Appunti per una quieta insurrezione degli spazi

 

Le riflessioni che seguono scaturiscono da tre anni di esperienza vissuta tra le mura della Facoltà di Pianificazione del territorio nell’università IUAV di Venezia, in un luogo del sapere trasformatosi in “spazio di resistenza”.

Premessa

Il nostro percorso è cominciato da un’idea che affonda le radici nelle specificità della laguna: una città che voglia mantenere tale definizione non può vendersi interamente al mercato, al commercio, al turismo. Il patrimonio storico di una città è la sua memoria, la spina dorsale, l’ossatura sulla quale si costruisce l’identità delle generazioni che verranno. In quanto tale esso corrisponde alla definizione di “bene comune”, inteso come “bene non quantificabile in termini esclusivamente monetari”.

Venezia soffre di un deficit cronico di spazi pubblici, di spazi sociali, di spazi votati all’interazione delle moltitudini e, da studenti di pianificazione, abbiamo sempre rifiutato il fatto che la storica sede della nostra Facoltà (Palazzo Tron) potesse essere svenduta ai privati. Sono troppi gli esempi di luoghi simili oggi divenuti alberghi, ristoranti o negozi per turisti. Mossi da questa convinzione, dal nostro ideale, abbiamo portato avanti una lotta serrata con l’amministrazione dell’Università, sostenuti prima dalla componente studentesca, poi da una buona parte della cittadinanza attiva, convinti del fatto che le nostre idee non potessero limitarsi alle mura delle accademie, certi che esse dovessero volare fuori per raggiungere tutti. All’inizio eravamo gli “Studenti di Cà Tron”, oggi siamo “Cà Tron Città aperta”, un gruppo eterogeneo di individui che si batte per la salvaguardia della vitalità di uno degli spazi urbani più straordinari al mondo. Le riflessioni che seguono non avrebbero avuto modo di esistere se non fosse stato per le due “autoassegnazioni positive” che tra il 2009 e il 2011 hanno preso vita negli spazi di Palazzo Tron. Tra le mura della “casetta”, gli alberi del giardino e l’amaca si è sviluppato e solidificato il senso del nostro essere una “realtà attiva e resistente”. Laggiù si è materializzato ciò che senza uno spazio fisico non avrebbe avuto modo di esistere. In quei metri quadrati si è concretizzata una lotta: nello spazio, per lo spazio, con lo spazio.

Spazio

Lo spazio è tutto. Vivere è nello spazio; agire è nello spazio; lottare è nello spazio; amare è nello spazio. Ogni singolo istante fa riferimento ad un luogo o all’immagine di un luogo. Risalendo il corso della nostra vita, non possiamo fare a meno di localizzare il nostro passato: esso si costruisce nel ricordo di spazi. Il presente, la vita quotidiana, l’adesso ha luogo in spazi. Hic et nunc, qui ed ora, ovvero non c’è istante senza luogo. Persino il futuro, intangibile e visionario per definizione, non può fare a meno di localizzarsi in un territorio: poco importa se immaginato, inventato, astratto. Ciò che saremo è già nello spazio. I territori in cui viviamo svolgono un ruolo cruciale nella definizione di ciò che siamo: tracciare un segno in un determinato luogo ha un valore che va oltre noi stessi e la nostra memoria, poiché coinvolge (quasi sempre) altri individui. Chiunque potrà interpretare a modo suo quel luogo “segnato”, e dalla percezione stessa di quel segno nascerà una sorta di legame occulto tra chi lo ha tracciato e chi lo osserva. “Il territorio è l’uso che se ne fa”, ovvero ogni luogo, ogni spazio assume un diverso valore, a seconda delle azioni che in esso vengono messe in pratica quotidianamente. Lo spazio interagisce con gli esseri umani più di qualsiasi altra cosa. Si modifica con l’azione dei singoli o dei gruppi, immagazzinando e restituendo memoria. Perciò donne e uomini sono spazio, comunicano con lo spazio e inventano, creano, rivoluzionano lo stato delle cose modificandolo.

