In occasione dei quarant’anni dalla sua fondazione, l’École des hautes études en sciences sociales ha deciso di ricordare quaranta libri che hanno segnato il dibattito degli ultimi decenni nel campo delle scienze umane attraverso una serie di “recensioni”. Pubblichiamo di seguito la traduzione italiana del testo dedicato a Le portrait du roi (Minuit, 1981).
Rileggere Il ritratto del re trentaquattro anni dopo la sua pubblicazione è un’esperienza rivelatrice: alcune delle ipotesi delineate da Louis Marin si trovano al centro dell’attuale riflessione sul rapporto tra immagine e potere, mentre altre sono rimaste in parte fraintese nonostante la loro capacità euristica.
Alcune di queste incomprensioni sono legate a delle scelte terminologiche: Marin usa il termine “ritratto” e ancora più spesso quello di “rappresentazione” laddove oggi ci si aspetterebbe di trovare “immagine” e “agentività”.
Il termine “ritratto” può suscitare una sorpresa quando si scopre che in questo libro l’autore non si occupa di pittura, ma di un insieme di testi che vanno dal progetto per una storia del re di Pelisson (1670) alla “storia metallica” del regno di Luigi XIV, dal piano di Parigi di Gomboust (1652) a due scritti di Félibien: una guida di Versailles e la descrizione della festa offerta dal re nel 1674 al ritorno della conquista della Franca Contea.
Ciò che Marin chiama “ritratto del re” si compone di tutte le forme discorsive, rituali e visive attraverso le quali il re è rappresentato come figura mentre il suo corpo è assente.
Al centro di questa costruzione multimediale, Marin pone un’idea tanto semplice quanto estrema nelle sue conseguenze: il re non è tale che nella rappresentazione. In altre parole: il potere reale non esiste prima delle forme discorsive, performative e rituali che lo rappresentano. La semiotica di Marin è sostitutiva: la rappresentazione è ri-presentazione, sostituzione del re assente attraverso un segno presente. Allo stesso tempo, la rappresentazione è anche energetica perché l’operazione di presentazione del re non si limita a rimpiazzare ciò che è assente, ma gli dona una presenza che non è soltanto potente e affascinante – e dunque capace di produrre terrore e amore – ma anche giusta e capace di assumere valore di legge.
In un passaggio scritto un anno prima della pubblicazione de Il ritratto del re e incluso in Politiques de la représentations nel 2005, Marin ha riassunto con queste parole cosa intendesse dire sostenendo che il potere del re è la sua rappresentazione:
Che cosa è dunque il potere? Che cosa è dunque potere? Potere è essere in condizione di esercitare un’azione su qualcuno o su qualcosa; non agire o fare, ma avere la potenza, avere la forza di fare o di agire. Potere è, nel suo senso più generale, essere capaci di forza, avere una riserva di forza che non si spende ma che si è in condizione di spendere. Ci si può domandare che cosa sia una forza che non si manifesta. Potere significa dunque prima di tutto avere potenza ma è anche e per giunta valorizzare questa potenza come obbligo, generatore di dovere come legge. In questo senso, potere è istituire in quanto legge la potenza, concepita come possibilità e capacità di esercitare una forza. Ed è qui che la rappresentazione svolge il suo ruolo in quanto mezzo del potere e suo fondamento. In altre parole, propongo come ipotesi di lavoro che il dispositivo rappresentativo sia in grado di operare la trasformazione della forza in potenza, della forza in potere. Da un lato, quello che riguarda la potenza, mettendo la forza in stato di riserva e dall’altro, valorizzando e giustificando tale potenza come stato legittimo e obbligatorio.1
Le analisi ravvicinate dei testi e delle immagini che compongono Il ritrato del re mostrano come la rappresentazione metta in riserva la forza all’interno dei segni e in che modo essa esprima la forza all’interno del discorso della legge.
Marin ha offerto alle scienze sociali un insieme di strumenti euristici decisivi. Da un lato, in effetti, la sua concezione energetica del segno/rappresentazione illumina il rapporto tra forme e forze, mentre questo rapporto, essenziale all’analisi del “lavoro delle immagini” e dei suoi effetti, sfugge a quegli approcci in cui l’oggetto è la relazione tra le forme e la loro significazione. D’altra parte, rinnovando la riflessione sulla dimensione performativa del segno/rappresentazione, la riflessione di Marin permette di riconnettere il campo dell’immagine e quello dell’antropologia e della teologia.
