Una Filosofia-schermi

Intervista a Mauro Carbone.


Nel suo libro, “Filosofia-schermi” (Cortina 2016), Mauro Carbone riflette sullo statuto dello schermo quale dispositivo di visione e occultamento, nell’epoca del suo massimo dispiegamento. In occasione della sua partecipazione al Festival della Letteratura di Mantova, proponiamo un’intervista a cura di Marie Rebecchi. 

1. Esperienza

Marie RebecchiIl titolo del tuo libro (Filosofia-schermi. Dal cinema alla rivoluzione digitale, Raffaello Cortina editore, Milano, 2016) fa eco all’espressione “filosofia-cinema”, coniata da Gilles Deleuze per sollecitare a fare una filosofia che, tu ricordi, non si eserciti a pensare il cinema ponendosi come riflessione su un oggetto, ma semmai si sforzi di pensare l’essere e la filosofia stessa secondo il cinema. A tua volta, tu proponi una “filosofia-schermi” che sia all’altezza delle più recenti novità della rivoluzione digitale, che smetta perciò di essere “Nottola di Minerva” e sappia ripensare, proprio alla luce di quelle novità, la sua identità, la sua funzione culturale e sociale, il suo modo di esprimersi. Per questo hai messo al centro della tua ricerca la nozione di esperienza schermica e le sue inarrestabili modificazioni, in un più ampio progetto di recupero del distacco tra filosofia e vita. È possibile, dunque, pensare l’esperienza come paradigma alternativo a quello legato all’aspetto tecnico del dispositivo cinematografico e più in generale visuale, ovvero un paradigma che permetta di rendere conto della storicità e di una genealogia complessa degli schermi? 

Mauro Carbone: Sappiamo bene che l’attenzione per l’esperienza è centrale nella riflessione di alcuni teorici del cinema come Vivian Sobchack, Francesco Casetti o Raymond Bellour, per citarne solo alcuni. Non altrettanto mi pare si possa dire per la riflessione sulle novità introdotte dalla rivoluzione digitale. Per questo mi è sembrato necessario un approccio teorico e metodologico centrato sulla nozione di “esperienza schermica”, in modo da sottrarmi a una tendenza che trovo diffusa, ma che non condivido. Si tratta di una tendenza che, in termini filosofici, potremmo definire “essenzialistica”, in quanto consiste nel chiedersi: “qual è l’essenza di ciò?” Nel nostro caso: “che cosa è uno schermo?”, ma anche: “qual è l’‘antenato’ di questo schermo?” Ecco, io ritengo che un simile approccio rischi di essere fuorviante, perché finisce per dare risposte molto definitore o classificatorie (lo schermo è questo e non invece quello; questo schermo ha tali caratteristiche e quindi non c’entra con quello, ma discende semmai da quell’altro), le quali fanno credere che si possano comunque ricavare e definire delle essenze comuni alla molteplicità degli schermi, magari anche solo a quelli di una certa epoca. Quindi spostare l’accento sull’esperienza schermica è stato per me un modo per cercare di sottrarmi, dicevo, alle tendenze essenzialistiche sottese a certe “archeologie” e “genealogie” degli schermi, che a mio parere rischiano di essere di corto respiro. Nel contempo, è stato un modo per cercare di trovare delle ricorrenze o addirittura delle continuità anche sincroniche. Infatti, se noi ci poniamo la questione degli schermi in termini “essenzialistici” anche solo rispetto a una data epoca, avremo difficoltà a vedere cos’hanno in comune dei devices che funzionano in modo diverso e che richiedono interazioni differenti, sia concettualmente che percettivamente. Eppure, nei nostri rapporti con questi diversi devices noi siamo soliti riconoscere istintivamente delle ricorrenze, delle somiglianze e/o delle continuità, come pure i loro opposti. È tutto questo a comporre quanto chiamerei appunto “esperienza schermica”, che m’interessa interrogare per cercare di comprendere come mai avvertiamo certe familiarità nel relazionarci agli schermi di devices tra loro contemporanei ma molto diversi, oppure come mai riconosciamo (o costruiamo) parentele nel nostro rapportarci a schermi di diversa generazione, come quello del cinema e quello del computer. 

