Una Filosofia-schermi

4.  Quasi soggetto

MR: Vorrei ritornare sulla nozione di “quasisoggetto” che Vivian Sobchack (in The Adress of the Eye. A Phenomenology of Film Experience, Princeton University Press, Princeton 1991), riprende da Mikel Dufrenne (Phénoménologie de l’expérience esthétique, P.U.F., Paris 1953, 1967, 2 voll., trad. it. di L. Magrini del solo vol. I, Fenomenologia dell’esperienza estetica, I – L’oggetto estetico, Lerici, Roma 1969) e sull’idea di “oggetto estetico” dotato di un proprio mondo espressivo. Secondo Sobchack, il film in questo senso non sarebbe solo un oggetto visibile ma anche un soggetto vedente: unquasi-soggetto”, appunto. Muovendo da queste premesse, tu sostieni che lo schermo stesso possa assumere le caratteristiche di “quasi-soggetto”. Uno schermo dotato di un “quasi-agire”, di un’agency impersonale. Per dirla con Gilbert Simondon, un oggetto tecnico dotato di un suo “modo di esistenza”. Pensi ci si possa spingere fino a parlare di una forma di “animismo” del cinema e degli schermi? Evocando ad esempio Jean Epstein e il suo fondamentale scritto del 1924 De quelques conditions de la photogénie ?

MC: Io ti risponderei di sì, nel senso che agli schermi va riconosciuta una relativa autonomia anche rispetto alle immagini, nonché degli autonomi poteri. Non a caso il convegno che faremo a Lione in settembre s’intitola appunto Des pouvoirs des écrans (ndr. 21-23 settembre 2017, Université Jean Moulin Lyon 3). Impostando questo tema, quello che ho cercato di sottolineare è che si parla sempre del potere delle immagini, ma molto poco del potere degli schermi in quanto tali, ossia dell’archi-schermo in tutte le sue variazioni. Io direi che il primo potere degli schermi così intesi è quello di rendere visibile qualcosa o di renderla invisibile, un potere che ovviamente può esprimersi storicamente in modi e ambiti diversi, dalla religione alla sorveglianza. In ogni caso, si tratta di un potere che consente di dar vita a qualcosa. Mi riferisco qui a quello che Deleuze spiega quando interpreta la nozione di “dispositivo” in Foucault: «Se c’è una storicità dei dispositivi, è quella dei regimi di luce, ma anche dei regimi di enunciato» (ndr. G. Deleuze, Che cos’è un dispositivo? [1989], trad. it. di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2007, p. 14). Parlare di “storicità dei regimi di luce” vuol dire che, all’interno di un certo intreccio storico-culturale (un dispositivo nel senso di Foucault, appunto), funziona una particolare distribuzione del visibile e dell’invisibile, che orienta il proprio fascio luminoso verso alcuni fenomeni ancora latenti. Ovviamente, facendo ciò non si limita a mostrarli, come se fossero già stati presenti, però nel buio, ma contribuisce a dar loro vita. Evidentemente un simile regime di luce ha anche una precisa valenza politica, in quanto può mettere una questione al centro dell’attenzione marginalizzandone altre, dare profondità a certe tendenze appiattendone altre.

L’altro fondamentale potere degli schermi, che ne conferma il carattere di “quasi-soggetti”, viene oggi significativamente sottaciuto dall’ideologia della “Trasparenza 2.0”. Si tratta del potere di mostrare nascondendosi. Ricordarlo può sembrare elementare, invece è molto importante sottolinearlo, in rapporto a quanto dicevo in precedenza: esaltare la trasparenza assoluta, identificando immediatamente la visibilità e la verità, significa ignorare o fingere d’ignorare proprio questo fondamentale potere degli schermi, precipitando tutti in trappole molto pericolose.

5.  Superfici

MR: Nell’ambito degli studi sugli “environmental media”, ambito sul quale riflettono oggi Francesco Casetti, W.J.T. Mitchell, Giuliana Bruno, trovo convincente l’idea che da una prospettiva sul cinema come ambient device si possa aprire la possibilità di una nuova archeologia dello schermo. Da questo punto di vista, non possiamo fare a meno di confrontarci con la materialità della superficie e con il potere di partecipare attivamente alla produzione delle immagini, sfruttando al meglio tutte le possibilità offerte dal milieu in cui le immagini vengono proiettate. Una forma d’indagine attorno agli schermi che potremmo dunque definire persino “paleontologica” (facendo riferimento a un’idea di Mitchell), o più ampiamente “antropologica”. Anche l’ultimo libro di Giuliana Bruno, Superfici, a proposito di estetica, materialità e media (Johan &Levi, 2016), mi sembra vada esattamente in questa direzione…

MC: Anche la nozione di “archi-schermo” mi pare andare in tale direzione. Infatti fa segno appunto all’esigenza di quella che chiamerei un’“antropologia degli schermi”. Senza dubbio, al centro di questa non potrà che esserci l’esperienza corporea, non diversamente da quanto Hans Belting, dal canto suo, ha mostrato con la sua proposta di antropologia delle immagini. Ritorna insomma il tema del corpo come proto-medium. Decisamente, non è il cervello a essere lo schermo, come invece pretendeva Deleuze! (ndr. G. Deleuze, Le cerveau, c’est l’écran, “Cahiers du Cinéma”, n. 380, Février 1986, trad. it. di L. Rampello, “Il cervello è lo schermo”, in Id., Che cos’è l’atto di creazione?, ed. a cura di A. Moscati, Cronopio, Napoli 2003).