Pubblico/Privato

Ma il termine “spazio” in sé risulta vago, poiché racchiude molteplici definizioni: c’è lo spazio domestico, lo spazio del lavoro, lo spazio dello studio, lo spazio del divertimento; insomma ad ogni azione corrisponde un luogo, ad ogni idea un paesaggio, ad ogni progetto un territorio, che varia a seconda delle tradizioni, delle latitudini, della condizione sociale, della situazione economica. Ogni metro quadrato del nostro habitat viene vissuto in maniera del tutto individuale, cosicché risulta molto difficile proporre distinzioni nette e insiemi definiti. Le categorie, come spesso accade, appaiono sfumate, indefinite, inafferrabili. Eppure esistono due macrogruppi che tutti quanti sarebbero in grado di distinguere : lo “spazio privato” e lo “spazio pubblico”. In entrambi i casi si tratta di palchi sui quali gli individui (gli “attori”) mettono in scena la loro vita quotidiana, ma tra di essi c’è una scarto fondamentale: l’uno è chiuso, protetto, controllato dal soggetto che ne detiene la proprietà; l’altro è aperto a tutti e incontrollabile (se non attraverso gli organismi istituzionali). Si può dire che la differenza sostanziale tra i due stia nelle modalità di accesso: nel primo caso l’ingresso è selettivo, nel secondo sono ammessi quasi tutti. Lo spazio pubblico quindi è libero: è lì che si trovano, mescolate insieme come in un grande calderone, il confronto, la rissa, le risate, la violenza, il diverso, l’uguale, il diritto, il dovere, l’intrattenimento, il lavoro, il dolore, la tristezza, le passioni, la noia e chi più ne ha più ne metta. Lo spazio pubblico è il luogo del tutto e del niente, del vero e del falso, del bello e del brutto. È lo spazio che accoglie gli opposti su un’unica scacchiera multidimensionale che ha i caratteri del caos. È spazio di vita. È spazio vivo. È spazio vissuto. È l’agora: la piazza cittadina in cui la polis si riuniva per fare politica. Gli spazi pubblici sono i luoghi dove la conversazione riesce ad assumere i caratteri del dibattito libero, dove i pensieri si mescolano, si scatenano, si scompongono e si riorganizzano in idee, progetti, azioni. In quanto luoghi del confronto e della discussione, essi sono la base su cui si fonda la democrazia.

Aperto/Chiuso

Bisogna ora operare un’altra semplice divisione all’interno della definizione di spazio. Essa può essere ben compresa attraverso l’utilizzo di due aggettivi di senso opposto: “chiuso” e “aperto”. Per certi versi queste categorie possiedono caratteristiche simili a quelle appena descritte. Il primo infatti (spazio chiuso), è il seguito dell’intervento diretto di un singolo o di un limitato numero di individui, i quali appropriandosi di una caverna, recintando una porzione di territorio o edificando un rifugio, tracciano un segno in un determinato luogo per dichiarare la volontà di appropriarsene e quindi di escludere l’accesso di tutti per limitarlo ad alcuni. La costruzione di quattro mura e di un tetto, in genere, è l’azione che più di tutte dichiara nello spazio la proprietà. Il secondo, viceversa, corrisponde al paesaggio dello stato di natura, all’habitat selvaggio, privo di confini, di vincoli e di barriere. Esso coincide in generale con i “vuoti”: un campo, una strada, una piazza, un parco, rientrano a pieno titolo nella definizione di spazio aperto.

Cocktail

È evidente come questa macro distinzione “aperto-chiuso” ammetta migliaia di eccezioni. Cosa accade infatti quando uno spazio “chiuso” rimane “aperto”? Dove si scardinano queste categorie? Provando a mescolare le tipologie di spazio definite fino ad ora emergono delle curiose evidenze: uno spazio aperto che viene chiuso, può corrispondere ad uno spazio pubblico il cui accesso venga regolato da un singolo o dalle istituzioni. Un parco pubblico infatti, può essere recintato affinché l’accesso sia controllabile di giorno e vietato di notte; allo stesso modo un proprietario terriero può organizzare ronde che impediscano ai viandanti non autorizzati il passaggio; il caso più grave può coincidere con lo Stato che segrega in “ghetti a cielo aperto” porzioni della popolazione, privandole della libertà. Ma quali sono i casi in cui gli spazi chiusi possono definirsi aperti a tutti gli effetti? Un qualsiasi edificio pubblico può forse avvicinarsi a tale definizione. Un organo dello Stato realizza un manufatto e lo adibisce ad un uso specifico: educativo, ricreativo, lavorativo, amministrativo, ecc. Esso resta aperto a tutti coloro che sono coinvolti nei canali legali definiti dalle istituzioni e, spesso, l’accesso è consentito a molti (ma non a tutti), nonostante vi siano regole precise da rispettare e vincoli di orario e di comportamento. Un palazzo che ospita l’Università, ad esempio, corrisponde a queste caratteristiche: quasi tutti possono accedervi negli orari di apertura, a patto che mantengano un comportamento adeguato.