2.  Medium 

M.R.: Il medium, in tal prospettiva, non è più né il supporto, né il dispositivo tecnologico, ma il tipo di esperienza che quest’ultimo è in grado di attivare. In che modo il saggio sull’opera d’arte di Walter Benjamin, dove si afferma appunto che «il modo secondo cui si organizza la percezione umana – il medium in cui essa ha luogo – non è condizionato soltanto in senso naturale, ma anche storico» (W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [1935-1936], in Id., Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di A. Pinotti e A. Somaini, Einaudi, Torino 2012, p. 21), ti ha influenzato nel pensare la storicità del desiderio come uno degli assi portanti della tua “filosofia-schermi”? Il desiderio, quindi, come direttamente connesso alle trasformazioni del dispositivo schermico…

MC: Quello che non è detto nel mio libro, perché in qualche modo lo precede all’interno del mio percorso di ricerca, è che questa centralità del medium risulta fondamentale già nella filosofia di Maurice Merleau-Ponty. In fondo, la concezione del corpo vissuto così come Merleau-Ponty la riprende da Edmund Husserl, e la nozione di “carne” in cui arriva a svilupparla ontologicamente, possono essere lette proprio in termini di “medium”. Il corpo come proto-medium, insomma! Il medium, di qualsiasi tipo esso sia – il corpo stesso, il linguaggio o l’acqua della piscina (di cui Merleau-Ponty parla in L’occhio e lo spirito (ndr. [1964], trad. it. A. Sordini, L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989, p. 50.) – è un elemento attraverso il quale, e grazie al quale, noi ci troviamo in relazione con il mondo. In questo consiste il valore ontologico della nozione di “carne”. Quindi io sono arrivato a scrivere Filosofia-schermi avendo già maturato questa sensibilità carnale circa la questione del medium.
Quanto al tema della storicità del desiderio, che nel mio libro mi sono sforzato di mantenere intrecciata a quella della percezione, nell’affrontarlo mi sono trovato di fronte a una duplice insoddisfazione. Da un lato, non mi ha mai convinto la narrazione elaborata dalla generazione post-fenomenologica francese (quella di Jean-François Lyotard, Michel Foucault, Gilles Deleuze, ma qui penso in particolare a Lyotard), la quale ha “ridotto” il pensiero di Merleau-Ponty a una ristretta filosofia della percezione che, in quanto tale, non poteva raggiungere il cuore dell’esperienza stessa, e quindi la sua verità, in quanto questo suo cuore si troverebbe altrove, ossia nel desiderio.
La seconda mia insoddisfazione consisteva nel fatto che Merleau-Ponty non ha mai chiarito del tutto il suo pensiero intorno al tema della storicità della percezione. Certo, da un dato momento in poi ha cominciato ad aprire in questa direzione: in particolare potrei fare l’esempio del saggio Il linguaggio indiretto e le voci del silenzio (ndr. [1952], in Segni, trad. it. di G. Alfieri, ed. it. a cura di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 2003), in cui l’attenzione a quel tema emerge abbastanza chiaramente, però non risulta evidente a quali implicazioni porti tale apertura. Ancora nell’ultima fase del suo pensiero, in particolare in Il visibile e l’invisibile (ndr. [1964], trad. it. di A. Bonomi riv. da M. Carbone, Il visibile e l’invisibile, nuova edizione italiana a cura di M. Carbone, Bompiani, Milano 1993, 2007), questo non è del tutto chiaro.
Quindi avvertivo da un lato un’insoddisfazione riguardo alla storicità della percezione non adeguatamente pensata in Merleau-Ponty, da un lato un’insoddisfazione rispetto al rapporto tra desiderio e percezione in Lyotard. Ho trovato modo di superarle entrambe grazie a Benjamin. In Benjamin c’è infatti la preziosa indicazione della complementarità di percezione e desiderio, quindi della complementare mutazione dell’una e dell’altro.

