Nuove soggettività tra lavoro autonomo e bene comune.
L’operaio più anziano, interrogato su come faccia a tirar su così tanti quattrini col cottimo, guarda i suoi compagni di fabbrica più giovani e condensa nella risposta la consapevolezza della propria superiore forza competitiva: “Io, mi concentro; penso al culo di quella lì e via…un pezzo, un culo!”
Così il Volontè operaio della catena di montaggio diretto da Petri in La classe operaia va in paradiso (1971) da corpo all’immagine alienata e alienante dell’operaio cottimista, impegnato in una corsa estrema contro il tempo e contro i propri compagni nello sforzo produttivo che gli permetterà, alla fine del mese, di perfezionare un altro sforzo, quello consumistico, il paradiso del salariato. Allo stesso modo, Roberto Ciccarelli e Giuseppe Allegri descrivono in La furia dei cervelli (Manifestolibri, Roma 2011) un altro dei “troppi paradisi” neoliberisti, quello degli studenti italiani costretti a inseguire i saperi dequalificati dell’università riformata per svolgere, alla fine del ciclo, una pletora di lavori ma mai una reale attività lavorativa. Lanciati in un mercato opportunista si perdono nella deriva esistenziale delle prestazioni lavorative sottopagate e a tempo determinato. Concentrati sul culo di madama la Cultura, tra un esame e l’altro anche loro, una volta gettati nella galassia dei lavori intoneranno il mantra dell’operaio di Petri: un pezzo, un culo.
Questa, finora, è la vulgata narrativa sul futuro di chi sta ancora studiando o ha appena completato un percorso di studio o peggio ancora, si trova intrappolato nella galassia dei dottorati, degli assegni di ricerca, dei master universitari: ingrossare le fila del precariato intellettuale o fuggire all’estero, verso mercati più floridi. Il libro di Ciccarelli e Allegri si pone invece l’obiettivo non facile di rovesciare questa consolidata (soprattutto a sinistra) narrazione, per metterne a nudo l’ipocrisia. La tradizionale formula della “fuga dei cervelli”, lamentazione rituale di tutto l’establishment politico-culturale quando viene interrogato sullo stato della ricerca in Italia, nasconde in realtà l’implicita adesione all’ineluttabilità delle politiche econimiche neoliberiste che hanno causato l’attuale crisi economica. Lo sanno benne Ciccarelli e Allegri, che nella loro contro-narrazione dell’ultimo ventennio individuano nello smantellamento del diritto del lavoro tradizionale e nella progressiva marginalizzazione sociale e politica dei lavoratori autonomi, rispetto a quelli subordinati (tradizionalmente difesi dai sindacati e dalle logiche corporative), il motore dello scenario postfordista. L’impoverimento del ceto medio, i flussi migratori di masse di disperati pronti a qualsiasi prestazione lavorativa, le riforme del diritto del lavoro, all’inizio di questo decennio cancellano le possibilità per qualsiasi soggetto di entrare nel mondo del lavoro subordinato, quello tutelato dai diritti conquistati nei due secoli appena trascorsi. Parallelamente, la categoria di lavoro autonomo ha assimilato negli anni Novanta anche lo spettro del lavoro culturale: quello che Luciano Bianciardi definiva il “quartario” produce oggi prestazioni linguistico-virtuosistiche, saperi, simboli, immaginario, capacità di costruire soggettività, senso, interpretazioni e mediazioni, in una situazione d’isolamento sociale (prestazioni sottopagate, assenza di programmi previdenziali, vuoto giuridico nell’ambito della tutela dei diritti, precarietà esistenziale) che ne contraddice la centralità produttiva: i lavoratori della cultura sono gli oscuri protagonisti delle trasformazioni che interessano le principali metropoli italiane (Roma, Milano, Torino, Napoli). Fin qui, niente di nuovo sotto la luce del sole.