Il mio intervento nella giornata di studi di Lione dello scorso marzo (L’empathie à l’épreuve de l’interface écran, Université Jean Moulin Lyon 3, 6-7 marzo 2017) ha voluto essere il primo passo di una ricerca che intende muoversi proprio nel senso che ho appena accennato, per sviluppare quella del libro di cui ora stiamo parlando. Il primo passo è riflettere sulla caratterizzazione dell’ombra come proto-immagine per inferirne quella del corpo come proto-schermo, che si collega ovviamente al tema del corpo quale proto-medium. A partire da qui, mi piacerebbe riuscire a verificare se si possa o no rintracciare un processo di “esternalizzazione” per usare il termine di André Leroi-Gourhan (ndr. A. Leroi-Gourhan, Le geste et la parole, Paris, Albin Michel, 1964-1965, 2 voll.) o di “outering” – per usare il vocabolo di Marshall McLuhan (ndr. Understanding Media: The Extensions of Man, 1964) di cui è stato protagonista lo schermo in quanto protesi del corpo.

Anche a livello linguistico trovo tracce interessanti che sembrano suggerire percorsi di questo tipo. Per esempio, la parola “velo” in greco è πέπλος, che a sua volta ha la stessa radice etimologica di “pelle”. Quindi πέπλος è un termine che sembrerebbe parlare del distaccarsi della pelle-schermo dal corpo per divenirne protesi: quello stesso processo di distacco di cui sembra parlare anche la parola “pellicola”. Non a caso la pellicola, proprio come il corpo, fa schermo a una fonte luminosa per produrre un’immagine. Non dimentichiamo poi che anche l’anglosassone filmen rinvia etimologicamente alla “pelle”.

6.  Media Installation Art

MR: Nel libro di Kate Mondloch, Screen: Viewing Media Installation Art (University of Minnesota Press, 2010), l’idea di un cinema spazializzato, di un cinema come “environnement”, fa dello schermo una vera e propria installazione, il luogo di una performance. Se pensiamo all’opera Two Sides to Every Story (1974) di Michael Snow (costituita da uno schermo sospeso nel mezzo dello spazio d’esposizione), o all’installazione The Beginning: Living Figures Dying di Clemens von Wedemeyer (opera video su dieci schermi disposti al suolo, presentata al MAXXI di Roma nel 2013), oppure ancora al lavoro di Isaac Julien, Ten Thousand Waves (Fondation Vuitton 2016), possiamo affermare che, nel corso degli ultimi quarant’anni, gli schermi hanno spesso riplasmato e rimaterializzato gli spazi espositivi. Attraverso la tua proposta di una “filosofia-schermi”, è possibile secondo te rendere conto anche di questa modificazione degli ambienti espositivi?

MC: Ma perché non ricordare anche la performance intitolata Intellettuale, con cui a Bologna nel 1975 Fabio Mauri riconobbe al corpo umano lo statuto di proto-schermo (e dunque di spazio espressivo), proiettando su quello di Pier Paolo Pasolini il suo film Il Vangelo secondo Matteo? Tanto più che Mauri è stato un precursore nell’esplorare i poteri degli schermi, promuovendoli sin dagli anni Cinquanta a immagini di se stessi.
È certo che da tempo anche la filosofia è chiamata a fare i conti con gli schermi, con cui ha da sempre una frequentazione teoreticamente ambigua, come scrivo all’inizio del mio libro: li condanna, però segretamente li cerca. Se non li ha fatti prima, questi conti, e non ha tratto le debite conseguenze, che ci provi almeno oggi, in un’epoca in cui l’incidenza degli schermi sulle esperienze umane è diventata una questione di portata tale da mettere in questione, come suggerivo all’inizio, l’avvenire della filosofia stessa. In tal senso, Filosofia-schermi non è solo il titolo di questo libro, ma ovviamente vuol designare anche un progetto di ricerca ben più ampio, aperto, collettivo e transdisciplinare, con cui contribuire a quella sfida di rinnovamento. Non a caso il convegno di Lione sui “poteri degli schermi”, cui ho accennato in precedenza, non è concepito come un tradizionale incontro accademico inevitabilmente un po’ isolato, ma si colloca all’interno di una rete di eventi culturali e artistici concomitanti, che ho pensato proprio per far agire questo respiro progettuale.

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