3.  Archi-schermo

MR: Facendo eco al termine “archi-cinema” usato da Bernard Stiegler, nel tuo libro introduci la nozione di “archi-schermo” (Filosofia-schermi p. 100 sgg.), presentando un percorso archeologico che dal mito della caverna di Platone e dal velo di Iside (Plutarco), passando per la variazione “albertiana” della finestra, giunge sino a quella variante libidica dello specchio (o della “parete speculare”) di cui parla Lyotard introducendo l’idea di acinéma (attraverso un parallelo con la funzione dello specchio in Lacan).
A mio avviso, lo schermo cinematografico, già a partire dal proto-cinema, compare come una variazione possibile di questi archi-schermi, segnalandosi come il modello di visione che meglio corrisponde, dal punto di vista percettivo, affettivo e cognitivo, al nostro rapporto con le immagini. Non credi che l’uso sistematico di metafore come la finestra o lo specchio (penso ad Anne Friedberg, The Virtual Window: from Alberti to Microsoft, The MIT Press, Cambridge, MA 2006) siano archetipi/modelli “trasparenti” dello schermo cinematografico, che indicano forse una genealogia alternativa rispetto a quella del modello “opaco” della caverna?

MC: Non mi riconosco in questa tua proposta di lettura, che trovo però molto stimolante. Rispetto a tali stimoli, anzitutto devo sottolineare che l’intenzione con cui nel mio libro ho parlato di “archi-schermo” è stata quella di proporre una nozione dalla valenza euristica, cioè che ci dovrebbe servire a capire meglio certi elementi di continuità, di ricorrenza o di divergenza  riscontrabili nei nostri rapporti con quelle superfici sulle quali riconosciamo delle immagini. Quindi, nel momento in cui l’“archi-schermo” diventa più di uno, come tu proponi, già temo che il senso euristico che io do a quella nozione perda la sua efficacia. Inoltre, sentirti associare la parola “archi-schermo” alla parola “genealogia” mi suscita almeno un invito alla prudenza. Infatti, parlare di “genealogia” può far pensare a una linea di sviluppo che  da una nascita va verso un’evoluzione ed eventualmente un approdo. In questo senso mi sembra che tu abbia parlato di genealogia dello schermo cinematografico. Ecco, quando io mi richiamo alla forma musicale “tema e variazioni”, o piuttosto a una certa maniera di praticarla  – è su quest’ultima che ho modellato la nozione di “archi-schermo” – , lo faccio proprio per evitare certi usi dell’idea genealogica che rischiano di trasformarla in storicistica. Per riprendere un esempio che faccio spesso, pensiamo alle Variazioni Goldberg di Bach. Noi siamo abituati ad aspettarci che, nella forma musicale “tema e variazioni”, prima ci venga presentato il tema, poi le sue variazioni, poi eventualmente di nuovo il tema. Lo psichiatra e filosofo Erwin Straus, in Vom Sinn der Sinne, quando si rifà all’esempio di questa forma musicale, commenta: «Noi, però, non ci troviamo in una condizione così fortunata» (ndr. E. Straus, Vom Sinn der Sinne. Ein Beitrag zur Grundlegung der Psychologie, Springer, Berlin 1935, riveduta e ampliata 1956, trad. it. di A. Pinotti in E. Straus, H. Maldiney, L’estetico e l’estetica. Un dialogo nello spazio della fenomenologia, a cura di A. Pinotti, Mimesis, Milano 2005, p. 76). Quello che Straus vuole dire è che, nella nostra esperienza, noi non incontriamo affatto anzitutto  temi isolati, che poi potremo agevolmente riconoscere nella genealogia delle loro variazioni. Noi non incontriamo altro che variazioni. Però tra le Variazioni Goldberg, che pure non sembrano obbedire a una linea genealogica, noi siamo in grado di riconoscere “una comunità di sentimento”. È Glenn Gould a dirlo molto bene quando commenta appunto la sua interpretazione delle Variazioni Goldberg: «le variazioni percorrono non una retta ma una circonferenza» (ndr. G. Gould, Le “Variazioni Goldberg” [1956], in Id., L’ala del turbine intelligente, trad. it. di A. Bassan Levi, a cura di T. Page, Adelphi, Milano 1988, p. 63). Ecco: il variare delle esperienze schermiche che forma e trasforma la nozione di “archi-schermo” vuole avere questa fisionomia per difendersi da quel tipo di pericoli.