Eppure, secondo gli autori, dalla “Decade Malefica” 1991-2001 è emerso un soggetto politico che crea la capacità critica di distaccarsi da un mondo ingiusto attraverso la consapevolezza della propria centralità produttiva: il Quinto Stato. Questa soggettività politica sorge dunque da una riconsiderazione delle possibilità creative aperte dal lavoro autonomo e mette al centro dei propri interessi una radicale trasformazione della società in nome della difesa della vita e del vivente, dalla pretesa neoliberista del suo governo verso l’ineluttabilità della crisi globale. Laddove prende corpo (il Teatro Valle occupato, i movimenti di protesta contro la riforma dell’Università, l’unione cooperativa dei freelance workers negli Stati Uniti), l’alleanza tra lavoratori autonomi impone al proprio tempo e alle politiche neoliberiste dei governi in carica, soluzioni agli scenari di crisi che sfuggono alla logica dell’austerity e della contrazione dei bisogni vitali (si veda la cancellazione dello Stato sociale nei paesi europei), per creare esperienze di diritto materiale in cui esprimere il desiderio di vivere in modo ecologicamente equilibrato, in una prospettiva che valorizzi le relazioni qualitative. La continuità del reddito, le tutele giuridiche, le garanzie sociali per il lavoro indipendente e una più equa distribuzione delle risorse pubbliche destinate a cultura, formazione e ricerca, sono i punti nevralgici delle pratiche e delle azioni di questa soggettività politica. In questi termini, la tutela e il rilancio dei “beni comuni”, dall’acqua alla cultura, trova nel Quinto Stato un soggetto che riempie di contenuti politici un operatore semantico altrimenti vuoto.
Ciccarelli e Allegri tracciano una vera e propria genealogia del Quinto Stato che parte dal Medioevo e dalla radicale distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo (snodo fondamentale di questa storia è il Concilio di Orleans del 511, in cui il lavoratore non subordinato viene individuato come elemento irriducibile agli obiettivi della comunità cristiana), passa per i movimenti rivoluzionari della Parigi ottocentesca (tra 1830 e 1870 fanno il loro esordio in questo contesto una nuova forma di socializzazione dell’intelligenza produttiva tra classi subalterne e proletariato, insieme ad una nuova forma di politicizzazione del lavoro intellettuale), e individua nel segmento sociale intriso di idee filosofiche radicali e repubblicane dell’Europa del XVII secolo (Spinoza e il radical enlightenment prekantiano) e nel movimento cinico dell’Atene del IV sec. a.C., i propri mentori storici.
Il Quinto Stato, l’alleanza dei lavoratori autonomi nel nome del diritto all’indipendenza e della tutela del “bene comune”, ha un futuro alle spalle, un futuro che può riattualizzare con un atto creativo: quello dei lavoratori del Valle o delle persone che in questi giorni proseguono il presidio ai luoghi simbolo della finanza mondiale. Certo, il libro lascia aperta una questione: se le politiche neoliberiste di riforma dell’istruzione procedono ad un acefalo smembramento degli strumenti e delle strutture che rendono possibile la trasmissione del sapere, com’è possibile che i lavoratori culturali, nervo progettuale del Quinto Stato formatosi in una relazione dialettica con i saperi tradizionali, (r)innovino il desiderio di critica che ne costituisce la multiforme identità? O meglio, potrà ancora esserci capacità di costruire un’alternativa allo scenario imposto dalle politiche neoliberiste di ridislocazione della crisi, senza un’imminente ripensamento della trasmissione del sapere come “bene comune”?
La furia dei cervelli non risponde ad interrogativi cui solo le pratiche politiche possono fornire soddisfazione. Eppure, traccia un percorso e una narrazione, con i quali chi fa dei “beni comuni” l’ultima frontiera della lotta al neoliberismo, deve (prima che sia troppo tardi) confrontarsi. Ribaltare lo stereotipo della fuga dell’intelligenza nell’urgenza politica della sua furia, è la sfida che Ciccarelli e Allegri lanciano a chi è disposto a raccoglierla.