Burocrazia

Tuttavia occorre soffermarsi su una questione: si può davvero definire “aperto” uno spazio “chiuso” come una sede universitaria, un ufficio comunale o una palestra di proprietà pubblica? L’ammontare enorme di regole, leggi e vincoli, che ne preordinano l’accesso e la gestione, fanno di questi luoghi delle zone ad accesso libero? La risposta, evidentemente, è in parte negativa, poiché le chiavi dello spazio sono saldamente in mano ad un gruppo limitato di persone, che fa capo alle istituzioni. Esse, seguendo i parametri della democrazia rappresentativa, calano “dall’alto” un sistema procedurale fisso che addomestica e irrigidisce la libertà d’azione e d’accesso: questa struttura regolamentare rigida va sotto il nome di “burocrazia”. Essa definisce il complesso iter legislativo e procedurale attraverso il quale la cittadinanza è costretta a passare per poter accedere, vivere o gestire uno spazio pubblico “chiuso” e spesso, come qualsiasi altro organismo regolamentare inflessibile, finisce per sopire molte delle spinte più creative che “dal basso” si propongono di innovare i sistemi di ingresso, di organizzazione e di valorizzazione degli spazi pubblici. La burocrazia (specie per come è strutturata oggi nel nostro paese) uccide la libera iniziativa dei cittadini e subordina ogni azione e ogni proposta all’approvazione delle istituzioni, delle corporazioni e degli organi di governo più potenti. Oggi anche le più semplice delle attività, la più banale e innocua delle idee deve passare attraverso svariati livelli istituzionali, cosicché, per ottenere qualsiasi cosa, è necessario attendere settimane, mesi e forse anni. Ma la vita è subito, in ogni istante e a volte è impossibile perseverare nell’attesa e nell’immobilismo senza agire. Come se non bastasse, il solo fatto di avviare il procedimento per una qualsiasi richiesta istituzionale, non implica che la risposta finale sia positiva. E anche ammesso che lo sia, spesso viene corredata di ulteriori vincoli, restrizioni e regole. Certo lo Stato non può fare a meno di queste procedure per il suo ordinario funzionamento, ma allo stesso tempo certi individui non possono fare a meno di agire, impossessandosi di ciò che solo una montagna di scartoffie impedisce loro di ottenere in tempi ragionevoli.

Non abbandonarmi

Per tornare a parlare di spazio è necessario riformulare la domanda precedente: quali spazi chiusi possono definirsi aperti a tutti gli effetti? Si è visto come il caso di un edificio pubblico non corrisponda propriamente alla definizione: l’apertura condizionata dalla burocrazia non può consentire un’accessibilità totale. Bisogna quindi trovare altri esempi. Si prenda allora il caso di uno spazio coperto (e quindi “chiuso”) abbandonato o inutilizzato da anni. Uno spazio morto e in rovina dime nticato dalle istituzioni e dai privati che ne detengono la proprietà. Finché esso rimarrà vuoto non sarà altro che un elemento del paesaggio, un oggetto qualunque appoggiato sul territorio. Allo stesso tempo però, esso presenterà in nuce tutte le caratteristiche di uno spazio chiuso “aperto”. Cosa mancherebbe per trasformare un luogo simile in uno spazio pubblico? Un progetto e delle persone determinate ad applicarlo. Un’idea che lo trasformi in un luogo di incontro, di dibattito, di scontro. Una visione che inietti la giusta dose di adrenalina a quelle quattro mura. Un ideale che lo resusciti e riporti in vita quei metri quadrati di spazio.