Peraltro, trovo molto interessante che tu abbia introdotto nella nostra discussione il tema alla trasparenza. Tuttavia, io non svolgerei questo tema in termini di alternativa genealogica tra trasparenza e opacità, perché ciò rischierebbe di ristabilire vecchi dualismi non certo utili a dare respiro ampio alla ricerca. Anche a evitare simili tentazioni dualistiche può servire a mio avviso la nozione di “archi-schermo”, che permette di salvaguardare l’ambiguità tra nascondere e mostrare iscrittasi nel significato del termine “schermo”, anziché spezzarla in due azioni opposte e separate. Allo stesso modo ci si può chiedere: ma l’opacità è davvero alternativa alla trasparenza? Non è forse la trasparenza un’opacità parziale, che, appunto in quanto tale, si lascia attraversare (trans) dall’apparire, come indica l’etimologia latina del termine? 

In fondo, se guardiamo alla “finestra albertiana”, essa è tale purché sia aperta, dice Leon Battista Alberti, ossia, letteralmente, non trasparente. Però egli parla anche di un “velo” quadrettato che deve intersecare il campo visivo del pittore (come nella “finestra” di Dürer, ndr. Albrecht Dürer, “Il disegnatore della donna sdraiata”, in Id., L’insegnamento della misura, ed. 15382), per consentirgli di disegnare rispettando il più precisamente possibile le proporzioni del modello. Quindi Alberti tiene insieme due modelli: quello della finestra aperta e quello del velo semitrasparente, ma per ciò stesso semiopaco. In questo senso, non lavora in termini che possano essere ricondotti ad alternative genealogiche.

In ogni caso, credo che la questione della trasparenza sia molto importante e offra una ricca chiave di lettura per interpretare diverse epoche della storia della visibilità occidentale. A lungo si è trattato della trasparenza prevalentemente intesa nel suo senso etimologico, che, come dicevo, indica l’apparire attraverso un medium.

Soprattutto dopo la rivoluzione digitale, però, il richiamo alla trasparenza è dilagato, ma il termine non viene quasi mai usato secondo il suo significato etimologico, bensì per designare piuttosto l’assenza di ogni mediazione. Questo mi sembra un tratto della nuova fase della storia della visibilità occidentale in cui siamo entrati. A proposito di tale fase, Gérard Wajcman parla di «occhio assoluto», sarebbe a dire di un’epoca in cui «il desiderio di vedere si è tramutato in volontà di vedere tutto» (ndr. L’Œil absolu, Denoël, Paris 2010, p. 13). In aggiunta, io parlerei di ideologia della “Trasparenza 2.0”, basata su un’identificazione immediata tra visibilità e verità, che fa pensare: è vero perché l’ho visto. Ovviamente una simile ideologia nulla ha a fare con una qualsiasi forma di verità, ma semmai con facili strategie di consenso, che consistono nel dare a chi ci si rivolge mere conferme delle sue convinzioni. Sono strategie ormai catalogate col pudico nome “post-verità”: non a caso gli Oxford Dictionaries lo hanno designato “Parola dell’anno” 2016.

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