Nonostante le belle parole, sia Louis che Claudia si comportano e vivono proprio in modo confuso, dando spazio alle proprie pulsioni istintive e cominciando a tradirsi l’un l’altro, quasi per inerzia, con una disarmante naturalezza. Il tradimento, infatti, non sembra toccare in alcun modo il loro senso di colpa, quanto piuttosto emancipare entrambi dal giudizio dell’altro. A Claudia la mansarda bohémiene dove vivono comincia a stare stretta, perché può sopportare di essere al verde ma non “di essere povera”. Claudia ha bisogno di una stabilità che Louis non può garantirle, così finisce per mettere in discussione per prima i propri sentimenti, per quanto apparentemente stabili appaiano. Lei gli rimprovera di vivere la sua vita in perenne attesa di non si sa bene cosa. Come suggerisce il professore-mentore di Claudia, cui i due fanno visita, “il bello della vita è che non costringe nessuno a subirla”, citando un libro di Seneca appena regalato alla sua allieva. L’irrimediabile istinto di sopravvivenza e la pulsione verso il cambiamento finisce così per essere assecondata, in un circolo vizioso, ellittico e pericoloso, che violenta e ferisce in profondità chi ne rimane vittima. Non a caso, La jalousie è un film compresso tra due separazioni, la prima vista dallo spioncino della serratura, mentre l’altra mostrata in tutta la sua insensata e inspiegabile naturalezza: “È finita, Louis”, spiega semplicemente Claudia, chiudendo la porta dietro di sé e lasciando Louis al suo destino.
L’instabilità dei legami affettivi, che sfuggono alla presa non appena si crede di averli afferrati e poterli controllare, è al centro della riflessione di Garrel. Ma la nostalgia e la rassegnazione rispetto alle relazioni sentimentali, tutte a loro modo prima o poi fonte di dolore, si trasformano in un inno alla vita e alla sicurezza della stabilità emotiva fornita dai legami famigliari. In un contemporaneo, infatti, in cui l’infedeltà diventa la norma, la famiglia si delinea come un elemento di discontinuità, unica fonte possibile di rincoramento dalla malinconia. Non c’è però etica contro il disfacimento dei costumi, perché il cinema e la morale vengono tenuti ben separati da Garrel. Più che di nucleo famigliare o di focolare, si tratta però di affetti disgregati tra persone che hanno dei forti legami non modificabili.
Ciò che tiene in vita Louis, infatti, è soprattutto l’amore paterno che prova nei confronti della figlia, che ricambia simbioticamente. Allo stesso modo, il ruolo della sorella sarà decisivo nella rinascita del protagonista, riformando una famiglia in piccolo assieme agli altri due. Anche se la struttura si è sgretolata nelle vite ormai autonome dei suoi componenti, i legami famigliari rimangono fissati nel tempo senza alcuna condizione. Ne è testimonianza la presenza diretta die figli del regista nell’interpretazione del film, girato in modo improvviso e istintivo in tre settimane. Garrel si pone di fronte alla rappresentazione dei propri figli, che interpretano una sua vicenda biografica, quasi di fronte a una seconda natività, ricondotta alla tradizione e al lessico famigliare. Verso la fine del film, in una scena meravigliosa, i tre mangiano le noccioline seduti su una panchina di un parco. Loro tre sono l’unica certezza possibile, mentre tutto intorno a loro scorre, cambia, passa, lasciando segni forse indelebili sulla pelle ferita.
Louis Garrel nella sua interpretazione migliore, emancipatosi dal ruolo di bello, annoiato, narcisista e scapigliato che fa impazzire le donne, contribuisce certamente all’ottimo risultato finale. Qui è un padre di una tenerezza invidiabile, che lascia all’inizio una donna ma che viene lasciato da un’altra, disperandosi ma ritrovando nella figlia la forza di continuare a vivere. Da sottolineare anche le splendide interpretazioni di una Anna Mouglalis in stato di grazia, e di una bambina piena di vitalità e curiosità che interpreta la figlia. La jalousie è un gioiellino di appena settantasette minuti, intensi e rigorosi, che sembrano quasi il sunto del suo cinema. È un film intriso di una nostalgia per un’arte che non c’è più e che Garrel, per primo, ama e continua a ricercare, caparbiamente teso verso un cinema istintivo, ma allo stesso tempo dotato di un retroterra teorico e una riflessione meticolosa sulla forma cinematografica. Per un cinema che emozioni, con lo sguardo rivolto al passato, come l’Angelus Novus di Klee, ma proiettato in senso rivoluzionario verso il futuro.