Abusivo

L’unico scoglio che separa l’attuazione di questa idea, di questo progetto, di questo ideale, si cela dietro un altro termine a dir poco ambiguo: “abusivismo”. Tutto ciò che sta al di fuori delle direttrici tracciate dalla burocrazia è abusivo, illegale, intollerabile per le istituzioni. Eppure in certi casi l’aggettivo “abusivo” sembra essere del tutto fuori luogo. Il termine “abuso” viene dal latino Abusus, che a sua volta deriva da Abuti, verbo composto dalla particella Ab, che indica allontanamento, e Uti, che significa letteralmente Usare. Insomma in latino questo termine si riferisce a ciò che eccede nell’uso, a ciò che è usato male. Ma è davvero possibile descrivere con questo aggettivo tutte le esperienze tacciate di abusivismo? Restituire vitalità agli spazi putrescenti e abbandonati dai “legittimi” proprietari, può davvero essere considerato un abuso? Evidentemente no, anzi… Certe esperienze e l’impegno di alcune persone andrebbe valorizzato e sostenuto correttamente, specie in un periodo di crisi come quello che stiamo vivendo. Perché non assecondare il desiderio volontario di quelli che, investendo il loro tempo libero, si dedicano allo sviluppo e alla rigenerazione di spazi inutilizzati, creando luoghi di aggregazione, di socialità e di cultura? Perché non ripensare il welfare promuovendo esperienze di gratuita autogestione positiva degli spazi? Perché ostacolare chi non ha nulla da guadagnare se non un luogo in cui condividere con la cittadinanza le proprie tensioni, i propri interessi e i propri ideali? Perché perseverare in una ottusa e iperburocratica cecità, che impedisce di vedere le cose positive laddove è evidente che ve ne siano? Perché?

Quieta insurrezione

 

È sufficiente spendere qualche ora del proprio tempo navigando nel web, per rendersi conto di come oggi la questione degli “Spazi autogestiti” stia assumendo un ruolo centrale nel dibattito nazionale. Dovunque nuove e vecchie generazioni sentono il bisogno di uno “Spazio”, dove affondare le radici di una nuova proposta culturale e sociale, che possa segnare la direttrice del cambiamento. Gli spazi in cui incontrarsi e discutere di questioni più o meno importanti stanno svanendo uno dopo l’altro. Lo spazio pubblico viene mortificato in ogni latitudine del paese: con videocamere, cancelli, vigilantes e, soprattutto, con l’insormontabile muraglia della burocrazia. Laddove, con grande responsabilità, bisognerebbe comprendere e valorizzare le iniziative che i cittadini trasformano in realtà, modificando e rivitalizzando luoghi che altrimenti continuerebbero il loro processo di decomposizione, gli amministratori negano l’esistenza stessa della “bellezza”, della cultura, della socialità e del senso civico manifesto nelle libere iniziative di coloro i quali si impegnano in prima persona (gratuitamente) per trasformare nel presente il proprio futuro. Ed è proprio attraverso la gestione diretta degli spazi che i cittadini possono iniziare il cammino verso il cambiamento: assumendosi la responsabilità e i doveri imposti dall’ottenimento degli spazi, reclamando i loro diritti ed affermando le loro capacità nel mantenimento e nella valorizzazione degli stessi. Il momento storico che andiamo ad affrontare ci pone di fronte a problemi gravi, che hanno a che fare con una crisi economica, culturale e sociale che negli ultimi anni martella le tempie del paese. Una via per provare a risolverla pacificamente può essere proprio quella di consentire ai cittadini di occupare e autogestire (con l’obiettivo di incrementare e sostenere ciò che il welfare non riesce più a garantire) gli spazi pubblici e privati inutilizzati o sotto-utilizzati. I territori in cui viviamo svolgono un ruolo cruciale nella definizione di ciò che siamo: tracciare un segno in un determinato luogo ha un valore che va oltre noi stessi e la nostra memoria. Ogni tipo di azione nello spazio, traccia un segno molto più duraturo di qualsiasi frase, parola o promessa. Essere attivi nello spazio è necessario, per dimostrare, nella concretezza della realtà, il valore delle idee, la bontà dei propositi, la materializzazione della speranza.

Per info su “Cà Tron Città aperta”: catron.cittaperta [at] gmail.com

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