Collocando la sua teoria del segno in relazione a quella proposta dai logici di Port Royal, Marin rileva la vicinanza tra la “presenza reale” di Cristo nell’eucarestia e la presenza reale del re nella sua rappresentazione. Pascal aveva considerato la transustanziazione reale come un’acquisizione perversa senza fondamento teologico. La sua riflessione sul ruolo degli “effetti” nel fenomeno della credenza è fondamentale per Marin come lo è la concezione pascaliana del rapporto tra giustizia e forza, elemento fondatore di un potere che non è effettivo se non attraverso la potenza di una “minaccia legale” della quale i soggetti percepiscono i segni.
La nozione di rappresentazione che Marin mette al lavoro è un’operazione duplice. Di certo la rappresentazione ha uno scopo mimetico o transitivo: essa rappresenta qualcosa, il re. Ma, allo stesso tempo, essa ha una dimensione riflessiva e pragmatica: essa lo presenta, essa impone la sua presenza con una forza tanto più grande quanto più la dimensione ostensiva è naturalizzata. In altre parole, l’impalcatura della presentazione della rappresentazione è visibile soltanto a uno sguardo critico, come quello di Pascal quando scrive:
L’abitudine di vedere i re accompagnati da guardie, tamburi, ufficiali e da tutto quell’apparato che piegano il meccanismo al rispetto e al terrore, fa sì che il loro viso, quando talvolta compaiano soli e senza questo seguito, incuta nei sudditi rispetto e terrore. E questo poiché nella mente non si scindono le loro persone dal loro seguito che di solito si vede unito a loro. E la gente, che non sa come che tale effetto deriva da questa abitudine, crede invece che derivi da una forza naturale.2
Se si sottrae alla nozione di rappresentazione la dimensione pragmatica e riflessiva del “presentarsi” e si considera soltanto la dimensione transitiva o mimetica, si finirà fuorviati lungo i sentieri della “critica della rappresentazione” così come sviluppata, per esempio, nella prospettiva modernista dopo l’affermazione dell’arte astratta o nei lavori che hanno come oggetto le semiotiche non mimetiche proprie delle culture non occidentali o situate al di fuori del cosiddetto periodo “classico”.
L’interesse verso l’articolazione mariniana delle nozioni di rappresentazione e potere ha, senza dubbio, sofferto questa “critica della rappresentazione” che non soltanto le è estranea, ma che essa permette di elaborare, spingendosi ben al di là dei visual studies dei quali condivide la preoccupazione di collocare le immagini all’interno dei rapporti di potere dei quali partecipano.
Marin non si limita mai a denunciare il “vero volto” che si nasconderebbe sotto le belle apparenze dell’arte. Penetra in profondità ognuno degli oggetti studiati attraverso una particolare forma di descrizione analitica sostenuta da un linguaggio specifico, ricco e agile che dispiegail gioco del testo. Si serve di categorie proprie al diciassettesimo secolo per assegnare a quest’ultime una nuova efficacia nel confronto con la teoria del linguaggio del suo tempo. Rifiuta tutte le generalizzazioni e riduzioni, mostrando ognuno dei testi analizzati “al lavoro”, ovvero nell’esercizio della sua efficacia e non come un deposito inerte di valori e di idee.
Si cercherà invano in Il ritratto del re l’esposizione sintetica di un metodo dal quale estrarre un’etichetta vendibile sul mercato delle “teorie dell’immagine”.
Marin risponde a questioni d’ordine storico, filosofico e semiotico riguardanti il potere in generale e il potere assoluto in particolare, ma sempre indirettamente, manipolando lentamente immagini e testi, fino a quando questi non si dispiegano di fronte allo sguardo del lettore in quanto portatori di una teoria implicita, finalmente afferrabile nei termini propri di tale oggetto; una teoria del singolare, ovvero dell’“oggetto teorico”.
Espressione, quest’ultima, che definisce l’approccio di Marin, paradossalmente preso tra la storicità e materialità di un testo particolare e l’astrazione di una teoria che non può mai raggiungere la semplice purezza dell’astrazione concettuale e che, proprio per questo motivo, costituisce il modo migliore per affrontare le strutture e gli effetti degli oggetti ibridi che compongono il ritratto del re.
Note
- L. Marin, Le pouvoir et ses représentations (1980), in Politiques de la représentation, a cura di A. Cantillon, G. Careri, J.-P. Cavaillé, P.-A. Fabre, F. Marin, Paris, Collège International de Philosophie, Kimé 2005, pp. 73-74.
- B. Pascal, Pensieri, a cura di A. Bausola, Bompiani, Milano 2000, pp. 163-165.